Alcune riflessioni dopo la strage di Parigi

bataclan fioridi Giorgio Langella

Intervento al convegno “Contro le guerre e la NATO”, svoltosi il 14 novembre a Vicenza, per iniziativa dell’Associazione per la ricostruzione del partito comunista

Di fronte a quanto successo ieri sera a Parigi, alle centinaia di morti e feriti causati dalle azioni di vera e propria guerra contro i cittadini, si resta attoniti. Impotenti. Si rischia di lasciarsi andare allo sconforto e alla resa. Si rischia di accettare qualsiasi restrizione e di abituarsi alla cancellazione dei diritti democratici in cambio della “sicurezza”. La strage di Parigi ci mostra il risultato di politiche dissennate tendenti a produrre il caos in intere regioni e abbattere governi che garantivano, nel bene e nel male, una stabilità che oggi è assente. Sembra che l’orrore che stiamo vedendo sia frutto della cattiveria e della barbarie intrinseche nella mentalità e nella religione “dell’altro”. Ma “l’altro”, nella strage parigina, è quello stato islamico nato tra Iraq e Siria che è cresciuto nel caos creato in Libia dagli interventi militari iniziati dai raid francesi e inglesi contro Gheddafi, che è stato finanziato e armato da governi di paesi occidentali e dai loro alleati (paesi considerati “moderati” come Turchia, Qatar e Arabia Saudita) in funzione anti Assad.

La storia si ripete perché quello che viviamo oggi è successo in Vietnam decenni fa con la creazione del governo fantoccio del sud, è successo in Congo con l’assassinio di Lumumba, è successo in Cile con il colpo di stato di Pinochet, è successo in Afghanistan con Al Qaeda, è successo in Ucraina con le formazioni banderiste e dichiaratamente neonaziste della “rivolta” di piazza Majdan. Puntualmente e con atroce violenza, le formazioni del terrore, che sono state finanziate e armate per abbattere governi legittimi ma non allineati, si rivoltano contro i propri “creatori”. E, allora, per battere il terrorismo si agisca alle radici. Si prenda atto che la politica internazionale e imperiale di USA, Nato e UE non solo è ingiusta, ma è profondamente sbagliata. Che non si può, con la scusa di esportare la democrazia (che si è rivelata non la soluzione ma la scintilla che ha provocato l’incendio), imporre la propria visione del mondo a chi non la ha mai avuta. Che non si può militarizzare il mondo, occuparlo con la forza delle armi o della finanza, senza che non ci siano conseguenze spaventose.

A ripercorrere con la memoria la storia si ha la netta impressione che il terrorismo e i morti da esso provocati siano “effetti collaterali” di una guerra più vasta e globale scatenata dai padroni del mondo. Conseguenze “utili” a promulgare leggi speciali e tenere il popolo sotto il ricatto del terrore.

Di fronte a tutto questo io non mi dichiaro pacifista, non posso esserlo. Sono semplicemente e orgogliosamente un partigiano.

Tendo sempre a parteggiare per qualcuno. A odiare gli indifferenti, come scriveva Gramsci. Ad essere veramente vivo e, quindi, cittadino e partigiano. Per questo, nelle innumerevoli guerre scatenate dopo la fine dell’Unione Sovietica (quando tanti ipotizzavano la “fine della storia” e un periodo di pace globale), non riesco a restare neutrale. Così, in Siria, sono dalla parte di Assad, ho guardato con estremo sospetto le “primavere arabe”, sono stato contro le varie “rivoluzioni arancioni” o variamente colorate, sono dalla parte del popolo palestinese, sono schierato con chi resiste nel Donbass al governo di Kiev creato da un colpo di stato con il determinante appoggio di formazioni nazifasciste. Sono dalla parte del Venezuela di Chavez, con Evo Morales in Bolivia. Sono (lo sono sempre stato) convintamente con Cuba, il suo popolo, il suo governo. Sono (lo sono sempre stato) con la rivoluzione d’ottobre. E sono contro l’imperialismo statunitense, contro quello dell’Unione Europea (espresso, forse, senza armi ma con la violenza delle imposizioni finanziarie), sono contro la NATO e la sua espansione verso est. Non posso restare indifferente di fronte alla massa di migranti che fugge da fame e guerre provocate dall’imperialismo occidentale. Non posso non rilevare come paesi europei sedicenti democratici costruiscano, tra loro, muri e barriere di filo spinato per impedire queste migrazioni. Una scelta che dimostra “plasticamente” il fallimento di un’Unione Europea fondata sul profitto, il capitalismo trionfante e il liberismo più oscuro.

