
di Marco Pondrelli
La crisi e le contraddizioni interne agli Stati Uniti sono aumentate esponenzialmente in questa fase di passaggio, nella quale abbiamo un Presidente eletto che si comporta da Presidente e un Presidente in carica non presente a sé stesso, che viene etero diretto dal deep state. In mezzo a questa confusione però alcuni dati iniziano ad emergere.
La scorsa settimana ci siamo occupati del conflitto ucraino, in questo caso vogliamo mettere a fuoco altri scenari a partire da quello mediorientale. Il dramma palestinese non ha fine, perché nessuno oggi è in grado di fermare la forza distruttiva israeliana. I dati che leggiamo, probabilmente errati per difetto, sono quelli di un genocidio nel quale gli ospedali sono diventati il target principale. Si vuole annientare un popolo, i bambini morti non sono un errore ma il perseguimento di una feroce ma al contempo lucida strategia.
Sarebbe sbagliato ridurre questo conflitto alle scelte di Netanyahu, il disegno strategico dietro a questa guerra criminale non è salvare un intrallazzone dal carcere ma ridisegnare la mappa della regione. Occorre constatare che l’asse della Resistenza o la mezzaluna sciita ha subito sconfitte plurime in questi mesi. Il Libano ha subito colpi molto duri e anche se Hezbollah è riuscita a resistere la sua dirigenza è stata duramente colpita. Avere sbloccato l’elezione del Presidente, anche grazie al sostegno di Hezbollah, è un segnale importante ma la situazione resta allarmante.
Anche in Siria le cose non vanno meglio. In questo Paese l’asse guidato dall’Iran con il sostegno della Russia aveva respinto l’attacco statunitense fatto con la manovalanza dell’Isis. Cosa sia successo e come il governo di Assad sia potuto crollare così rapidamente è difficile da dire. Ci si può chiedere se alla base ci sia stato un dialogo fra le principali potenze, ma questo sarà chiaro solo in futuro quando si capirà il ruolo del nuovo governo. La realtà intanto è che un governo laico è crollato e la Siria rimane sospesa fra destabilizzazione e pericoli di involuzione reazionaria, chi in passato faceva sponda con i terroristi dell’Isis e di al qaeda per portare la ‘democrazia’ in Siria, oggi può godersi le macerie create. Gli atlantisti italiani possono esultare per l’umiliazione di Putin salvo correre il rischio di ritrovarsi qualche base russa in Libia. Chi è causa del suo mal…
Lo Yemen rischia di essere, come ben evidenziato ad Enrico Vigna, il prossimo fronte dello scontro. Ovviamente gli houti sono i terroristi nella descrizione della stampa occidentale, nella realtà un popolo stremato da una sanguinosa guerra civile (combattuta anche con armi italiane) si sta battendo per la causa palestinese, un esempio che anche altri Paesi dovrebbero seguire. La situazione in Yemen si è raffreddata in seguito alla riapertura del dialogo fra Iran e Arabia Saudita (mediata dalla Cina), se gli houti possono colpire Israele lo possono fare perché non hanno un fronte interno aperto.
In questo quadro il ruolo dei sauditi è delicato, Israele vorrebbe arrivare al riconoscimento formale con Riad per isolare l’Iran, dividendo il campo avversario. Se l’Arabia Saudita attaccasse gli houti questi sarebbero presi fra due fuochi con il rischio di arrivare ad una “normalizzazione” dello Yemen. Al momento Riad è stata attenta a non riaprire il fronte con l’Iran, ma il suo atteggiamento rimane ambiguo, evidentemente frutto di una delicata dialettica interna, c’è stato un avvicinamento ai brics+ seguito da un rallentamento nell’adesione. Dall’altra parte sembra rimanere aperto il canale di dialogo con la Russia confermato dal costante dialogo per quanto riguarda la determinazione del prezzo del petrolio. Quella che è stata definita da Dilip Hero la guerra fredda del mondo islamico potrebbe riaprirsi, per Israele sarebbe il modo migliore per chiudere la questione palestinese dividendo il campo avversario.
La situazione mediorientale non è l’unico motivo di preoccupazione. Oltre al conflitto ucraino altre nubi rischiano di addensarsi all’orizzonte. Le uscite di Trump sull’annessione del Canada e l’invasione di Groenlandia (Danimarca) e Panama devono fare riflettere. Da uomo d’affari spietato quale è Trump non pensa alla guerra, il suo obiettivo è ottenere i risultati migliori per gli Stati Uniti ricorrendo alle minacce. Ma cosa vuole il Presidente eletto? Qual è il suo obiettivo? Può sembrare strano ma Canada, Groenlandia e Panama hanno un denominatore comune: la Cina. Come ricordato da Giulio Chinappi non sarebbe la prima volta che gli USA intervengono a Panama, il canale ha un importanza strategica per gli Stati Uniti e il ruolo della Cina va limitato in tutti i modi. La nazione panamense nasce con una guerra degli USA contro la Colombia (usata da Lenin per spiegare che l’autodeterminazione non è sempre progressiva) e il canale è considerato, anche se non lo è più, loro proprietà, potere aprire e chiudere i rubinetti a proprio piacimento darebbe a Washington una grande forza contrattuale.
Per analizzare l’importanza di Groenlandia e Canada occorre spostarsi nell’Artico. È vero che l’isola danese è ricca di terre rare ed è vero che il primo investitore nel Paese è la Cina ma questo non spiega l’uscita di Trump. La Cina ha iniziato ad usare, durante i mesi meno freddi quando la navigazione è possibile, la rotta artica non solo perché permette di evitare lo Stretto di Malacca ma anche perché più veloce di quella che dall’Indo-Pacifico arriva in Europa. Pur non affacciandosi su questo mare la Cina si considera uno Stato artico (è entrata come osservatore permanente nel Consiglio artico), questa l’ha porta a rafforzare anche in questo quadrante il suo rapporto con la Russia. Gli Stati Uniti sanno che non hanno la forza per sfidare la Russia nell’Artico per cui ritengono necessario creare due colli di bottiglia. Da una parte c’è lo stretto di Bering e dall’altra un asse che comprende Islanda e Groenlandia, il controllo di quest’ultima, che nel precedente mandato Trump voleva comprare, è quindi importante da un punto di vista geostrategico.
In passato, non importa il colore politico dell’Amministrazione USA, anche con il Canada ci sono stati screzi perché quest’ultimo ritiene di avere piena sovranità sul passaggio a Nord Ovest. Gli USA sanno che l’Artico è uno degli snodi del conflitto globale e vogliono proiettare anche lì la loro influenza, senza sfidare direttamente Russia e Cina ma limitandosi a circondare l’area.
La Presidenza Trump sembra presentarsi quindi con la volontà di rafforzare gli interessi degli USA ma a differenza delle precedenti amministrazione, neo lib e neo con, non lo farà creando aree di destabilizzazione ma tentando di costruire un equilibrio avanzato (ovviamente dal punto di vista di Washington). Stiamo ovviamente tentando previsioni, la conferma o meno a quanto esposto l’avremo dopo il 20 gennaio.
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