Guerra & benessere: la posta in gioco sul tavolo della diplomazia internazionale

militare usa terradi Filippo Violi

Riceviamo dal compagno Filippo Violi e volentieri pubblichiamo

Si dice che siamo sull’orlo di una terza guerra mondiale, dove le più potenti flotte aereo-navali si muovono, si spostano, in direzione est del mediterraneo.  Non c’è da stupirsi per questo se si pensa che la guerra, in ogni epoca e in ogni società data, rappresenta la soglia di intelligibilità storica, lo scontro sempre in atto che funge da regolamento di conti, oltre che può rappresentare la base da cui partire per la stipula di accordi o trattati. La guerra unisce sul terreno di lotta i rapporti di forza globali: uomini, monete e carri armati.  Le alleanze di volta in volta si montano, si smontano, soprattutto si finanziano, son mutevoli oltre che pieghevoli.  Qualche anello importante di un asse o di un blocco storico consolidato ogni tanto si stacca, per poi ricomporsi in corsa e magari staccarsi più avanti. L’ultimo cambio di rotta avvenuto sullo scacchiere mondiale, cioè la presa di posizione del governo di Manila e del suo Presidente Duterte, alleato storico di Washington, ora in affari con l’impero di mezzo, n’è prova lampante. Anche la Turchia, dopo il tentato fallito golpe ai danni del governo di  Recep Tayyp Erdogan, sembrerebbe entrato in una nuova dimensione storico-strategica, in un spazio geo-politico del tutto nuovo, firmando un accordo storico con Vladimir Putin per la realizzazione del gasdotto Turkish Stream che porterà il gas russo verso l’Europa attraverso il Mar Nero, abbandonando così il progetto del gasdotto South Stream di ostilità dell’U.E.

E non dovrebbe passare nemmeno inosservato il fatto che un altro paese strategico quale l’Egitto, abbia da poco siglato l’accordo definitivo con la Federazione Russa per la costruzione della centrale elettronucleare nella regione di El Dabaa affacciata sul mediterraneo, ratificando così l’accordo intergovernativo siglato nella città del Cairo, nel novembre dello scorso anno, per l’utilizzo delle tecnologie russe nella costruzione dell’impianto.

Tutti gli eserciti si mobilitano, tatticamente e strategicamente, e lo fanno con esercitazioni e cooperazioni militari, con accordi commerciali e nuovi affrancamenti, dispiegano tutte le forze  disponibili sul campo.  In un clima rovente e surreale, di una guerra che da oltre mezzo secolo oramai vive di minacce e scontri verbali, oltre che di violente dispute per procura: a sostegno dei propri interessi geostrategici e geoeconomici, difesi dalle proprie milizie impegnate sul campo. La stampa è chiamata a svolgere il suo ruolo da sempre fondamentale, peregrino: da una lato amplifica i toni minacciosi, travisa e distorce a piacimento la realtà, dall’altro annacqua, calmierizza per così dire, i rapporti di forze tra le parti. Sta di fatto che il mediterraneo dopo secoli ritorna ad essere la polveriera del mondo, il fulcro degli interessi strategici in gioco tra le diverse potenze mondiali. Si continua a combattere ad Aleppo, lo scontro tra U.S.A. e Federazione Russia è quanto mai evidente, Il no di Assad ai Sauditi per il passaggio del gas in Siria, proveniente dal Qatar, è costato dall’inizio della guerra 400.000 morti.

Al quadro internazionale si è aggiunto da poco il soft-power, ossia la forza d’attrazione e di persuasione messa in campo dalla gigante Cina che, con la sua lunga e silenziosa marcia, da anni si sta ritagliando uno spazio notevole sullo scacchiere mondiale, siglando accordi bilaterali in tutti i Paesi del mondo.  Con il progetto “One Belt One Road”, per una nuova via millenaria della seta, quale ponte tra oriente e occidente, l’Impero Celeste ha messo a disposizione sul tavolo della diplomazia internazionale mille miliardi di dollari per investimenti in infrastrutture ( strade, autostrade, ferrovie, porti, aeroporti), e questo più che regalare soddisfazioni ha fatto da detonatore, surriscaldando gli animi e accelerando il processo bellico dal lato americano.

