di Giuseppe Amata
Si svolgerà dal 22 al 24 ottobre a Kazan, nella Federazione Russa, la prossima riunione dei Capi di Stato dei Paesi aderenti ai BRICS+. In tale riunione oltre ai temi politici ed economici è in discussione la richiesta di adesione di una trentina di Paesi, fra cui la Turchia, il Kazakistan, l’Algeria, il Venezuela.
Per capire le cause profonde che diedero vita nel 2009 alla formazione della “Unione” fra Paesi (Brasile, Russia, India, Cina) con diverso regime sociale, diventati cinque l’anno successivo con il Sudafrica e definiti dall’economista americano Jeffrey Sachs con l’acronimo di BRICS, dobbiamo compiere un lungo passo indietro. Prima però dobbiamo completare il quadro delle adesioni perché nell’arco di quindici anni (cioè a partire dal primo gennaio del 2024) i Paesi aderenti sono diventati dieci (in aggiunta Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi, Etiopia ed Iran), quindi BRICS+, ampliando l’obiettivo iniziale di regolamentare i loro rapporti economici e commerciali con la ricerca di una visione comune per opporsi allo strapotere negli affari internazionali degli Stati Uniti (e dei loro alleati della Unione Europea e del Giappone), i quali hanno imposto dopo il dissolvimento dell’Unione Sovietica regole politiche, economiche e commerciali a loro favorevoli per mantenere il vecchio dominio imperialistico o se si vuol dire neocoloniale (dopo la conquistata indipendenza dei popoli e delle nazioni assoggettate dal colonialismo).
Già alla riunione di Algeri del 1973 dei 77 Paesi Non Allineati il documento finale tracciava la volontà di ricercare un “Un nuovo ordine economico internazionale” basato sul superamento dello scambio economico diseguale nato con il colonialismo ed accentuato dall’imposizione del dollaro come principale moneta di riserva internazionale e di transazione economica a seguito degli accordi di Bretton Woods. Accordi, per modo di dire, ma imposizione del disegno americano, sostenuto dalla Gran Bretagna, nonostante il netto dissenso di un noto economista di quella delegazione, John Maynard Keynes, il quale proponeva in alternativa la creazione di una moneta chiamata “bancor”, come unità di conto tra tutti i Paesi che avrebbero aderito al sistema monetario internazionale che si stava per creare in modo da favorire l’economia ed il commercio ed evitare, a suo dire, le grandi crisi economiche come quella del 1929-33. Imposizione perché gli USA erano lanciati nel mondo con la vittoria militare che si stava delineando sul nazismo ad affermare una loro supremazia economica e finanziaria che assorbisse la crisi del sistema coloniale che stava per andare in frantumi e si contrapponesse alla formazione del blocco socialista e dei Paesi emergenti.
Lo scambio economico diseguale si manifestava in tre forme: 1) con ia forbice sempre più allargata tra prezzi delle merci industriali che i Paesi dell’Occidente collettivo vendevano al Resto del Mondo in crescente aumento e prezzi delle materie prime energetiche e agricole tendenzialmente stazionari oppure in lieve crescita che il Resto del Mondo vendeva ai Paesi occidentali; 2) con il continuo apprezzamento del dollaro e delle altre valute come sterlina, marco e yen rispetto alle valute dei Paesi emergenti, per cui i Paesi emergenti quando dovevano ritornare i prestiti ricevuti dovevano sborsare di fatto una maggiore quantità di valuta estera, che si potevano procacciare soltanto aumentando le loro esportazioni e riducendo di rimando il consumo alimentare all’interno e se ciò non bastava, ad esempio per via di una crisi agricola in seguito a fenomeni naturali quali la siccità e le alluvioni, erano costretti a chiedere nuovi prestiti per pagare il debito pregresso a tassi superiori, in quanto apprezzandosi la valuta come il dollaro i tassi di interesse aumentavano; 3) dovendo acquistare i brevetti industriali, se volevano fare investimenti nel loro Paese, a prezzi esosi e in valuta erano costretti a sborsare enormi somme che non avevano e per le quali spesso ricorrevano ai prestiti.
