Mélenchon e l’appello agli “arrabbiati non fascisti” (fâchés pas fachos)

Tra meno di sei mesi si terranno le elezioni presidenziali francesi. Malgrado la vicinanza geografica e di cultura politica con l’Italia, ho spesso l’impressione che giunga in Italia un’immagine distorta del dibattito francese e delle posizioni in campo. Il saggio che ho tradotto spero che serva a chiarire l’evoluzione di uno dei principali personaggi politici francesi e dei cambiamenti della sua posizione rispetto al partito di estrema destra di Marine Le Pen, come verso uno dei potenziali candidati, Zemmour, che potrebbe rappresentare una sorpresa a destra. Il sito da cui è tratto non è un sito di sinistra e il suo autore è un ricercatore. I dati presentati come la spiegazione delle evoluzioni politiche e il rendiconto dei risultati ottenuti possono servire anche alla sinistra italiana per affrontare situazioni che presentano grossi elementi di similitudine. (Lorenzo Battisti)

Traduzione di Lorenzo Battisti

da https://aoc.media/

di Manuel Cervera-Marzal (Sociologo al Fondo Nazionale della Ricerca Scientifica francese)

Teorizzata da Jean-Luc Mélenchon, la riconquista degli ” arrabbiati non fascisti ” è diventata un marchio ideologico della France insoumise. Da anni, il leader della France Insoumise è ansioso di riconquistare il voto popolare, andando addirittura a confrontarsi direttamente con Marine Le Pen a Hénin-Beaumont nelle elezioni legislative del 2012 o molto recentemente con Éric Zemmour sugli schermi di BFM TV, e cerca di strappare all’estrema destra i perdenti della globalizzazione. Ecco uno sguardo alle tappe e ai rischi di questa strategia antifascista.

Venerdì 17 settembre, sulle colonne di Libération, Jean-Luc Mélenchon avvertiva dell’importanza di non “lasciarsi intrappolare in dibattiti fetidi con Zemmour e compagnia”. Sei giorni dopo, ha discusso per due ore con Éric Zemmour su un canale di informazione continua. Come concordato in precedenza, la prima metà dell’intervista ha affrontato i temi scelti dal polemista star di Le Figaro (immigrazione, immigrazione e immigrazione) mentre la seconda metà è stata dedicata, su richiesta del leader ribelle, a questioni sociali ed ecologiche. Era necessario andarci? Mélenchon ha fatto il gioco di Zemmour? È caduto in una trappola? Ha legittimato i deliri misogini e l’odio razzista del suo interlocutore? È anche possibile avere un “dibattito”, cioè uno scambio di argomenti razionali, con un individuo che mente come respira e che ha fatto della provocazione la sua vocazione? Perché andare su un canale che ha contribuito attivamente allo slittamento a destra del paesaggio mediatico e del dibattito pubblico?

Quando tali questioni sono sollevate dai turiferari di Giove (soprannome pubblico di Macron Ndt) che non hanno trovato nulla da obiettare quando quest’ultimo ha chiamato Éric Zemmour sulla sua linea diretta per confortarlo di persona dopo un’aggressione, nulla nemmeno quando il loro presidente ha lodato il “grande soldato” Pétain, nulla, infine, quando Emmanuel Macron ha vilipeso il “separatismo” parafrasando Charles Maurras, ci si può interrogare sulle vere motivazioni di queste persone. Allo stesso modo, quando coloro che rimproverano a Jean-Luc Mélenchon di aver discusso con Éric Zemmour hanno sfilato al suo fianco il 19 maggio, durante una manifestazione dei sindacati di polizia di estrema destra, ci si può interrogare sulla loro coerenza.