Inoltre, l’ alleanza di ferro sancita con la Russia siglando, nell’ottobre 2013, l’accordo storico di 38 miliardi di metri cubi fornitura di gas, dal valore complessivo di 400 miliardi di dollari in 30 anni, attraverso il sistema di trasmissione Power Siberia, ha messo a dura prova le mire espansionistiche del Pentagono. Anche perché l’accordo, in quel determinato periodo storico, ha svolto la funzione di vero e proprio scudo finanziario ed economico nei confronti di Mosca, impegnata: nella guerra  di resistenza con le milizie filosovietiche nel Donbass; nella guerra di resistenza contro l’attacco americano-saudita al rublo, attraverso la caduta pilotata del prezzo del petrolio; nella guerra di resistenza contro l’embargo delle merci imposto, per ordine Statunitense, dai Paesi Europei, dopo l’annessione Russa della Crimea. 

Se il clima della guerra è sempre più rovente è proprio perché la posta in gioco diventa sempre più alta: gli Usa non hanno intenzione di abdicare, lasciando il dominio del mondo alla nuova alleanza sino-russa che ha capovolto le carte sui tavoli della diplomazia internazionale. Cent’anni addietro la si chiamava “diplomazia del dollaro”. Dopo la II Guerra Mondiale, e soprattutto dopo la caduta dell’Unione Sovietica nel 1989, questa diplomazia lasciò il posto a una vera e propria “egemonia del dollaro”. Adesso, dopo anni di grandi successi il dominio del dollaro sta giungendo a conclusione. E con l’entrata dello Yuan, dal 1° ottobre, nel club esclusivo nel paniere delle valute del FMI, il contro sostegno fisico al commercio, agli scambi e alla liquidità globale è diventato ufficiale. Sempre più Paesi alleati storici degli Stati Uniti stanno cambiando rotta, sembrano voler farla finita con gli strascichi dell’industria bellica, vogliono stringere affari con la Cina, vogliono vedere il mondo sotto un’altra ottica, di prosperità e benessere.

La stessa ottica che, il 24 giugno, dopo 43 anni di permanenza, con voto di sfiducia espresso dal suo popolo, ha portato la Gran Bretagna ha voltare le spalle all’U.E, uscendo ufficialmente fuori dal blocco occidentale e facendolo quasi in punta di piedi.  Almeno questo sarebbe stato, in caso di vittoria del “Leave”,  il desiderio da tutti voluto o meglio sperato,  senza di fatto volersi augurare di fronteggiare scossoni interni ed esterni  e, quindi, tempeste e salvataggi sui mercati finanziari. Diciamolo francamente, nessuno uomo politico di Stato, appartenente al direttorio europeo, avrebbe potuto sperare questo, visto il vuoto istituzionale e l’equilibrio di poteri che la presenza del’U.K.  garantiva dentro l’Unione.  Almeno questo è il pensiero di chi fa oggi gli interessi della Germania, visto che quest’ultima perderà nell’U.E.  il suo principale alleato sia in termini geopolitici e strategici, per la sua silente attività tampone nei confronti del predominio americano, sia in termini geo-economici, quale principale alleato da sempre orientato verso una politica commerciale aperta e fondata sul libero scambio, senza la quale l’economia mercantilistica tedesca non sarebbe più in grado di funzionare. Molto più concretamente la Germania perderà, come gli altri paesi del “partito del nord” orientati al libero scambio, la minoranza di blocco sulle decisioni del Consiglio Europeo. Certo questo potrebbe aprire nuovi scenari in futuro a molti paesi, tra i quali l’Italia, chiusi nella morsa di una moneta volutamente forte, fondata sulla stabilità dei prezzi e sulla rigidità dei trattati, che potrebbero giocarsi una nuova partita, una nuova battaglia, una guerra di posizionamento importante sullo scacchiere generale predisposto dalla Nato.

