di Diego Angelo Bertozzi per Marx21.it
Con questo intervento cerchiamo di esaminare, evitando inutili atteggiamenti da tifo da stadio o controproducenti sensazionalismi, quanto sta accadendo in Asia orientale in seguito alla decisione della Repubblica Popolare cinese di creare una “Zona di identificazione area” (Air Defense Identification Zone) sul Mar cinese orientale. Possiamo farlo perché di fronte a noi stanno fatti che ci permettono di fare chiarezza e comprendere alcuni dei motivi alla base della misura presa da Pechino che, a differenza di quanto scritto e diffuso in questi giorni, più che una provocazione è una risposta ad una serie di provocazioni che si alternano da ormai due anni, dalla messa in opera del “Pivot to Asia” da parte dell’amministrazione democratica di Obama.
Una semplice misura di difesa
Partiamo prima di tutto con il definire i contorni della Air Defense Indentification Zone. Quella dichiarata dalla Cina non è una “No-fly zone” che impedisce unilateralmente il passaggio di velivoli stranieri, ma più semplicemente una misura difensiva a protezione del proprio territorio da incursioni aeree straniere e che non si configura come una violazione del diritto internazionale. Gli scopi sono chiari: approntare in tempo le proprie difese in caso di attacco. E per Pechino si tratta, nello specifico, di difendere da attacchi provenienti da nord-est che possono avere come obiettivo la zone costiere economicamente più sviluppate del sud-est. In base a quanto riferito dalla stampa ufficiale cinese ogni aereo che entrerà in questa zona dovrà seguire alcune procedure quali l’identificazione del piano di volo, il mantenimento delle comunicazioni radio, l’identificazione del transponder e della nazionalità. Diversamente da una “No-fly zone”, non ci troviamo di fronte a una misura unilaterale che prepara la messa in atto di una vera e propria aggressione militare (vi ricordate la Libia? Le minacce franco-britanniche-statunitensi di istituirne una in territorio siriano?), ma di una più comprensibile misura precauzionale che può evitare spiacevoli incidenti e incomprensioni. Non serve per provocare una crisi, quanto per evitarla in uno scenario che si è surriscaldato in questi ultimi anni. Tanto più che la Cina vanta un doloroso incidente: nel 2001 un EP-3E statunitense (aereo spia allora a caccia di segreti nucleari) si scontrò con un caccia J-8 cinese a circa 110 km dall’isola di Hainan, nel Mar cinese meridionale, causando la morte del pilota. Un allora furente Jiang Zemin aveva ribadito: “La Cina non si piegherà alle pressioni estere su questioni cruciali come la sovranità nazionale e l’integrità territoriale“. Ebbene, la decisione di questi giorni è, almeno in parte, figlia di quello spiacevole incidente e di quella orgogliosa presa di posizione (solo due anni prima a Belgrado era stata bombardata l’ambasciata cinese).
Quella che abbiamo di fronte è una invenzione malefica della temibile “razza gialla”? Tutt’altro. Queste zone esistono da più di mezzo secolo e sono sorte insieme alla prima Guerra Fredda: Usa e Canada ne hanno una congiunta dal 1950 e il Giappone a fine anni ’60 ha ereditato quella istituita da Washington durante l’occupazione del Paese. E poi c’è quella della Corea del Sud. Detta molto semplicemente, la Cina popolare è da decenni circondata da zone di identificazione altrui. E quella giapponese è molto più ampia, tanto da spingersi a ridosso delle coste russe, di quelle sud-coreane, di quelle di Taiwan e di quelle cinesi continentali (a soli 130 km). Mentre la sovrapposizione tra quella cinese e coreana è minima, ben più ampia è con quella nipponica perché Pechino rivendica – e non è certo una sorpresa – la sovranità sulle Isole Diaoyu/Senkaku oggetto di una controversia territoriale tra i due Paesi. In questo caso caso la mossa cinese costringerebbe un aereo ad una procedura di doppia identificazione. Davvero una insopportabile e intollerabile conseguenza!
Provocazione o risposta ad una serie di provocazioni?