Ho citato solo alcuni dei conflitti che devastano il nostro pianeta. Sono vere e proprie guerre condotte con armi di ogni tipo (quelle economiche e finanziarie non sono meno letali di quelle “tradizionali”) alle quali non possiamo rispondere voltandoci da un’altra parte o prendendo una posizione ambigua. Noi prendiamo posizioni scomode, quelle nelle quali crediamo. Il non essere né da una parte né dall’altra della barricata, significa essere la barricata. Una posizione magari “utile” per ottenere qualche privilegio ma, per me, inconcepibile.

Essere contro la guerra non significa “fare i pacifisti”, essere buoni o sussurrare qualche frase ad effetto utile per mettere a posto la propria coscienza e poi, magari, tornare a casa e guardare distrattamente quello che succede nel mondo. Vuole dire lottare ogni istante per eliminare le cause della guerra e per sconvolgere i rapporti di forza oggi esistenti. Vuole dire gridare con dolore e violenza. E, allora, riprendendo l’esempio di Fiorenzo Costalunga (il partigiano Argiuna), di Bruno Viola (“il marinaio” che fu assassinato a Malga Zonta dai nazifascisti), del nostro compagno Quirino Traforti (il partigiano Carnera) che non ancora sedicenne sopravvisse alla fucilazione alla Piana di Valdagno, io non intendo sussurrare “viva la pace”, voglio gridare “sia guerra alla guerra”.

Voglio anche gridare che c’è una guerra, apparentemente combattuta senza armi, che investe il mondo del lavoro. Una guerra silenziosa, soffocata dall’abitudine e da un’informazione controllata da chi ne trae beneficio. Quanti morti ci sono ogni anno per garantire  profitto ai padroni? Quanti decessi a causa di condizioni di lavoro insicure perché la sicurezza costa troppo? Quante persone muoiono lentamente ogni anno per malattie professionali? E quanti, di questi assassinii, sono sconosciuti e restano impuniti? Quante invalidità si devono contare come conseguenza della progressiva e continua cancellazione dei diritti? Ieri in un cantiere di Vicenza un’altra vittima del lavoro. Un giovane immigrato di 31 anni. Dall’inizio dell’anno, nella in provincia di Vicenza, i morti sono 18. In Italia,  nel 2015, gli infortuni mortali sui posti di lavoro o in itinere sono quasi 1.300. Ormai il lavoro è diventato una condanna, una vera e propria guerra, una guerra di classe scatenata e, per il momento, vinta dai padroni. E sarà così se non si invertono logiche e politiche anche sindacali. Se non si ricomincerà a lottare e a combattere per i propri diritti. Si badi bene, questa carneficina di lavoratori, lenta ma reale, è una guerra dove esistono aggressori e aggrediti. È un aspetto diverso di un sistema che ha sempre usato le guerre armate per risolvere i propri problemi e le proprie crisi. È una guerra di classe e deve essere affrontata come tale.

Qualche riflessione è bene farla anche sulla lotta per impedire la costruzione della base Dal Molin, che ha visto protagonisti soprattutto i vicentini. È doveroso ripercorrere criticamente quella mobilitazione eccezionale per capire il perché del suo esaurimento e per non ripeterne gli eventuali errori. Quando si è affrontata la questione della base a Vicenza non ci si doveva limitare alla lotta per non costruire la base. Quella che è stata costruita a Vicenza è una nuova base e non l’ampliamento di quella esistente. È una base di guerra statunitense, neppure della NATO, dalla quale partono soldati verso l’Ucraina per “istruire” un esercito e volontari che si fregiano di simboli nazisti. La vicenda della base di Vicenza ha evidenziato una inaccettabile sudditanza all’impero accettata dai governi italiani, anche da quello di Prodi. Ma dobbiamo anche analizzare gli errori del “movimento”. I nostri errori. Il rifiuto della base poteva essere la conseguenza di una battaglia di più lungo respiro e prospettiva che doveva investire anche la questione della sovranità nazionale come valore nostro (dei comunisti e della sinistra), affrontare il problema della riconversione dei settori industriali che producono armi (la relazione con i sindacati diventava necessaria), quello della difesa e dell’attuazione della Costituzione. Difesa e attuazione della Costituzione che deve partire dal considerare l’art. 11 la logica conclusione degli articoli precedenti (non è un caso se è l’ultimo articolo importante tra i 12 principi fondamentali) e dalla battaglia per cancellare la norma del pareggio di bilancio, inserita nell’articolo 81, che pone vincoli inaccettabili all’attuazione anche della prima parte della Costituzione stessa. Una lotta, quella contro la base di Vicenza, da inquadrare in un contesto molto ampio che poteva e doveva portare alla costruzione di un progetto di cambiamento radicale della società e del modello di sviluppo capitalista. Una riconsiderazione dei trattati internazionali, una loro denuncia ferma e totale laddove sono contrari ai principi e ai valori della nostra Costituzione. Cosa che va fatta oggi verso i trattati imposti da UE rifiutando le guerre che NATO, USA e UE ci vogliono costringere a fare e che i politicanti che sono al governo del nostro paese sono ben contenti di fare. La dichiarazione della Pinotti secondo la quale bombardare non è più un tabù lo dimostra con chiarezza.