Cosa vorrà dire in termini economici e politici in futuro tutto questo lo vedremo,  come verranno gestite le relazioni tra paesi, in merito alle leggi che in molti settori dell’industria e delle economia ancora oggi vengono regolati sotto giurisdizione europea, sarà di certo oggetto e materia di contesta tra le parti e, quindi, altro motivo d’interesse da sapere. Nonostante non siano ancora state avviate le procedure di sganciamento dall’U.E. (giusto art. 50 del Trattato di Lisbona), a quattro mesi ormai dal voto, una cosa sembra certa, la Gran Bretagna, dopo il preavviso dato al blocco atlantico con l’adesione alla “Asian Infrastructure Investment Bank”, ha deciso di farla finita con le rigide imposizioni europee: regole e regolamenti commerciali e politico-istituzionali, giudici parziali obtorto e controllori sovranazionali di spese, di quote di produzioni e di bilanci. La U.K. ha deciso in pratica  che non valeva più la pena continuare a stare fermi, immobili, seduti sul tavolo del direttorio europeo, a fare la comparsa, ad assistere inermi e sottostare a spinte centrifughe unilaterali, improntate sull’asse franco-tedesco ad egemonia Nato.  La volontà di svincolarsi era enorme e non inganni il risultato risicato del referendum che ha visto la vittoria del “Leave” attestarsi al 52%, perché questo è stato ottenuto in un clima di terrore massmediatico.

A nulla infatti è valsa la campagna mediatica montata a tavolino a ridosso del voto, anche utilizzando i più potenti magnati e uomini d’affari statunitensi, oltre che le più influenti testate giornalistiche d’oltreoceano. E non son valse nemmeno le minacce, i continui avvertimenti, ammonimenti, sotterfugi, le stride per mezzo stampa da parte dei colonnelli e dei commissari europei che, uno dopo l’altro, da Junker a Shauble, a Lagarde a Dijsselmbloem finendo alla Merkel, hanno lanciato a ridosso del referendum che ha sancito l’uscita della Gran Bretagna dall’E.U. Il continuo clima di terrore, costruito artificiosamente, sui possibili scenari futuri catastrofisici e i cataclisma economici che avrebbero colpito il Regno Unito,  sono stati nella realtà miseramente smentiti anzi, dai dati in possesso, possiamo senza dubbio dire invertiti.

Certo, il crollo dei titoli bancari nella prima settimana che ha trascinato non solo Londra ma tutte le borse europee, con l’indice Stoxx Europe 600 (che raccoglie le 600 maggiori aziende quotate in Europa) sceso in una sola seduta da 9.044 miliardi a 8.633, perdendo quasi un miliardo a minuto, ha come dire tenuto fede e dato sfogo a tutto quell’allarmismo e tan-tan mediatico creato durante la campagna referendaria e che, come un boomerang che ritorna indietro, è stato in sintonia con il risultato non sperato e, quindi, come dire volutamente non atteso.

In realtà oggi, le più influenti  testate giornalistiche occidentali schierate apertamente per il Remain , omettano di dire che dalla Brexit in poi Londra, grazie anche  alla svalutazione della sterlina, ha goduto di enormi benefici in termini economici, con il considerevole aumento degli investimenti specie nel settore delle costruzioni, di aumento del  consumo di beni e servizi, specie dovuto al boom nel settore  turistico. A quattro mesi dal referendum sulla Brexit, possiamo senza dubbio dire che a rimetterci a quanto pare è stata solo Bruxelles. Il panorama apocalittico, strumentalizzato da chi voleva orientare il risultato del voto, era privo di fondamento. L’unione Europea berlinocentrica ha perso il 20% di entrate nelle casse comunitarie, questa la dice lunga sul fatto che sono i Paesi europei ad aver bisogno di mantenere i rapporti con Londra e non viceversa.