Dietro questa polemica, che ha la sua parte di incoerenze e meschinità, si nasconde la questione spinosa di quale strategia seguire per contenere la minaccia fascista. A meno che non si pensi che alcune persone abbiano la soluzione definitiva a questo problema (ma allora, perché l’estrema destra ha guadagnato terreno ideologico ed elettorale per quattro decenni?), questa polemica è benvenuta. Finché il dibattito si svolge con calma e senza pregiudizi, abbiamo tutti da guadagnare – “noi” intendendo coloro che si riconoscono come appartenenti alla famiglia della sinistra e, più in generale, alla famiglia democratica. Le scelte fatte da Jean-Luc Mélenchon per combattere l’estrema destra, che le si approvi o meno, sono spunti di riflessione. Quali erano queste scelte? Hanno pagato? Per permettere a tutti di farsi un’idea, facciamo un passo indietro.

Negli anni ’90, Jean-Marie Le Pen ha messo da parte il suo fascino per il liberismo economico della Thatcher e di Reagan. Il Front National è riuscito ad allargare e diversificare il suo elettorato verso le classi lavoratrici. La svolta sociale e la strategia di de-demonizzazione sono state completate con l’incoronazione di Marine Le Pen come leader del partito nel gennaio 2011. La soglia simbolica dei dieci milioni di voti è stata superata al secondo turno del 2017, dove Marine Le Pen ha ottenuto quasi il doppio del punteggio raggiunto da suo padre contro Jacques Chirac nel 2002. Al primo turno, ha conquistato il 39% del voto della classe operaia. E il fallimento delle ultime elezioni legislative, dove il Rassemblement National ha ottenuto solo otto deputati, può essere spiegato con la sua incapacità di stringere alleanze, un handicap paralizzante in un sistema uninominale a due turni. Il partito frontista può ormai affermare di avere una vera base di classe, e non esita a rivendicare sui suoi manifesti il titolo di “primo partito operaio” in Francia. Il voto popolare dell’estrema destra è meno soggetto a fluttuazioni di quello della sinistra radicale. La graduale penetrazione del voto di estrema destra nelle classi lavoratrici è stata concomitante con l’erosione del voto comunista (e socialista) tra le famiglie operaie. Va notato, tuttavia, che una piccola parte di ex elettori di sinistra sono passati direttamente all’estrema destra. Si sono rifugiati per lo più nell’astensione e, allo stesso tempo, i lavoratori di destra si sono radicalizzati verso l’estrema destra.

Alla fine degli anni 2000, alcuni membri del think tank Terra Nova sostenevano che la classe operaia non era più il cuore elettorale della sinistra e che non era più in sintonia con i suoi valori. Hanno quindi consigliato al Partito Socialista di dire addio a questa classe e di rivolgersi a nuovi segmenti della popolazione. Jean-Luc Mélenchon non si è mai rassegnato a questo stato di cose. È per la necessità di riconquistare voti popolari che ha giustificato la scelta di andare direttamente a confrontarsi con Marine Le Pen a Hénin-Beaumont (il collegio parlamentare in cui è stata eletta Ndt) nelle elezioni legislative del 2012: “Le vittorie dell’estrema destra non sono mai avvenute se non sulla base degli errori tattici e strategici della sinistra. Il Partito Socialista non è riuscito a trovare la strada per arrivare al cuore del popolo. Lo scollamento non è solo emotivo, questa sinistra è oggi incapace di dimostrare al popolo che i suoi interessi sono a sinistra. C’è uno scollamento tra il suo programma e le classi lavoratrici. Noi siamo le nuove leve”. Nonostante l’eliminazione al primo turno, Mélenchon crede, con l’ottimismo della volontà, che “ho dimostrato di essere capace di strappare una grossa manciata di penne alla Le Pen, di prenderle dei voti”.