Alla fine del 1973, come è noto, iniziava, a dispetto di quanto sostenuto dagli economisti borghesi, ma a conferma di quanto aveva affermato Marx sul funzionamento del modo capitalistico di produzione, una nuova grande crisi di sistema (non semplicemente quindi una crisi ciclica o commerciale oppure congiunturale, come la definivano alcuni storici od economisti, del tipo di quella del 1953-54 o 1964-65 od anche 1969-1971 con più o meno intensità a seconda dei diversi Paesi capitalistici) scaturita dalla storica appropriazione imperialistica delle fonti energetiche mondiali e dalla ribellione di alcuni Paesi, nel corso di quasi due decenni dalla fine del secondo conflitto mondiale, per difendere e controllare le loro risorse. Tale crisi, come è noto, è stata definita dai mass media e dagli studiosi al servizio del Capitale “crisi petrolifera” in particolare oppure in generale “crisi energetica”, ossia come mancanza di fonti energetiche da sfruttare. Invece, le fonti energetiche erano abbondanti e diversificate, ma il loro uso si scontrava non solo con la volontà di alcuni popoli e nazioni ma anche con le leggi della Fisica e dei sistemi ecologico-ambientali. Infine, tale crisi ha prodotto in tutti i Paesi capitalistici una lunga stagnazione e inflazione e i governanti per soddisfare le esigenze dei grandi monopoli e delle nascenti multinazionali (dai settori bancario e assicurativo a quelli produttivi e della distribuzione) hanno iniziato a smantellare le aziende pubbliche che si erano in precedenza create, privatizzandole (in Italia Eni, Iri, Enel e tutte le aziende dei servizi pubblici), come pure lo Stato sociale e l’impianto teorico keynesiano che lo sosteneva, negandone la validità in ogni istanza istituzionale (Parlamento, Regioni, Consigli comunali e ovviamente nelle Università) per far largo alle teorie neo-liberiste di Milton Friedman, fresco di Nobel.
I Paesi dell’Est Europeo e l’URSS che erano entrati in interazione con il mercato mondiale della finanza, delle attività produttive e commerciali tramite il dollaro o altre valute occidentali (sterlina, marco, yen) entrano nella seconda metà degli anni Ottanta in crisi economica irreversibile, per aver accettato in precedenza dei prestiti che in seguito alla rivalutazione del dollaro dovevano pagare salatamene e non ne avevano i fondi. La crisi economica si trasforma in crisi politica per diversi fattori (mancanza di corrette riforme politiche ed economiche per superare la gestione patriarcale della società, indebolimento e crollo del ruolo dirigente del Partito comunista, distacco tra Partito e masse e tra dirigenti delle unità statuali e produttive e le masse, infine per la lotta tra grandi gruppi burocratici insediati nel Partito e nello Stato). E proprio con l’avanzare della crisi economica e politica nell’Est europeo e in URSS pian piano si risolve la crisi economica del modo di produzione capitalistico iniziata nel 1973 e infine dopo il dissolvimento dell’URSS nel dicembre del 1991 si afferma l’espansione di questo modo di produzione verso Est e politicamente trionfa un mondo unipolare a guida americana, nel quale la nascente Unione Europea e il Giappone, trovano gli spazi per un loro sviluppo in subordine agli USA, anche attraverso la provocazione di guerre regionali, violando la Carta delle Nazioni Unite e bloccando la sua funzione per regolare le controversie internazionali. Inoltre nel settore commerciale avviene lo scioglimento del GATT (creato in sede ONU per regolamentare gli accordi commerciali fra Stati) e la successiva nascita del WTO sotto l’egida delle multinazionali e delle Camere di Commercio dei Paesi aderenti.