“Atto unilaterale”, “provocazione”, ennesima dimostrazione della assertività cinese, volontà cinese di alterare con la forza gli equilibri nell’area: sostanzialmente è questo il coro che si è levato in questi giorni per descrivere la decisione di Pechino. Niente di più falso, perché presuppone l’esistenza di un situazione di totale assenza di attriti e divergenze e, più di tutto, la messa in campo da ormai due anni di una strategia diplomatica e militare, il “Pivot to Asia” statunitense con la riattivazione di alleanze e rapporti militari che parevano “ferri vecchi” della prima guerra fredda. Ed infatti da qui si dovrebbe partire per inquadrare – nessuno obbliga a condividere – la recente istituzione della Air Defense Identification Zone, in caso contrario si imbastisce una narrazione assai interessata e faziosa.
Delineiamo quindi il quadro. Innanzitutto in pochi hanno sottolineato che la decisione cinese è avvenuta nel bel mezzo di “AnnualEx2013”, una esercitazione militare congiunta Usa-Giappone nelle acque al largo di Okinawa, in una catena di isole poco distante dalle Diaoyu/Senkaku. In questo caso, nessuno – tranne Pechino – ha parlato di “provocazione”. Il 20 novembre la signora Susan E. Rice, consigliere della Sicurezza Nazionale, ha tenuto a Washington un discorso dal titolo “America’s Future in Asia” nel quale ha confermato le linee dell’impegno statunitense in Asia: “ il riequilibrio verso l’Asia-Pacifico rimane una pietra angolare della politica estera dell’amministrazione Obama. Non importa quanti punti caldi emergano altrove, continueremo ad approfondire il nostro impegno duraturo in questa regione critica. I nostri amici in Asia meritano e continueranno ad attirare la nostra attenzione più alto livello”. Che tradotto in termini di sicurezza – non a caso a questo tema è dedicata la parte iniziale del discorso – significa un maggiore impegno militare su diversi fronti: “Stiamo rendendo l’Asia-Pacifico una regione più sicura grazie alle nostre alleanze e alla presenza della forza americana per rispondere alle sfide del nostro tempo. Entro il 2020, il 60 per cento della nostra flotta sarà disposto sul Pacifico e il nostro Comando del Pacifico potrà contare delle nostre capacità più all’avanguardia. Come stiamo in questi giorni nelle Filippine, la nostra presenza militare nella regione è di vitale importanza, non solo per scoraggiare le minacce e difendere gli alleati, ma anche per fornire assistenza umanitaria rapida in risposta a disastri naturali senza precedenti”1. Limitiamoci al caso Filippine. Anche qui in pochi hanno sottolineato che la tragedia che ha colpito l’ex colonia statunitense è stato – e non è una novità – utilizzato per l’ennesima dimostrazione di forza in un’area “calda” per Pechino e le sue rivendicazioni territoriali: per prestare soccorso “umanitario” sono giunte infatti la USS George Washington, con 5.000 marinai e 80 aerei, due incrociatori lanciamissili e due cacciatorpediniere lanciamissili. A svelare la reale natura di questo dispiegamento è stato in questi giorni un noto bolscevico di nome Jonah Blank, consigliere per il Sud e Sud-est asiatico del Foreign Relations Committee del Senato Usa, in un suo intervento volto a spiegare in funzione di “interesse nazionale” il soccorso prestato alle Filippine: “La migliore battaglia è quella che non c’è bisogno di combattere. La maggior parte del dispiegamento di mezzi militari statunitensi è preventiva: le basi di truppe statunitensi sono disposte in tutto il mondo nella speranza di plasmare l’ambiente politico, in modo da evitare di mandarli in combattimento. Gli Stati Uniti conducono esercitazioni con quasi ogni nazione, in parte per ridurre la probabilità di condurre una guerra vera e propria. […] In questi termini, la distribuzione di risorse militari per operazioni di soccorso è un investimento sul futuro efficace ed economico. Una delle più grandi implementazioni della storia, il dispiegamento della portaerei USS Abraham Lincoln e altre attività a seguito dello tsunami asiatico del 2004, si stima sia costata 857 milioni dollari. […] Il risultato che lo tsunami ha portato agli Stati Uniti è incalcolabile. Quasi un decennio dopo, lo sforzo può essere considerato come uno dei motivi più concreti per i quali le nazioni del sudest asiatico si fidano dell’impegno a lungo termine degli Stati Uniti nella strategia del riequilibrio asiatico”2.
