di Maria Morigi
Per spiegare la campagna di fake anticinesi che si sommergono, potremmo spostare il punto di vista iniziando dalla presenza Usa in Afghanistan. Infatti, se il primo obiettivo Usa era stato di punire i Talebani e salvare il Paese dal rischio islamizzazione dello Stato, ora le cose sono cambiate: l’Afghanistan è la pedina di un Grande Gioco orientato contro la Cina e contro i progetti di multilateralismo della Cina.
Prendo spunto da un video (Pacific Dialogue – Ron Paul Institute – 2018) in cui Lawrence Wilkerson, colonnello dell’esercito americano in pensione e capo dello staff dell’ex segretario di stato Colin Powell, fa l’inquietante dichiarazione: “Siamo in Afghanistan per lo stesso motivo per cui eravamo in Germania dopo la seconda guerra mondiale, vogliamo essere il più vicini possibili alla Belt and Road cinese (BRI). Se dobbiamo colpire con la nostra potenza militare possiamo farlo dall’Afghanistan. La seconda ragione è poter stabilizzare la potenza nucleare del Pakistan. La terza ragione è che, se la CIA deve montare un’operazione come ha fatto Erdogan in Turchia contro Assad, 20 milioni di Uyguri si trovano in Sira. Se la CIA vuole destabilizzare la Cina, il modo migliore sarebbe fomentare queste forze interne.”
Le parole del colonnello pronunciate più di due anni fa chiariscono le intenzioni reali degli Usa: l’Afghanistan è migliore posizione strategica per 3 obiettivi: 1-impedire il progetto BRI che mira a costruire percorsi di connettività e di cooperazione; 2-“stabilizzare” il Pakistan affinché non si realizzi il progetto China -Pakistan Economic Corridor, diramazione organica della BRI; 3- sostenere in funzione anti-cinese la dissidenza degli Uyguri già reclutati tra le fila di gruppi terroristici che operano in Siria e Vicino Oriente. Tutti obiettivi organici al fatto che la BRI è vista dall’Alleanza atlantica come una sfida all’ordine mondiale e al quadro di sviluppo dominato dall’Occidente.
Tuttavia, viene da dire: “Nemico nuovo – strategie vecchie”, costruite su “teorie del controllo”[1] che, se fino a pochi anni fa si occupavano solo di droga, petrolio e risorse energetiche, nel 2011 sono state “rinnovate” dalla politica del Pivot to Asia annunciata da Hillary Clinton con la previsione di accerchiare la Cina nella regione Asia-Pacifico, per terra e per mare. Tenuto conto anche di quale efficienza siano dotate le basi militari Nato[2], comprendiamo meglio il perché delle ricorrenti campagne denigratorie lanciate contro la Cina senza prove credibili e persino in tempi di pandemia.
Afghanistan
Prima di analizzare le “aree calde” della BRI, facciamo il punto sulla situazione in Afghanistan dove la presenza militare Usa non ha potuto impedire l’espansione di investimenti e rapporti commerciali con la Cina che si è inserita nello scenario afghano finanziando piani di sviluppo agricolo e infrastrutture. Dal 2015 la National Petroleum Corporation cinese si occupa di esplorazioni dei giacimenti petroliferi; nel 2016 è stato siglato un Memorandum di Intesa Cina-Afghanistan che prevede l’elargizione di fondi cospicui; la Cina ha mostrato interesse per l’espansione della rete ferroviaria afghana; imprese cinesi sono impegnate in progetti estrattivi e nella costruzione di nuove strade. Intento di Pechino è proprio includere l’Afghanistan nei progetti infrastrutturali della BRI, puntando a collegare la regione dello Xinjiang all’Afghanistan tramite il corridoio di Wakhan che, segnando il breve confine con la Cina, diventerebbe la porta di accesso ai mercati centrasiatici. Tale iniziativa è vista con contrarietà da Washington per cui gli investimenti cinesi sarebbero un palese tentativo di espandere l’egemonia cinese a livello globale. Mentre Pechino di fatto si accontenterebbe che Kabul non diventasse un campo di addestramento per militanti del “Turkestan orientale” e di movimenti indipendentisti uyguri. Stabilizzazione, sicurezza e pacificazione rappresentano le condizioni fondamentali per una partnership più consistente da parte di Pechino.
Xinjiang
Per spiegare la furia anticinese di Washington, ora soffermiamoci sugli obiettivi Xinjiang e Pakistan, cioè quei territori che possono essere strategicamente controllati dagli Usa, ancora ben insediati in Afghanistan.