In effetti i numeri parlano chiaro, gli investimenti esteri nel suolo inglese sono aumentati dell’11% nell’ultimo anno. Si aggiunga che le vendite al dettaglio sono cresciute dell’1,4% a luglio (che vuol dire + 5,9% su base annua, numeri da boom economico), che le richieste di sussidio di disoccupazione sono scese di 8.600 unità, che la fiducia dei consumatori è aumentata del 5% nei mesi estivi, che l’indice dei direttori acquisiti (l’indice composito dell’attività manifatturiera di un Paese) è ai massimi da vent’anni a questa parte, che la Borsa di Londra è cresciuta del 10% dopo lo scivolone di giugno e che anche la sterlina è in forte recupero. Lo scorso 17 agosto, inoltre, l’agenzia di rating Moody’s (che prima del referendum aveva vaticinato revisioni al ribasso in caso di Brexit) ha scritto di non attendersi alcuna recessione, prevedendo anzi una crescita dell’1,5% quest’anno e dell’1,2% il prossimo anno, in entrambi i casi più di qualunque altro partner europeo.

La politica economica mercantilistica della Germania, basata sullo schiacciamento della domanda interna che sta spolpando la classe media e ammazzando il proletariato, unita poi ad una moneta volutamente tenuta forte, ancorata alla stabilità di prezzi, alla bassa inflazione e alla mancanza di leva fiscale, è stata possibile solo grazie alla Gran Bretagna e agli altri paesi della cosiddetta area del Marco (Olanda, Austria e Finlandia), i quali hanno potuto difendere i suoi interessi ed imporre una politica commerciale europea asimmetrica basata sul libero scambio. Ora invece con la Brexit si aprono nuovi scenari e i primi a poterne beneficiari sono propri i paesi del Mediterraneo.

Il vertice tenutosi ad Atene su iniziativa della Grecia, i primi di settembre (prima del summit U.E. dei 27 Paesi a Bratislava), tra i Paesi dell’Europa del Sud (Italia, Francia, Spagna e Portogallo), dedicato all’U.E. di domani, è un passo significativo, importante verso le nuove sfide e le trasformazioni in atto nel mercato mondiale, i nuovi scenari politico-economici e le nuove opportunità che di volta in volta si presenteranno davanti. Nel documento finale, firmato tra i Paesi Euro-Med, si guarda alla Brexit come una opportunità e non come un ostacolo o come un’ostilità. Si ribadisce che l’Europa non può essere fondata solo su regole, finanza e austerity. Con l’uscita della Gran Bretagna dall’U.E, il blocco occidentale dei Paesi Nato sembra volersi guardare intorno, sembrano desiderosi di voler prendere un’altra di direzione, un altro percorso. Palesano sofferenze, respingono guerre e embarghi economici, dichiarano apertamente di essere contro le rigidità di spese e le restrizioni di bilancio, imposte dai regolamenti e dai Trattati scritti 25 anni fa, in epoche storiche diverse. Hanno voglia di fare affari con le nuove potenze economiche (Cina, India in testa) che prepotentemente si affacciano sui mercati mondiali,  puntano a scambi e alleanze commerciali, hanno fame e sono in cerca di nuova linfa, benessere e liquidità.

Saranno in grado di far cambiare rotta al bulimico mostro Pantagruele che sta spingendo il mondo al punto del non ritorno, verso l’abisso e le tenebre? Le elezioni a novembre negli States rappresentano un importante spartiacque: l’America del miliardario, sessista e bancarottiero Trump sarebbe qualcosa di indecifrabile, di incerto, anche se proiettata verso la dottrina Kissinger, sostenuta dalla rete della net-economy della silicon valley che spinge per il bipolarismo Russia-Stati Uniti, anche come strategia di rottura dell’asse euroasiatico e quindi di contenimento verso la Cina; l’America della Clinton sarebbe qualcosa di certo, decifrabile, inaugurabile, proiettata invece verso la dottrina Brzezinski, sostenuta dall’ala oltranzista del Dipartimento di Stato e dal Council for Foreign Relations, che spinge per una escalation militare mondiale.

Guerra & benessere. Socialismo o barbarie? Questa sembra, ancora oggi, la posta in gioco sul tavolo della diplomazia internazionale.