di Diego Angelo Bertozzi per Marx21.it
Contrariamente a quanto si pensi non esiste una sola “comunità internazionale” limitata alla voce della Nato e dei suoi alleati d’occasione. Ce n’è un’altra che non appartiene a blocchi e che ha posizioni diverse e anche critiche nei confronti dell’Occidente. Quest’ultima, comunque composita e varia negli orientamenti, si è data appuntamento a Teheran dal 26 al 31 agosto per il 16° vertice del Movimento dei Paesi Non Allineati (NAM).
L’organizzazione internazionale, che ha come scopo originario quello di riunire i Paesi che non si riconoscono all’interno dei blocchi militari, è sorta in pieno processo di decolonizzazione in Africa e Asia per iniziativa di Tito, Nasser e Nehru e tenne il suo primo vertice a Belgrado nel 1961 ribadendo i principi alla base della storica conferenza di Bandung del 1955: lotta al colonialismo e al neocolonialismo, rispetto della sovranità nazionale e delle autonome vie di sviluppo.
Allora ad incontrarsi furono i rappresentanti di 25 Paesi, mentre nei prossimi giorni nella capitale iraniana dovrebbero arrivarne in rappresentanza di 120 (ma restano ancora dubbi sulla presenta di alcune delegazioni) provenienti da Asia, Africa e America Latina. Su un totale di 193 Stati rappresentati all’Onu, quello che si riunisce a Teheran è certo un blocco consistente di comunità internazionale e che rappresenta la maggioranza, o poco meno, della popolazione mondiale.
L’attesa è, però, per l’arrivo dell’egiziano Morsi, per la prima visita di un presidente egiziano in Iran dal 1979 dopo la proclamazione della repubblica islamica, e del segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon
L’Egitto lascerà, come da rotazione prevista, proprio all’Iran la presidenza triennale del Nam per i prossimi tre anni. L’incarico era in precedenza passato dalle mani di Hosni Mubarak, spodestato dalle rivolte popolari e dal pronunciamento dell’esercito egiziano, a quelle del feldmaresciallo Tantawi, recentemente accantonato proprio da Morsi.
Preoccupazioni e inviti al dietro-front per la partecipazione di Ban Ki-moon sono arrivati da Washington e da Tel Aviv. Per il Washington Post il vertice sarà pure un “baccanale di sciocchezze”, ma nelle due capitali è vivo il timore che questa presenza serva solo a forgiare una vittoria diplomatica della repubblica islamica.
La presidenza iraniana potrebbe coincidere con una svolta più radicale e attiva dell’organizzazione anche perché avviene in piena esplosione della crisi siriana con Teheran, tradizionale e solida alleata di Damasco, impegnata su più fronti nella critica all’intervento straniero.
Da Washington, per bocca del portavoce del Dipartimento di Stato Victoria Nuland, viene proprio l’allarme sull’intenzione iraniana di “manipolare” a suo beneficio il vertice, soprattutto per quanto riguarda la sua agenda nucleare e l’embargo petrolifero ai suoi danni. Nel vertice dell’Avana del 2006 fu, infatti, approvata una mozione a sostegno del diritto di ogni Stato allo sviluppo pacifico dell’energia nucleare. E’ comunque da escludersi che si formi un consenso unanime, mentre è più probabile che, proprio in riferimento ai fatti siriani, si formi un generico consenso sulla necessità del dialogo tra governo e opposizione in linea con la filosofia originaria del movimento. Resta la certezza che il vertice rappresenta per l’Iran una straordinaria opportunità di uscire dall’isolamento e allentare una pressione che si fa sempre più forte.
Per Farideh Farhi, studioso iraniano dell’Università delle Hawaii, lo sforzo messo in campo da Teheran per il vertice ha lo scopo “di presentare il ruolo globale dell’Iran e mostrare con prove concrete che la politica di isolamento degli Usa nei confronti dell’Iran ha fallito” e di dimostrate come “non sia la comunità internazionale che ha problemi con l’Iran, ma solo una coalizione messa sotto pressione degli Stati Uniti” [1].
E’ già allo studio un documento composto da 688 dichiarazioni e 166 pagine, mentre durante il consesso saranno al lavoro il Comitato politico, diretto da Cuba, il Comitato economico, diretto dall’Egitto e il Comitato per la Palestina diretto da rappresentanti palestinesi.
Dal fronte caldo mediorientale, passiamo a quelle sempre più ribollente dell’Asia Orientale. Nell’attesa che il vertice Nam prenda il via, Washington prosegue a passo spedito nel suo riposizionamento strategico intorno alla Cina. Secondo le rivelazioni del Wall Strett Journal, sarebbe iniziata la pianificazione di uno scudo missilistico asiatico ufficialmente in funzione anti-Corea del Nord, ma che ha indubbi fini di contenimento della crescente forza militare cinese, testimoniata –sempre agli occhi del Pentagono – da una crescente assertività nelle dispute marittime con i vicini.
Il progetto prevede la messa in azione di un radar nel sud del Giappone – ma non a Okinawa dove sono forti le tensioni con la popolazione locale – e un secondo in un Paese del sud est del Pacifico e un terzo nelle Filippine. Inoltre, secondo i progetti della Marina, la flotta di navi da guerra con missili balistici dovrebbe passare dalle 26 di oggi alle 36 nel 2018. Secondo un alto funzionario statunitense “le nuove installazioni di difesa missilistica sarebbero in grado di monitorare e respingere almeno un primo colpo limitato proveniente dalla Cina, e sarebbe potenzialmente sufficiente a scoraggiare Pechino dal tentare un attacco” [2]. E’ chiaro che oggetto dell’eventuale attacco cinese sarebbe l’isola di Taiwan.
I timori di Pechino per un prossimo inizio di guerra fredda prendono sempre più corpo.
Diego Bertozzi
NOTE
1 Rick Gladstone, “UN visits will set back a push to isolate Iran”, New York Times, 22 agosto 2012.
2 Wall Street Journal, “US plans new Asia Missile Defenses”, 23 agosto 2012.