L’obiettivo è quello di riportare all’ovile della sinistra coloro che Mélenchon ha poi chiamato gli “arrabbiati non fascisti” (fâchés pas fachos). Si tratta di strappare all’estrema destra i perdenti della globalizzazione la cui rabbia è stata erroneamente diretta verso lo straniero piuttosto che il finanziere. “Attraverso la signora Le Pen”, ha detto Mélenchon nel 2012, “mi confronto con le idee del FN. […] La via d’uscita dalla crisi passa attraverso il sociale o l’etnico?” Nel 2018, la sua analisi rimane identica. Mentre il movimento dei gilet gialli fornisce a Le Pen e Mélenchon una nuova opportunità per confrontarsi – chi beneficerà della rivolta delle rotonde alle elezioni europee? – Mélenchon ribadisce la sua analisi: “Il compito di quelli come me è di parlare a tutto il popolo, ma forse soprattutto agli “arrabbiati non fascisti” dicendo loro “non fatevi prendere dalla rabbia sbagliata””.

Dal 2012, Mélenchon ha fatto della “semi-demente” del Front National il suo “nemico principale”. Si tratta prima di tutto di una questione di principio: l’urgenza primaria è quella di opporsi al “contenuto razzista e antisociale del programma del Fronte Nazionale”, che minaccia la coesione della nazione tanto quanto gli interessi dei lavoratori. Ma è anche una questione di considerazioni tattiche. Mélenchon è convinto che le porte del potere gli resteranno chiuse finché i social-liberali e la loro progenie macronista potranno brandire a piacimento la minaccia dell’estrema destra per richiamare a sé il voto utile. “È necessario per ragioni morali ed emotive, che voi conoscete, ma anche per ragioni politiche, che si tolga il blocco che Le Pen padre e figlia hanno sulla situazione politica”, ha spiegato in una riunione il 19 aprile 2012. Hollande nel 2012 e Macron nel 2017 hanno usato questo argomento per radunare gli indecisi. “Oggi, un voto per Le Pen è un voto per il sistema e il sistema lo ha capito perfettamente. Gli “arrabbiati non fascisti” non hanno motivo di rivolgersi a questa opzione, che è più che mai l’assicurazione sulla vita del sistema. Tutti coloro che pensano che il problema in Francia e in Europa viene più dal banchiere e dal miliardario che dall’immigrato devono essere chiamati a dare forza alla France insoumise. Questo obiettivo rimane centrale per noi. Questa è la chiave per la continuazione della nostra battaglia: la messa in moto della massa popolare che oggi si auto-rinchiude nel Rassemblement National”.

Teorizzata da Mélenchon, la riconquista degli “arrabbiati non fascisti” è diventata un marchio ideologico della France insoumise. Adrien Quatennens, capo del movimento insoumis dal 2019, lo riconosce senza ambiguità: RN e FI sono impegnati in una gara di velocità, la cui vittoria andrà a chi riuscirà ad “attirare gli arrabbiati non i fascisti” nel suo ovile. François Ruffin ha detto la stessa cosa quando, tracciando il bilancio della sua vittoriosa campagna legislativa, ha attribuito questa vittoria alla clemenza dimostrata verso gli elettori della Le Pen: “Nella Somme, Mme Le Pen ha ottenuto il 41% dei voti al primo turno delle elezioni regionali, e il 45% nel comune operaio di Flixecourt. Penso che dobbiamo partire da lì. […] Il tasso di disoccupazione dei non qualificati, cinque volte superiore a quello dei dirigenti, non li induce ad aspettarsi una “globalizzazione felice”, e nemmeno una “alter-globalizzazione felice”. Ora, alla loro rovina economica e sociale dovremmo aggiungere un’altra condanna: politica e morale. Se votano FN, se si identificano con un partito ostracizzato, la loro esclusione sarà legittimata. Una doppia punizione. […] Macron è praticamente l’unico che ho preso come avversario. Non ho attaccato molto Le Pen. Come può la gente che sta male, socialmente ed economicamente, credere che la signora Le Pen o suo padre, che non hanno mai governato il paese, siano responsabili delle loro disgrazie? Il FN si batte aprendo un’altra strada per la rabbia e la speranza. Offrendo un altro conflitto rispetto a quello tra francesi e immigrati”. Per vincere alle urne, è dunque necessario risparmiare i lepenisti, o addirittura risparmiare lo stesso Le Pen, ammette François Ruffin. Fare i carini con Le Pen per conquistare i suoi elettori: non è quello che il governo di destra ha fatto negli ultimi trent’anni, con il risultato che il Fronte Nazionale è salito ogni volta più in alto? E se, come dice bene Ruffin, i Le Pen non hanno mai governato il paese, non sono forse le loro idee che hanno finito per governarlo, proprio a causa della loro compiacenza?

