di Manlio Dinucci
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LA GUERRA USA/NATO IN IRAQ
Il piano statunitense di attaccare e occupare l’Iraq appare evidente quando, dopo l’occupazione dell’Afghanistan nel novembre 2001, il presidente Bush mette l’Iraq, nel 2002, al primo posto tra i paesi facenti parte dell’«asse del male».
Dopo la prima guerra del Golfo nel 1991, l’Iraq è stato sottoposto ad un ferreo embargo che ha provocato in dieci anni circa un milione di morti, di cui circa mezzo milione tra i bambini. Una strage provocata, oltre che dalla denutrizione cronica e la mancanza di medicinali, dalla carenza di acqua potabile e dalle conseguenti malattie infettive e parassitarie. Gli Stati Uniti – dimostrano documenti venuti alla luce successivamente – hanno attuato un preciso piano: prima bombardare gli impianti di depurazione e gli acquedotti per provocare una crisi idrica, quindi impedire con l’embargo che l’Iraq possa importare i sistemi di depurazione. Le conseguenze sanitarie erano chiaramente previste sin dall’inizio e programmate in modo da accelerare il collasso dell’Iraq. Altre vittime vengono provocate, negli anni successivi alla prima guerra, dai proiettili a uranio impoverito, massicciamente usati dalle forze statunitensi e alleate sia nei bombardamenti aerei che in quelli terrestri.
La seconda guerra contro l’Iraq si rivela però più difficile a motivare di quella effettuata nel 1990-91. A differenza di allora, l’Iraq di Saddam Hussein non compie alcuna aggressione e si attiene alla Risoluzione 1441 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, permettendo agli ispettori Onu di entrare in tutti i siti per verificare l’eventuale esistenza di armi di distruzione di massa (che non vengono trovate). Diviene di conseguenza più difficile per gli Stati Uniti creare la motivazione «legale» per la guerra e, su questa base, ottenere un imprimatur internazionale analogo a quello del 1991.
L’amministrazione Bush è però decisa ad andare fino in fondo. Fabbrica una serie di «prove», che successivamente risulteranno false, sulla presunta esistenza di un grosso arsenale di armi chimiche e batteriologiche, che sarebbe in possesso dell’Iraq, e su una sua presunta capacità di costruire in breve tempo armi nucleari. E, poiché il Consiglio di sicurezza dell’Onu si rifiuta di autorizzare la guerra, l’amministrazione Bush semplicemente lo scavalca.
La guerra inizia il 20 marzo 2003 con il bombardamento aereo di Baghdad e altri centri da parte dell’aviazione statunitense e britannica e con l’attacco terrestre effettuato dai marines entrati in Iraq dal Kuwait. Il 9 aprile truppe Usa occupano Baghdad. L’operazione, denominata «Iraqi Freedom», viene presentata come «guerra preventiva» ed «esportazione della democrazia». Viene in tal modo attuato il principio enunciato dal Pentagono (Quadrennial Defense Review Report, 30 settembre 2001): «Le forze armate statunitensi devono mantenere la capacità, sotto la direzione del Presidente, di imporre la volontà degli Stati Uniti a qualsiasi avversario, inclusi stati ed entità non-statali, cambiare il regime di uno stato avversario od occupare un territorio straniero finché gli obiettivi strategici statunitensi non siano realizzati».
Ma, oltre alla «volontà degli Stati Uniti», c’è la volontà dei popoli di resistere. E’ ciò che avviene in Iraq, dove le forze di occupazione statunitensi e alleate – comprese quelle italiane impegnate nell’operazione «Antica Babilonia» – cui si uniscono i mercenari di compagnie private, incontrano una resistenza che non si aspettavano di trovare, nonostante la durissima repressione che provoca nella fase iniziale della guerra (solo per effetto delle azioni militari) decine di migliaia di morti tra la popolazione.
Poiché la resistenza irachena inceppa la macchina bellica statunitense e alleata, Washington ricorre all’antica ma sempre efficace politica del «divide et impera», facendo delle concessioni ad alcuni raggruppamenti sciiti e curdi così da isolare i sunniti. Nel caso che l’operazione non riesca, Washington ha pronto il piano di riserva: disgregare l’Iraq (come già fatto con la Federazione Jugoslava) in modo da poter controllare le zone petrolifere e altre aree di interesse strategico, attraverso accordi con gruppi di potere locali.
È a questo scopo che interviene ufficialmente la Nato, la quale ha fino a quel momento partecipato alla guerra di fatto con proprie strutture e forze. Nel 2004 viene istituita la «Missione Nato di addestramento», al fine dichiarato di «aiutare l’Iraq a creare efficienti forze armate». Dal 2004 al 2011 vengono addestrati, in 2000 corsi speciali tenuti in paesi dell’Alleanza, migliaia di militari e poliziotti iracheni che vengono anche dotati di armi donate dagli stessi paesi.
Contemporaneamente la Nato invia in Iraq istruttori e consiglieri, compresi quelli italiani, per «aiutare il paese a creare un proprio settore della sicurezza a guida democratica e durevole» e per «stabilire una partnership a lungo termine della Nato con l’Iraq».
(6 – CONTINUA)
Fonte: Comitato No Guerra No NATO
https://www.change.org/p/la-campagna-per-l-uscita-dell-italia-dalla-nato-per-un-italia-neutrale