“Porta della Cina”, lo Xinjiang è un gateway cruciale. Oltre 5.000 km di frontiera con Paesi-chiave: Russia, Mongolia, Kazakhstan, Kirghizistan, Tagikistan, Pakistan, Uzbekistan + Afghanistan per un breve tratto. Come hub per i trasporti e centro logistico – culturale, svolge un ruolo importante nella crescita economica dell’intera Cina, poiché gran parte delle importazioni ed esportazioni da e verso l’Asia Centrale passano attraverso il suo territorio, nella posizione migliore per espandere commercio e legami con le nazioni vicine e con l’Europa. La campagna Go West lanciata nel 1999 dal presidente Jiang Zemin ha dato impulso ad un consistente programma di sviluppo economico con progetti per sviluppo infrastrutturale, ampliamento della rete dei trasporti, strade, aeroporti e linee ferroviarie, sfruttamento delle abbondanti risorse minerarie, oltre alla costruzione del gasdotto Xinjiang-Shanghai e numerosi progetti per condotte in grado di trasportare il greggio verso Tianshui, ultimo terminale occidentale della Cina interiore, per immetterlo nelle condutture dirette ad Est. Il Deserto del Taklamakan è attraversato da due autostrade ognuna di circa 500 km. In meno di 10 anni (i lavori si sono conclusi nel 2017) è stata costruita l’autostrada Pechino-Urumqi (2.768 km.) che ha ridotto il percorso tra le due città di 1.300 km. Secondo il Programma di Costruzione dei Trasporti dello Xinjiang (2016-2030) è in corso finale di realizzazione un miglioramento dei collegamenti ferroviari interni, in modo che i centri amministrativi di tutte le prefetture e il 75% delle aree di contea dello Xinjiang siano collegati via ferroviaria. Per quanto riguarda le reti ferroviarie internazionali, dal 2014 è operativa la tratta ferroviaria Chongqing-Xinjiang-Europa con 681000 veicoli importati in sei mesi (tra i quali marchi storici come BMW, Benz e Volkswagen). Numeri significativi per l’industria europea, in particolare quella tedesca. Al Porto di Rotterdam direttamente dalla Cina arrivano i container su treno; nel 2017 il primo treno merci cinese parte da Wuhan per raggiungere Londra (in 15 giorni, un mese in meno che per via mare).
Con il progetto BRI, annunciato dal presidente Xi Jinping nel 2013, unitamente alla proposta di costituire una Banca Asiatica per gli Investimenti Infrastrutturali (AIIB), la Regione Autonoma dello Xinjiang è pronta a svolgere un ruolo intercontinentale destinato a cambiare gli equilibri mondiali. Per di più lo sviluppo infrastrutturale è andato di pari passo ad un evidente e certificato sviluppo di scuola, politiche scolastiche e istituti ad alta specializzazione, lavoro e tutela dei lavoratori migranti, reddito di base, sanità e creazione di eccellenze (presso gli ospedali di Urumqi e Kashgar si curano stranieri che provengono da tutto il centro Asia), protezione delle minoranze, di cui 13 principali, e della religione islamica.
Quando la UE aderisce e firma nel 2015 il Memorandum UE-Cina, la BRI diventa per gli Usa un incubo reale. Nel 2016 la Commissione europea firma il MoU per una piattaforma per la connettività ed a seguire firmano memorandum e accordi singoli Stati europei ed extra-europei. Quindi, come meravigliarsi se gli Usa e le agenzie stipendiate dall’ONU attaccano la Cina con ogni metodo, dalle accuse di imperialismo, selezione razziale, anti-islamismo, genocidio, confezione di pacchetti “violazione dei diritti umani”, fino all’invenzione di campi di lavoro forzati e atrocità varie (ad es. sterilizzazione forzata)… Il fatto è che il grande progetto multilaterale BRI, basato sulla logica win-win, proprio non piace all’America First che crede di poter continuare a mantenere le redini del Grande Gioco mondiale.