Dopo un decennio dal dissolvimento dell’URSS il crollo economico della Russia, diventata con la presidenza Eltsin un luogo di selvaggio sfruttamento delle grandi risorse naturali in mano ai gruppi finanziari e alle multinazionali occidentali, mette a rischio l’organizzazione statuale di un grande territorio in via di smembramento per l’insorgere di diversi conflitti armati regionali in cui ogni gruppo dirigente terroristico-mafioso rivendicava la sua leadership in un potere territoriale frammentato, nonché la stessa civiltà russa affermatasi con la creazione della Rus nel 986 con capitale prima a Kiev e poi a Mosca o a San Pietroburgo. La situazione economica e politica cambia lentamente e gradualmente con la fine dell’era Eltsin e la nuova leadership intorno a Putin quale presidente della Federazione russa.
La fondazione della SCO (Shanghai Cooperation Organisation) tra Cina Russia, Kazakistan, Kirghisistan, Tajikistan e Usbekistan nel 2001 e l’adesione della RPC nel WTO nello 2001 smuovono le relazioni economiche internazionali anche se non in grado di mettere in discussione il mondo unipolare a guida americana. Le riforme economiche di Putin per riportare ordine nel sistema economico oligarchico, creatosi dopo il dissolvimento dell’URSS, con la ri-nazionalizzazione delle fonti energetiche del gas e parzialmente di quelle petrolifere e di altri settori iniziano a risanare l’economia russa e ad incrinare lo status precedente a favore delle multinazionali straniere. Non solo, ma la costante sottrazione alle multinazionali estere di spazio economico già conquistato e una nuova politica estera che si incunea nelle contraddizioni che si determinano nel mondo unipolare (in seguito alle guerre in Iraq e Afghanistan) e allaccia buone relazioni con i Paesi produttori delle fonti energetiche, in modo da regolare la quantità e il prezzo delle materie prime, diventano elementi sconvolgenti di ciò che si determinerà in seguito nel modo capitalistico di produzione.
La nuova crisi di sistema di questo modo di produzione che inizia alla fine del 2007 con il fallimento dei mutui sub-prime non garantiti finanziariamente sono la goccia che fa traboccare il vaso, mentre le cause profonde risiedono nella dicotomia tra sviluppo economico reale e crescita drogata dei titoli finanziari. Ancora una volta gli economisti classici e soprattutto Marx irrompono sulla scena per far capire a tutti, a chi ha bisogno di apprendere per trasformare il mondo ma anche a chi fa finta di non capire per mantenere il potere reale, che sono il lavoro e la natura che creano la ricchezza, non la finanza. La finanza trasferisce la ricchezza da una parte ad un’altra del globo, mentre il modo di produzione capitalistico basato sulla produzione dei valori di scambio e sulla negazione delle leggi della Fisica ha distrutto la natura portando la civilizzazione umana in un punto di catastrofe. Il dilemma è immediato e drammatico: o imboccare la via della trasformazione del modo di produzione capitalistico nei tempi che richiederà la storia oppure correre sempre più velocemente verso la distruzione irreversibile del sistema ecologico che ha permesso lo sviluppo delle civiltà consolidate.
In quel contesto economico mondiale il 16 giugno del 2009 Brasile, Russia, India e Cina danno vita, quindi, alla “Unione” chiamata BRIC, diventata nel 2010 con l’adesione del Sudafrica BRICS.
Nel 2013 il presidente cinese XI Jinping avvia la Belt and Road Iniziative, una Nuova Via della Seta e una Cintura di supporto con l’individuazione di alcuni porti commerciali dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina per favorire lo sviluppo economico e dei trasporti dell’Asia centrale con i relativi terminali marittimi per incentivare le autostrade del mare e incrementare gli scambi commerciali.
Bisogna capire che la civilizzazione umana ha fatto grandi progressi nel corso dello sviluppo storico solo quando le diverse civiltà sono entrate in contatto tra di loro avviando pacifici processi di interdipendenza o integrazione. Al contrario, quando i processi non sono stati pacifici, perché avvenuti sul dominio di una potenza o di un impero su altri territori e su altri popoli vessandone le risorse e assoggettando con la forza parte della popolazione schiavizzandola, oppure con il feroce dominio coloniale dopo la scoperta dell’America, vi è stata nel complesso una regressione nello sviluppo storico. Il progresso storico non è stato dunque continuo ma discontinuo, quindi non lineare, né universale, nel senso che allo sviluppo di certi territori è corrisposta la decadenza e l’oppressione di altri.
