di Filippo Violi per Marx21.it
Il rapporto fra la superpotenza del 20° secolo, gli Stati Uniti, e la grande potenza in ascesa del 21° secolo, la Cina, sta assumendo le caratteristiche di un vero direttorio (G2), di un rapporto bilaterale fra due grandi imperi, quello d’Oriente e d’Occidente, storicamente antagonisti, condannati finalmente a cooperare per non dover rinunciare al loro primato e garantire allo stesso tempo nuovi equilibri internazionali.
Partiamo dal dato essenziale. La relazione fra Stati Uniti e Cina è cruciale non solo in virtù dei numeri (la prima e la seconda economia mondiale, la superpotenza militare e quella commerciale-tecnologica, manufatturiera e demografica), ma anche perché ci troviamo, almeno da un quindicennio, a un cambiamento di ciclo, con una Cina in forte ascesa e con un’America in relativo declino. Gli Stati Uniti di oggi ricordano agli studiosi anglosassoni la traiettoria dell’Impero britannico, mentre la Cina, dopo un secolo e mezzo di marginalità, con la sua politica di piccoli passi verso una lunga marcia, sembra avere recuperato la posizione centrale di cui godeva quale ‘Impero di Mezzo’. Il problema è che la storia delle relazioni internazionali indica che i cambiamenti di ciclo – caratterizzati dall’ascesa di una nuova potenza, che sfida l’ordine costituito – sono spesso cambiamenti conflittuali che si consumano anche con contese e guerre per procura a bassa intensità.
Nel caso Cina-Usa, l’interazione economica raggiunta tra i due Paesi è così stretta da creare un forte interesse reciproco a cooperare, evitando una feroce contesa tra le parti. Lo scenario di una nuova ‘guerra fredda’ sull’asse transpacifico, nonostante le sortite frequenti (deficit e surplus commerciale) e scontri verbali su prese di posizioni differenti (vedi Corea del Nord e Mar Cinese Meridionale), sembra al momento da escludersi. A sedici anni dal proprio ingresso nel Wto (2001), la Cina ha riserve finanziarie in valuta estera che sfiorano i 4.000 miliardi di dollari e che ne fanno il principale creditore estero degli Stati Uniti, detenendo in portafoglio la cifra record di 1.300 miliardi di dollari di debito americano. Gli Usa non possono permettersi una frattura, ma neanche Pechino, che deve difendere i propri investimenti in dollari e che ha negli Stati Uniti un mercato di esportazione ben consolidato. D’altra parte, la crisi finanziaria del 2008 ha dimostrato che questa relazione squilibrata – la relazione fra una Cina che esporta a basso costo e un’America che vive sopra ai propri mezzi senza risparmiare – è giunta all’esaurimento. La Cina, come già era stato previsto nel penultimo Piano quinquennale, ha spostato la crescita verso la domanda interna; mentre l’America di Trump ha enorme bisogno di ricostruire il Paese partendo dalle sue fondamenta: rilocalizzando l’industria e investendo su scuola e alta formazione specializzata.
Se il tema della presidenza tedesca al G20, da poco concluso, è stato quello di “dare forma a un mondo interconnesso”, l’incontro tra i due maggiori leader mondiali del pianeta, Trump-Xi Jinping, ha assunto i contorni delineatisi dopo l’ultima elezione per la presidenza americana. In questo nuovo scenario si aggiungono le mosse di Berlino, che ha cercato di far valere la presidenza del G20 per sostenere le proprie ambizioni di leadership globale. Il viaggio della Cancelliera Merkel nelle scorse settimane in alcuni paesi, per promuovere le posizioni tedesche in tema di commercio internazionale e politica climatica, in vista del vertice G20 di Amburgo, ne è prova lampante. I tedeschi restano quanto mai agguerriti e non vogliono cedere il passo a un possibile triumvirato mondiale Cina-Usa-Russia (G3) che con accordi commerciali bilaterali tra le parti, soprattutto in campo energetico, si sta via via affermando. Per tutta risposta, come nella prima guerra mondiale, i tedeschi si sentono quanto mai impegnati su 3 fronti: sul fronte occidentale Merkel sta cercando di isolare Trump, prova ne è l’ultimo vertice del G20 e i continui richiami al programma nucleare e all’esercito europeo; sul fronte orientale prosegue lo scontro, anche militare, con la Russia, che di fatto cancella quello che restava della Ostpolitik avviata da Brandt; mentre sul fronte europeo la Germania, dopo aver messo a guinzaglio i Paesi del sud, è impegnata a domare la resistenza del cosiddetto “Gruppo di Visegrad”. Sullo sfondo ovviamente restano le ambizioni egemoniche di Berlino e la volontà a rafforzare le relazioni economiche con Pechino, mostrando i muscoli nel voler apparire come l’unico interlocutore privilegiato dell’area Euro.
Berlino infatti sta aumentando la pressione all’interno dell’UE su quei paesi che rifiutano i piani tedeschi per l’Europa. Nelle scorse settimane la Commissione Europea ha infatti annunciato un’azione legale nei confronti di Polonia, Rep. Ceca, Ungheria e Slovacchia, in quanto questi paesi non sarebbero disponibili ad accogliere i profughi dalla Grecia e dall’Italia e in questo modo si rifiutano di applicare un provvedimento approvato dalla maggioranza dei ministri degli interni dell’UE nel settembre 2015. La Rep. Ceca, la Slovacchia, l’Ungheria e la Romania all’epoca avevano votato contro il provvedimento; Slovacchia ed Ungheria hanno poi presentato un ricorso alla Corte europea contro l’obbligo di dover accettare i rifugiati. Il processo e le iniziative della Commissione Europea dovranno chiarire se gli stati membri dell’UE possono essere costretti ad adottare misure che essi rifiutano; il processo in corso viene considerato come un precedente in merito alla limitazione delle competenze nazionali in materia di politica interna. Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria si sono unite in una libera alleanza di paesi chiamata “Gruppo di Visegrad” e si oppongono – sempre sulla base di una visione nazionalistica e reazionaria – all’egemonia tedesca.