Gli “arrabbiati non fascisti” sono il simbolo di una scommessa strategica: per i populisti di sinistra, la salvezza elettorale viene dal bracconaggio sulle terre del Rassemblement national. Ma ci sono due modi per strappargli una parte dell’elettorato popolare del FN/RN: convincerlo o sedurlo. Tra il 2012 e il 2017, il discorso di Melenchon ha subito una notevole inflessione in questo senso. Mentre durante la sua prima campagna presidenziale Mélenchon ha cercato di convincere gli “arrabbiati non fascisti” celebrando la “società diversa” e “l’alterità”, nel 2017 ha cercato di sedurre questo elettorato smorzando la sua linea pro-immigrazione del 2012. Così, durante la sua seconda campagna presidenziale, ha insistito che, pur assumendo un dovere di umanità verso i rifugiati, la priorità era quella di ridurre i flussi migratori, contando per questo su accordi diplomatici e commerciali con i paesi di partenza. Nel 2017, i leader insoumis non affrontano più solo la fantasia dell’invasione migratoria trasmessa dal Rassemblement national. Denunciano simultaneamente un’altra fantasia, quella dell’ideologia del “no border” e dell'”abolizione delle frontiere”, promossa dall’estrema sinistra, e cercano di posizionarsi come la via di mezzo tra questi due estremi che, senza ammetterlo apertamente, vengono messi sullo stesso piano.

Parlare agli arrabbiati, non ai fascisti, significa anche intervenire sui media che consultano. Jean-Luc Mélenchon, che ha rifiutato le richieste di interviste di Le Monde e Mediapart per diversi anni, parla regolarmente nelle colonne di Le Figaro (giornale di destra liberale ndt) o su CNEWS (rete televisiva francese di notizie di orientamento qualunquista Ndt). Dirigenti del movimento come il fedele Alexis Corbière e il politologo Thomas Guénolé (che ha lasciato nel 2019) hanno accettato, alla fine del 2018, di rilasciare un’intervista al settimanale di estrema destra Valeurs actuelles, condannato nel 2015 per provocazione all’odio razziale in seguito a un dossier intitolato “Roma, l’overdose”. Nell’intervista di quattro pagine, pubblicata il 3 gennaio 2019, il deputato insoumis afferma che “la Francia è un paese di immigrazione” e che è “assurdo parlare di immigrazione zero”. Ma prende anche le distanze dal “no border”. A proposito dello slogan del Fronte “qui siamo a casa nostra”, sentito in alcune manifestazioni dei gilet gialli, Alexis Corbière dice: “Posso intravedere il potenziale xenofobo dello slogan, ma può anche significare un desiderio di riconquistare la propria sovranità.” La redazione di Valeurs actuelles e la direzione del Front National si compiacciono di questi appelli. Dal loro punto di vista, l’avvicinamento tra populisti di sinistra e populisti di destra è un bene per questi ultimi. Florian Philippot, allora vicepresidente del Fronte Nazionale, si è così divertito a proporre a Mélenchon di “prendere un caffè per discutere tra patrioti” nel luglio 2017. Tuttavia, quest’ultimo ha reso nota la sua risposta attraverso il feed di Twitter di Alexis Corbière: “Niente da fare… I ribelli preferiscono il caffè caldo al caffè fascista”.