Facciamo un passo un poco più indietro, ma che serve a chiarire ancora di più il quadro complessivo anche alle luce delle recenti precisazioni di parte cinese, in base alle quali l’area di identificazione aerea sarebbe rivolta soprattutto contro le provocazioni giapponesi. Ebbene, sarebbe il caso di ricordare il nuovo “patto di ferro” siglato nell’ottobre scorso tra Washington e Tokyo, in base al quale droni a stelle e strisce avranno base anche in Giappone. Dalla primavera 2014, infatti, due o tre RQ-4 Global Hawk di alta quota permetteranno ai comandi Usa di monitorare facilmente il Mar cinese orientale, comprese le isole Diaoyu/Senkaku, oggetto di contesa tra Pechino e Tokyo e in relazione alle quali Kerry ha riconosciuto l’amministrazione giapponese e, di conseguenza, la copertura del Trattato di sicurezza.
Il messaggio cinese: la sicurezza non è in appalto agli Usa
Sabato scorso il New York Times ha rivelato che l’amministrazione statunitense ha invitato le compagnie aeree civili a riconoscere la zona di identificazione aerea cinese. Nulla cambia, invece, per i sorvoli degli aerei militari: in questo caso il bullismo da cowboy continuerà ancora per un po’.
Non ci troviamo di fronte ad un passo indietro da parte Usa, ma forse ad un primo tentativo di ricerca di compromesso che, comunque, a Obama è già costato l’accusa di arrendevolezza nei confronti di Pechino. Facile immaginare che tra gli ambienti più oltranzisti riprenderà vigore l’anatema del “Soft on China”, variante contemporanea del mai del tutto archiviato “Soft on communism”. Potrebbe essere rispolverata e riportata a nuova vita la teoria del domino: se cedi su un punto alla Cina, troverai i bolscevichi gialli ad abbeverare i cavalli – anche se storicamente i cinesi preferivano comprarli piuttosto che allevarli – prima a Taipei e poi a San Francisco. Basterebbe, per farsene un’idea, dare una veloce scorsa all’articolo pubblicato sul sito dell’American Entreprise Institute dal titolo “Il giorno in cui l’America ha perso l’Asia” per leggere questo: “Se i paesi ricchi e potenti come il Giappone e la Corea del Sud accettano il controllo cinese dei cieli internazionali nel loro territorio, che speranza c’è per le nazioni più piccole di rifiutare? Al Ringraziamento del prossimo anno, tutta l’Asia orientale potrà essere sotto un protettorato aereo cinese”3. Obama dovrà tenere conto di queste posizioni e quindi continuerà a mostrare i muscoli sotto forma di B-52 in attesa che i cieli si calmino.
La Cina, da parte sua, ha sfruttato il momento più propizio. Quello che vede gli Usa reduci dalla sostanziale sconfitta sulla via di Damasco e, quindi, portati ad ammorbidire la propria politica nei confronti dell’Iran. Per non parlare dell’assenza di Obama al vertice Apec a causa dello “shutdown”: un vero e proprio smacco agli occhi di molti osservatori asiatici. Voleva lanciare un messaggio a Washington e l’ha fatto, al di là delle interpretazioni anti-nipponiche: la Cina è ormai una potenza sullo stesso piano degli Usa nell’area, con proprie esigenze di sicurezza che devono essere rispettate e che non possono essere subordinate a quelle di Stati Uniti e alleati. Altro non intendeva Xi Jinping quando, ospite di Obama, ha spiegato la necessità che si stabilisse un rapporto su nuove basi.
NOTE
1Il discorso integrale è disponibile all’indirizzo http://www.whitehouse.gov/the-press-office/2013/11/21/remarks-prepared-delivery-national-security-advisor-susan-e-rice
2“How Philippines typhoon aid helps USA”, Jonah Blank, Usa Today, 14 novembre 2013
3 “The day America lost Asia”, M. Auslin, http://www.aei.org/, 26 novembre 2013.