La battaglia per la creazione di un potenza mondiale spinge Berlino a contrapporsi non solo a Washington e a Mosca, ma anche ad uno scontro con l’opposizione interna all’UE – vale a dire su 3 fronti aperti. La visita di Trump a Varsavia alla vigilia del G20, nel più grande Paese produttore di carbone in Europa, e in risposta al mini vertice organizzato a Berlino dalla Merkel, la dice tutta sulle reali intenzioni del Presidente americano di rivendicare la sua distanza dagli accordi di Parigi contro il cambiamento climatico, offrendo l’esportazione di gas liquido in Europa centrale e orientale. La scelta di Trump di andare in Polonia – prima che dai tradizionali “alleati” europei, quali Germania, Francia e Gran Bretagna – è stata percepita dalla diplomazia internazionale come una tacita approvazione delle politiche del governo polacco, molte delle quali in contrasto con l’Europa a guida tedesca. E quando da piazza Krasinski ha lanciato un monito contro <<la burocrazia che prosciuga la ricchezza e la vitalità delle persone>> e che <<l’Occidente non è diventato grande grazie alle regole, ma grazie alla libertà offerta ai cittadini di realizzare le loro aspirazione>> ha lasciato pochi dubbi in merito.
La piazza teatro della rivolta del 1944 contro l’occupazione nazista è diventato così il palcoscenico da cui ha potuto lanciare il suo appello all’Occidente. “Così come la Polonia non ha potuto essere sconfitta, così l’Occidente non potrà esserlo. I nostri valori vinceranno e la nostra civiltà trionferà”. Insomma, Trump dice soprattutto alla Germania, al Paese che esibisce anno dopo anno un eccezionale surplus nella sua bilancia commerciale che non si può recitare indefinitamente il comodo ruolo dei difensori della civiltà occidentale potendo contare sui soldi, sulla posizione assunta di dominio a discapito di altri in Europa e sul sangue dello Zio d’America, utilizzando così due pesi e due misure. Se da una parte continua a stringere accordi commerciali con Pechino, dall’altra continua a tirare ceffoni minando, dalle fondamenta, la credibilità della leadership europea.
Per questo la visita di Trump in Polonia è risultata essere più significativa del G20 di Amburgo di venerdì. Anche perché i vertici bilaterali tra Trump e Xi Jinping e Trump Putin sono stati solo incontri di facciata, dove nulla è trapelato e tutto è rimasto intatto così com’è nell’immaginario politico, secondo un copione già scritto da tempo. Se da una parte Trump ha avuto il merito di spiazzare tutti gli analisti internazionali che pensavano a un Presidente americano oramai prono ai diktat di Mosca, dall’altro ha voluto giocarsi un jolly sul tavolo dello scontro che va maturando sempre di più fra Washington e Berlino. D’altronde ormai deve essere chiaro a tutti che a Trump piace giocare d’azzardo e, soprattutto, d’anticipo, mostrando spesso i muscoli e cercando di nascondere abilmente le debolezze di un’America oramai in profondo declino economico industriale. Così è stato per il vertice a Mar a lago in Florida con Xi Jinping, quando diede il ben servito al leader cinese, lanciando cinquanta missili Tomahawk che colpirono la flotta, le piste e i centri di rifornimento dell’aviazione siriana. Così è stato per il G-Nato a Taormina, preceduto dal <<summit arabo islamico americano» del 21 maggio a Riyadh, con l’accordo per la vendita all’Arabia Saudita di armi Usa per il valore di 110 miliardi di dollari, proiettando così la sua leadership e la potenza americana all’estero. E così ora è stato a Varsavia prima del G20.
Le dinamiche internazionali tra le massime potenze mondiale stanno volgendo verso un gioco a tre che sarebbe utile definire come <<equilibrio a variabile dipendente>>, dove i leader in campo (Trump, Putin e Xi Jinping) sembrano di volte in volta stringere accordi commerciali e anche tentativi di soluzioni diplomatiche nei diversi teatri di guerra, questo per bilanciare dal punto di vista economico, politico e militare lo strapotere che ognuno cerca di esercitare nei confronti dell’altro. Se il binomio Usa-Russia è più incentrato sull’asse politico militare e su una contesa tra le parti che da Yalta in poi, sulle ceneri della Germania nazista, è andato sempre più crescendo, il binomio Cina-Usa e Cina Russia è invece incentrato su un asse politico-economico, dove il gigante asiatico oramai fa la voce grossa, puntando a trasferire la propria forza economica in influenza politica. Se in relazione alla contesa in Asia orientale, si tratta di una rivendicazione di potenza abbastanza classica altrove – in Africa e in America Latina – l’espansione cinese è soprattutto trainata dalle priorità economiche (acquisizione di asset strategici, di materie prime e di energia), dalla ricerca di infrastrutture commerciali (specie nel Mediterraneo) seguendo la rotte terrestre e marittime della via della seta e da una forza finanziaria che permette di sostenerla. Almeno sul medio termine è questo lo scenario che si sta palesando sullo scacchiere internazionale. L’Europa a guida tedesca, strangolata dall’austerità, dalla deflazione salariale e dalla crescita zero, sembra non volersene accorgere di tutto questo. Se continuerà su questa strada e non riuscirà a creare le premesse per ritornare sui suoi passi, resterà al tempo stesso vulnerabile e periferica rispetto a un sistema globale con l’asse spostato verso il Pacifico.