Mélenchon sembra ritenere che la qualificazione al secondo turno delle elezioni presidenziali del 2017, mancata per un pelo, avrebbe potuto essere ottenuta grazie ai voti degli “arrabbiati non fascisti”. Senza dubbio ha in mente il 36% dei simpatizzanti del Fronte Nazionale che avevano una buona opinione di lui nel settembre 2017, o il 26% degli elettori di Marine Le Pen che hanno detto che il candidato insoumis era la loro seconda scelta alle elezioni presidenziali. C’era una riserva di voti? Questa è la domanda. Alcuni quadri di Insoumis pensano che i 600.000 voti mancanti del 2017 si trovano da questa parte, tra i ” bianchi poveri ” delle classi lavoratrici, insediati nella Francia ” periferica ” e deindustrializzata. Da me intervistati, questi dirigenti citano i nomi di Christophe Guilluy, Emmanuel Todd e Jean-Claude Michéa per sostenere le loro dichiarazioni. Ma altri insoumis rifiutano questa analisi e ritengono che i 600.000 voti mancanti si trovano in un’altra frazione delle classi lavoratrici: le periferie multiculturali delle grandi città.

Gli appelli agli “arrabbiati non fascisti” hanno dato frutti? La risposta è no. Quando i populisti di sinistra si spostano sul terreno dei populisti di destra, i trasferimenti di voti sono nel migliore dei casi a somma zero, nel peggiore a beneficio netto del Rassemblement national. Al 1° turno delle elezioni presidenziali del 2017, il 4% degli elettori di Marine Le Pen nel 2012 ha votato Mélenchon, e il 4% degli elettori di Mélenchon nel 2012 ha votato Marine Le Pen. Un pareggio, quindi. Per le elezioni europee del 2019, i sondaggisti stimano che la percentuale di elettori della Le Pen nel 2017 che hanno votato per la lista insoumise guidata da Manon Aubry è vicina allo 0%. Al contrario, il 7% degli elettori di Mélenchon 2017 che hanno votato nel 2019 hanno scelto la lista guidata dal giovane frontista Jordan Bardella. A questo possiamo aggiungere il 2% che ha votato per la lista Debout la France di Nicolas Dupont-Aignan. Ciò significa che circa 300.000 persone che hanno votato Mélenchon nel 2017 sono migrate verso l’estrema destra nelle elezioni europee del 2019, mentre meno di 10.000 persone sono andate in senso inverso.

La caccia all'”arrabbiato non fascista” si basa sull’idea che alcuni elettori del FN votano per il FN per esprimere le loro difficoltà sociali. Dovremmo quindi ascoltare la loro sofferenza. Questa analisi ha una certa validità. Tuttavia, quando abbiamo interrogato i diretti interessati all’uscita dei seggi, sono meno quelli che si preoccupano della precarietà (il 55% degli elettori lepénisti al primo turno delle elezioni presidenziali del 2017 ha dichiarato che la lotta alla precarietà ha avuto un ruolo decisivo nella loro scelta), della disoccupazione (69%) e dei servizi pubblici (45%) di quanto non lo siano dell’immigrazione illegale (92%), della delinquenza (85%) e del terrorismo (93%). I driver del voto di estrema destra sono molteplici, complessi, intrecciati e difficili da districare. Variano anche da una regione all’altra; il Pas-de-Calais e la Somme non hanno la stessa storia o la stessa situazione del Var o del Vaucluse. Il 39% degli elettori di Marine Le Pen 2017 appartiene a una famiglia con un reddito mensile netto inferiore a 1.500 euro e il 45% si considera “in fondo alla scala sociale”. Incrociando questi dati, è ragionevole suggerire che circa la metà degli elettori di Le Pen trovano la motivazione del loro voto nelle difficoltà socio-economiche.