Le grandi rivoluzioni economico-sociali hanno incrementato lo sviluppo delle forze produttive, rappresentando come dissero prima Marx e poi Lenin le locomotive dello sviluppo storico. Ma, anche le rivoluzioni si sono interrotte quando la classe andata al potere, dopo un parziale sviluppo delle forze produttive generali della società, ha messo al primo posto la sua riproduzione come nuova classe dominante cercando di legare a sé le vecchie classi dominanti per arginare la crescita della nuova classe rivoluzionaria, come ad esempio ha fatto la borghesia industriale alleandosi con i proprietari terrieri per fermare l’avanzata del proletariato.
Sia i BRICS+ che la BRI per il loro sviluppo hanno bisogno di un ambiente pacifico mondiale e di una stretta collaborazione, in particolare nel continente eurasiatico. Ma la guerra in Ucraina in seguito all’espansione della NATO ad Est per tentare di riprendere i grandi mercati conquistati nell’era Eltsin e perduti in gran parte successivamente nell’era Putin, anche come antidoto alla crisi economica di sistema iniziata alla fine del 2007 e ancora non risolta (crisi che mette in discussione il modo capitalistico di produzione e soprattutto la leadership americana) tende a frenare lo sviluppo della BRI.
Nella nuova situazione internazionale che si è creata con l’espansione ad Est della NATO e con il genocidio compiuto dal governo israeliano verso il popolo palestinese nonché con l’aggressione armata verso Siria, Libano, Giordania, pensando di estenderla all’Iran per far diventare il proprio Paese una grande potenza imperialistica regionale oggi subordinata agli USA (perché dipende da finanziamenti economici ed armi americane), un domani in gran parte autosufficiente, la funzione dei BRICS+ riveste una grande importanza sia di natura politica che economica.
Di natura politica, perché crescendo il numero dei Paesi aderenti, nel 2023 con l’accettazione di Argentina (formalizzazione revocata nel 2024 dal nuovo presidente Milei), Egitto, Emirati Arabi, Etiopia, Iran con decorrenza primo gennaio 2024 e ora con la domanda di adesione alla prossima riunione di Kazan di cerca trenta Paesi, i BRICS+ svolgeranno un ruolo attivo nelle relazioni internazionali per l’affermazione di un mondo pacifico che risolva le controversie internazionali attraverso il dialogo e la cooperazione (secondo lo Statuto delle Nazioni Unite), opponendosi di conseguenza alle guerre imperialiste. Certo i BRICS+ non hanno lo stesso regime economico-sociale, ma hanno un fondamento unitario di sviluppare la cooperazione secondo i principi della coesistenza pacifica e della non interferenza tra Stati negli affari interni degli altri Paesi (per come sancito dalla Conferenza di Bandung del 1955 dei Paesi non allineati). Fra questi trenta Paesi fa sensazione la richiesta della Turchia, un Paese aderente alla NATO ma che negli ultimi anni dopo il fallito colpo di Stato contro Erdogan sta tentando una via autonoma di ricerca nelle relazioni internazionali, tanto da contrapporsi, qualche volta apertamente, alla politica dell’Occidente collettivo, come nel caso dell’aggressione israeliana al popolo palestinese insediato in Cisgiordania e nella striscia di Gaza, definendo “Netanyahu il nuovo Hitler”.
Di natura economica, perché i Paesi BRICS+, oltre a rappresentare con le nuove adesioni circa il 40 per cento del PIL mondiale, hanno un’economia in crescita rispetto a quella stagnante dei Paesi imperialistici e rappresenteranno il perno per la creazione di un nuovo ordine mondiale fondato su relazioni economiche e commerciali imperniate sul reciproco vantaggio e quindi su una nuova ragione di scambio che affossi lo scambio economico diseguale denunciato alla Conferenza di Algeri nel 1973 e che ha permesso la supremazia dell’Occidente collettivo dopo le guerre coloniali e dopo preminenza delle monete dell’imperialismo per affermare, invece, un percorso di transazioni economiche basate su una equa relazione monetaria tra le monete dei Paesi che interverranno negli scambi. Questo nell’immediato, mentre per il prossimo futuro si cerca di costruire una moneta come unità di conto, sul tipo di quella accennata da J. M. Keynes a Bretton Woods, una moneta cioè che tenga conto del complesso delle relazioni tra equivalenti avente come riferimento ad esempio l’andamento dell’oro e delle principali fonti energetiche.