Pakistan
Anche il Pakistan è obiettivo di controllo, a portata di mano qualora gli Usa mantengano la loro posizione in Afghanistan. In Pakistan si percepisce la dipendenza dal modello americano. I comuni cittadini ingenuamente attribuiscono agli Usa il compito di sostenitori, protettori e “guardiani” che tutelano dalle influenze e dagli appetiti di India e Cina e si oppongono al terrorismo che infesta zone tribali. Il Pakistan “di governo” tiene soprattutto in gran conto la collaborazione con gli Usa per investimenti e infrastrutture. Fin dell’annuncio (2017) della nuova strategia americana nella regione, il presidente Trump aveva esortato il Pakistan a non dare rifugio ai terroristi e ad impegnarsi nel contrastare i militanti jahedisti. Situazione un po’ schizofrenica a dire la verità, perché il governo pakistano rivendica di essersi distinto nella lotta contro il terrorismo con costi enormi di vite e denaro. Le relazioni con gli Usa sono peggiorate all’inizio del 2018 quando il presidente Trump, annunciando la sospensione di aiuti, si è scagliato contro il Pakistan che si sarebbe “preso gioco” di Washington [nota personale: gli americani avranno le loro strategie, ma non capiscono niente del modo di ragionare dei loro partner e/o nemici e neppure si adeguano!].
Se i rapporti Usa-Pakistan procedono tra frequenti accuse reciproche e sospensioni, si deve tener conto degli interessi cinesi in quella infrastruttura che costituisce parte vitale della Belt and Road, ovvero il China-Pakistan Economic Corridor (CPEC). Il Corridoio economico rappresenta per Cina e Pakistan un investimento di strategica importanza, con reciproci vantaggi logistici per il dimezzamento delle distanze (solo 3000 km. via terra) tra Xinjiang e sbocco al Mare Arabico nel Porto pakistano di Gwadar in acque profonde. Gwadar, nelle aspettative cinesi, dovrebbe diventare il secondo hub commerciale dopo Hong Kong. Consentendo in parte di evitare il collo di bottiglia dello Stretto di Malacca, sarebbe la prima diramazione marittima della BRI per importazione di idrocarburi dal Medio Oriente in Cina. I vantaggi per il Pakistan consisterebbero in un sensibile miglioramento del sistema energetico e di trasporto del paese, oltre che una spinta per relazioni economiche con Kazakhstan, Kirghizistan e Tagikistan.
Immaginato a metà 2013, contestualmente col primo lancio del progetto BRI, e lanciato nell’aprile 2015, il CPEC segna una nuova epoca di relazioni bilaterali per cooperazione, sicurezza e per il decollo del Pakistan. Infatti, grazie all’investimento cinese, le casse statali pakistane sono state rifornite di valuta e si è realizzata una maggiore efficienza delle centrali elettriche, limitando i cali di corrente che affliggono il paese.
Ciò però rischia di aggravare le tensioni politiche interne e generare contrasti con l’alleato Usa e con l’India, preoccupati entrambi che il Corridoio subordini agli interessi cinesi tutta l’area. Tali preoccupazioni investono anche il versante terrorismo, poiché è interessata la regione del Balucistan, tagliata in due dal confine con l’Iran ed estesa in Afghanistan, la più vasta e meno sviluppata delle regioni pakistane, dove il 70% della popolazione vive in condizioni di povertà assoluta e dove il governo non ha ancora attuato politiche efficaci per contrastare l’esclusione economica. Vi opera il Baloch Liberation Army (Bla) nato nel 2000, che occupa aree tribali vicine a zone estrattive e allo strategico porto di Gwadar, e fomenta spinte separatiste e jihadiste con un pesante tributo di sangue, sia per l’Iran che per il Pakistan e l’Afghanistan.
Da sottolineare che il CPEC non solo porterà benefici economici a Cina e Pakistan, ma avrà un impatto positivo sui collegamenti geografici e umani a rafforzamento di scambi culturali. Quindi a che cosa mai serve la “stabilizzazione” americana del Pakistan?. Siccome nessuno è fesso, è evidente che la stabilizzazione di cui parla il colonnello Wilkerson equivale a “controllo”. Una sorta di patto per cui il Pakistan, controllato a vista dal confinante Afghanistan, non può ora e non potrà domani liberamente scegliere i propri partner commerciali, ma sentirà sempre sul collo il fiato Usa…oltre che quello dell’India, Nemico storico.
Note:
1. Z. Brzezinki: La grande scacchiera. Il mondo e la politica nell’era della supremazia americana, 1998.
2. Le basi militari Usa più importanti in centro-Asia sono Karshi-Khanabad nel sud dell’Uzbekistan e Manas a nord di Bishkek, in Kirghizistan, entrambe ex-basi sovietiche acquisite durante la corsa all’invasione dell’Afghanistan nel 2001.