Ma si può altrettanto ragionevolmente sostenere che nove lepénisti su dieci hanno come altra fonte di motivazione l’odio o almeno la paura degli stranieri. Questi lepénisti soffrono di una malattia a cui gli insoumis fanno talvolta fatica a dare un nome: il razzismo. Quindi, naturalmente, ci sono sempre state e ci saranno sempre persone pentite. Certamente, le identità politiche non sono mai fisse. Certamente, il risentimento può trasformarsi in rivolta. Certamente, non dobbiamo abbandonare i lavoratori all’estrema destra. Ma, secondo i sondaggi più solidi su questo argomento, l’elettorato frontista mostra un livello record di intolleranza. Esprime una massiccia avversione alle pratiche dell’Islam e mostra un antisemitismo ineguagliato da qualsiasi altro elettorato. È culturalmente, ideologicamente e politicamente radicato nell’estrema destra. I dirigenti Insoumis sembrano sottovalutare questo ancoraggio. Nel 2018, l’85% dei sostenitori del Rassemblement National erano “razzisti” dichiarati. Inoltre, nota lo storico Hugo Melchior, “quando si sono verificati massicci trasferimenti di voti a scapito del FN, come nel 2007, è stata la destra liberale nella persona di Nicolas Sarkozy a beneficiarne. Al contrario, nel 2017, Marine Le Pen è riuscita ad attrarre fino al 14% degli elettori che avevano votato per Sarkozy nel 2012. Questi due casi, a distanza di un decennio l’uno dall’altro, dimostrano la porosità tra gli elettorati di destra, mentre FI, nonostante la sua strategia cosiddetta ” populista di sinistra ” volta a rivolgersi alle classi inferiori trasversalmente alle linee di partito con il suo programma L’Avenir en commun, non è riuscita a riportare nel suo ovile nemmeno una frazione di questo elettorato con un ” tropismo di destra “. E questo, nonostante un discorso che voleva essere più equilibrato sulla questione migratoria”.

Dal 2019, la strategia antifascista di Jean-Luc Mélenchon si è nuovamente evoluta: partecipazione, il 10 novembre 2019, alla marcia contro l’islamofobia (termine che il leader di Insoumis usa ora, dopo aver rifiutato a lungo di usarlo); elogio della “creolizzazione” – un concetto che Mélenchon prende in prestito dal poeta martinicano Édouard Glissant – e riconoscimento del fatto che l’universalismo può essere strumentalizzato dai dominanti per imporre la loro cultura e i loro costumi a tutti; denuncia della natura strutturale della violenza della polizia (mentre Mélenchon precedentemente la vedeva come un problema di “mele marce”); il rifiuto dei deputati di Insoumis di partecipare alla manifestazione della polizia del 19 maggio 2021, dove sono andati invece i dirigenti del PS, del PC e dei Verdi; rottura delle relazioni tra Mélenchon e personalità di destra (Patrick Buisson, Éric Zemmour, ci torneremo), così come con i promotori di una versione identitaria della laicità (Natacha Polony, Henri Peña-Ruiz); sfratto dell’ala sovranista della France insoumise (incarnata da una persona come Djordje Kuzmanović)

Questo insieme di elementi sembra indicare che Jean-Luc Mélenchon non crede più veramente alla possibilità di conquistare il voto “arrabbiato non fascista”. Il segreto del suo successo nel 2017 sta nella sua capacità di riunire la sinistra. Infatti, quell’anno, al primo turno delle elezioni presidenziali, il candidato ribelle raccolse intorno al suo nome il 70% degli elettori che erano “molto a sinistra”, il 48% di quelli che erano “a sinistra” e il 24% di quelli che erano “piuttosto a sinistra”[24]. La geografia del voto del JLM nel 2017 si sovrappone strettamente a territori storicamente ancorati alla sinistra. È vero che molti elettori “di sinistra” non si riconoscono più in questa etichetta, che è stata innegabilmente danneggiata dal quinquennio di Hollande (CICE, la proposta di legge sulla perdita della nazionalità, la legge sul lavoro, ecc.) Ma, se rifiutano il significante, rimangono attaccati al significato: l’uguaglianza. È a loro che Jean-Luc Mélenchon ha rivolto il suo dibattito su BFM a settembre, e non a Éric Zemmour e ai suoi sostenitori.