Nel 2023 in preparazione della riunione dei BRICS in Sudafrica la Francia ha fatto pressioni sul Paese ospitante per essere invitata a partecipare, non quindi ad aderire, in modo da conoscerne gli intendimenti e magari operare per un sabotaggio del percorso avviato. La risposta, come è noto, è stata negativa per ovvie ragioni.
Adesso però la richiesta della Turchia può scompigliare la compattezza dell’Occidente collettivo per avviare il processo che sgretolerà del tutto il mondo unipolare a guida americana e affermare un mondo multipolare come primo passo in cui Paesi piccoli e grandi convivano con pari opportunità ed eguaglianza.
In tal senso richiedere al governo italiano l’adesione ai BRICS+ può apparire una provocazione, ma la richiesta inquadrata in un programma di mobilitazione di massa contro la guerra e per la pace, per la difesa dello spirito e della lettera della Costituzione del 1948 e per mettere in risalto come da parte dei governi di centro-destra e di centro-sinistra sia stato violato l’art.11, a partire dalla guerra alla Jugoslavia, per continuare con quelle in Iraq, in Afghanistan, in Libia per rovesciare Gheddafi (con il quale il governo italiano aveva buoni rapporti economici, ma il presidente Napolitano ha voluto manifestare ossequio alla volontà anglo-americana) e per finire con la partecipazione a sostegno del governo nazifascista di Kiev e della politica aggressiva della NATO verso Est nonché della comprensione e quindi complicità delle aggressioni di Israele verso i popoli arabi, diventa una battaglia democratica per uno sviluppo economico equo e solidale, per disimpegnare il nostro Paese dalle guerre imperialistiche e per far cessare l’espansione della NATO verso Est, a dispetto di quanto affermato nel 1989 da tanti leader, in particolare da George Bush e Helmut Khol, che la NATO non si sarebbe espansa di un centimetro ad Est.
Per una nuova politica estera dell’Italia balza in evidenza Il grave errore del governo Meloni di uscire dal Memorandum italo-cinese sulla Nuova Via della Seta, errore che sta penalizzando la nostra economia, con il mancato potenziamento dei nostri porti, come quelli indicati nel Memorandum di Trieste e di Palermo, nonché per la riqualificazione del porto di Taranto e dell’Italsider, pensando anche all’ampliamento e ristrutturazione di quello di Augusta per favorire gli approdi nel centro del Mediterraneo lungo le autostrade del mare che dall’Oceano Pacifico e dall’Oceano Indiano attraversano il Mediterraneo per dirigersi verso le Americhe e viceversa.
Nel quadro delle relazioni internazionali, con la partecipazione in prima fila della Unione Europea nella guerra della NATO contro la Russia, utilizzando il territorio ucraino e il sangue dei soldati ucraini e delle stesse popolazioni civili che ne subiscono le conseguenze come in ogni guerra (non dimentichiamo che nella seconda guerra mondiale per sconfiggere i tre Paesi nazifascisti sono state bombardate molte città europee e giapponesi, Dresda in particolare rasa al suolo, ma anche Napoli, Roma e Milano, e soprattutto Hiroshima e Nagasaki bruciate dalla bomba atomica). L’Unione Europea sta andando verso la sua disintegrazione proprio perché ha cambiato rotta rispetto allo sviluppo della BRI e dello stretto legame con lo sviluppo del continente eurasiatico (sogno di De Gaulle, un’Europa unita dall’Atlantico agli Urali) per subordinarsi alla strategia del mondo unipolare coloniale a guida americana, seguendo l’esempio della Gran Bretagna, che per aderire in pieno quella politica ha attuato la Brexit.
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