Le questioni della sovranità e della dignità nazionale, spesso sottovalutate, devono essere riprese oggi vedendo quello che succede nella UE, con le politiche di austerità imposte dalla troika e che devono, a mio avviso, essere strettamente legate al concetto di nazione trasversale composta da chi vive del proprio lavoro. Perché la sovranità nazionale viene massacrata e azzerata non solo dalle servitù militari ma anche, forse soprattutto, dalle servitù economiche e finanziarie.

L’imposizione delle politiche di austerità da parte di una UE matrigna e per nulla democratica, sono pagate da chi vive del proprio lavoro (o vorrebbe farlo) e sono tutto vantaggio dei capitalisti. Vediamo quello che è successo in Grecia (quello che è accaduto nonostante le grandi speranze accarezzate, soprattutto da qualcuno; quel referendum sulla “dignità nazionale” indetto per opporsi ai diktat europei e vinto a stragrande maggioranza; la successiva, immediata, capitolazione di Tsipras e della maggioranza di Syriza che ha dimostrato la timidezza di quell’esperienza e la subalternità dei popoli nel sistema capitalista trionfante). Leggiamo quanto avviene in Portogallo dove si tenta di impedire la nascita di un governo unitario di sinistra (con la presenza dei comunisti) per il fatto che sarebbe anti-UE. Assistiamo alla progressiva, costante, demolizione dello stato sociale e delle Costituzioni democratiche là dove sono state conquistate dalle lotte delle classi lavoratrici.

Possiamo adeguarci a questo declino democratico che sembra inarrestabile? Il progetto di ricostruire il Partito Comunista parte proprio dalla decisione di non chinare la testa o piegare la schiena e dalla consapevolezza che solo un’alternativa profonda e reale di sistema (quel capitalismo trionfante e cialtrone che ci opprime) può farci sperare di abbattere lo stato di cose presente. Piccole modifiche che nulla mutano nel modello di sviluppo e che spesso sono soltanto la concessione di qualche diritto civile (migliore o in più) non servono. Sono solo il paravento, la faccia bonaria e meno crudele, di un sistema spaventoso, imperialista e a-democratico.

C’è bisogno, nel nostro paese e nel mondo, di un’organizzazione comunista forte che possa scardinare un sistema che diventa sempre più cattivo anche perché (lo hanno ripetuto tante di quelle volte da convincere la maggioranza della gente) sembra non avere alternative. C’è necessità di un Partito formato da donne e uomini che ripudiano l’apparenza e il carrierismo. Compagne e compagni come quelli che hanno fatto grande il PCI e che hanno saputo e voluto conquistare quei diritti e quella dignità che oggi ci stanno togliendo anche a causa della nostra divisione e della nostra pigrizia. Compagni come Luigi Longo, il comandante Gallo, che ha speso la sua vita per fare “guerra alla guerra” dalla Spagna alla Resistenza alle grandi lotte del dopoguerra. Come Giuliano Pajetta (del quale ricorre quest’anno il centenario della nascita), grande dirigente e militante comunista, uno dei padri costituenti, responsabile della sezione esteri e dell’ufficio emigrazione del PCI.

Compagni, tutti quelli che ho voluto ricordare in queste riflessioni, che non cito a caso ma che devono essere esempi per tutti noi (soprattutto per i giovani) della dedizione alla lotta per la creazione di un sistema più giusto e umano dell’attuale. Un sistema dove sia abolito e considerato un crimine qualsiasi forma di sfruttamento.