di Maurizio Musolino
Cosa sta succedendo in Siria non è facile da raccontare, neanche dopo esserci stato di persona, come è accaduto a me qualche giorno fa. Come difficile è pronosticare cosa accadrà nelle prossime settimane, ovvero rispondere alla domanda più inflazionata al momento: come andrà a finire? Una cosa però è facile da dire, ancora una volta – come in Iraq prima e in Libia pochi mesi fa – stiamo assistendo, anzi subendo, una vera e propria operazione di disinformazione e di manipolazione mediatica. Ancora una volta i media diventano uno strumento di guerra, al servizio di stati maggiori che attraverso questi giustificano e promuovono fra l’opinione pubblica bombardamenti e occupazioni.
Arrivando a Damasco, via Amman (l’altra alternativa è il Cairo) visto che gli aeroporti europei hanno chiuso i loro scali ai voli diretti in Siria, si viene subito colpiti da una atmosfera ovattata. Il vociare caotico che da sempre caratterizza strade piazze e mercati di Damasco sembra essere scomparso, lasciando il posto ad un clima nervoso e preoccupato.
Ma di carri armati, assetti di guerra e coprifuoco nessuna traccia. Nessuna traccia di esercito a Damasco. Eppure ero partito da Roma con nella testa ore e ore di notizie su bombardamenti e militarizzazione del territorio: la realtà, almeno a Damasco è invece ben diversa: trovo una città certamente preoccupata, ma con tanta voglia di vivere e di reagire. Una città piena di voglia di normalità. Il primo pensiero è quello di essermi sbagliato, sicuramente non si riferivano a Damasco i bollettini di guerra che in Italia parlavano di bombardamenti, esplosioni e azioni militari. Invece non è così, non mi sbagliavo. La conferma, se mai necessaria, ce l’ho una volta ritornato in Italia vedendo Rainews mostrare un servizio su Damasco “sotto le bombe”. Sia ben chiaro quella attuale non è la normalità. La paura regna sovrana, le città sono prive di turismo e alcune regioni sono difficilmente controllate dall’esercito regolare, tanto che per andare a Latakia da Damasco sono costretto a prendere per la prima volta l’aereo anziché percorrere via terra i circa 250 chilometri che dividono queste due città, <troppo pericoloso passare vicino alla periferia di Homs>, mi dicono. Insomma Damasco non è tutta la Siria, anche se notizie rassicuranti arrivano anche da Aleppo, Tartus e Latakia. Città che insieme fanno più della metà della popolazione della Siria.
Comunque di bombe nella capitale siriana nei giorni della mia permanenza ce ne sono state, ma a tirarle non è stato né l’esercito, né la polizia fedele a Bashar Al Assad. I responsabili, al contrario, sono proprio quei campioni di democrazia, così ce li raccontano i nostri giornali, che si oppongono all’attuale governo. Una vera e propria strategia del terrore, che genera paura e incertezza, e che secondo i piani di questi “rivoltosi” a breve dovrebbe mettere in ginocchio il partito Baath e il suo sistema di potere. Al momento però sono riusciti paradossalmente a mettere in crisi proprio quel pezzo di opposizione che in buona fede chiedeva riforme e democrazia. Molti dei sostenitori delle riforme, anche radicali, oggi temono la deriva “islamica” della rivolta e preferiscono rifluire nel pessimismo e guardare l’evoluzione della crisi tenendosene distanti.
Ma a fare paura è soprattutto la crescente presenza di cittadini stranieri arrivati in Siria per combattere per la “democrazia”. Sono il cuore dell’Esercito siriano di liberazione. Una sorta di milizia mercenaria internazionale, con una forte connotazione islamica, che da anni è al servizio di poteri forti e di interessi consolidati, purché disponibili a mettere sul tavolo cospicui bottini. Una milizia che nasce e si consolida nell’Afghanistan degli anni Ottanta, promossa dai servizi statunitensi con l’obiettivo di alimentare la contrapposizione contro il blocco sovietico, per poi di anno in anno spostarsi prima nei Balcani, dopo – come elemento destabilizzante del governo di Saddam Hussein – in Iraq, e infine in Libia e Siria. Una milizia che di volta in volta assume nomi e definizioni diverse, Al Qaida, gihadisti, salafiti…, ma che nella sostanza conserva caratteristiche proprie e intercambiabili a secondo del teatro del conflitto e degli interessi che la muovono e la pagano. Un esercito a-ideologico, che sotto l’apparente coperta dell’Islam nasconde una spregiudicatezza estrema.
Su questa milizia il mondo occidentale dovrebbe spendere qualche ragionamento e riflessione. Specie dopo quello che è successo negli Stati Uniti nel settembre 2001. Chi può rassicurarci che dopo aver sfruttato questi mercenari per compiere lavori sporchi in varie parti del mondo non ce li ritroviamo all’interno dei nostri stessi stati, come forte elemento di destabilizzazione? La crisi economica che nei prossimi anni farà pesantemente sentire le ripercussioni drammatiche di politiche liberiste e capitalistiche può in questo senso divenire un brodo di culture terroristiche pericolosissime per le nostre democrazie e conniventi con quei settori finanziari che invocano poteri forti in grado di imporre purghe dolorosissime alle classi più povere dell’Europa. Un semplice buon senso ci dovrebbe portare a isolare e combattere questi elementi invece di esaltarli e di rafforzarli come sta accadendo in queste settimane in Siria.
Con queste premesse è chiaro che la partita che si sta giocando intorno a Damasco è ben più ampia del futuro della Siria. Pertanto è estremamente difficile fare pronostici, una cosa però ad oggi si può dire: lo stato c’è ed è ancora forte. Lo si capisce da tante cose, dall’organizzazione all’interno degli aeroporti alla presenza dei vigili negli incroci e nelle vie – come sempre distratti e svogliati – , passando per le scuole, le università, le poste, gli ospedali… Insomma tutti quei servizi che fanno uno “stato”. Nulla di simile a quello che nelle prime settimane di rivolta era successo in Tunisia, Egitto, e Libia. Anzi sono proprio i dirigenti comunisti a sottolineare come “nessun ambasciatore ha abbandonato la propria sede o sia passato con i ribelli”. Una verità che però nasconde anche un’altra faccia messa in risalto questa volta da settori dell’opposizione: la caratteristica confessionale dell’attuale classe dirigente siriana. Un legame più forte di ogni altra cosa.
Gli alawiti certamente sanno bene che se dovesse cadere Assad per loro arriverebbero giorni difficili, ma questa convinzione è fatta propria anche dalle tantissime chiese cristiano-ortodosse presenti in Siria. L’ombra di un ripetersi di quanto accaduto in Iraq terrorizza le chiese cristiane e le stesse parole del patriarca Hazieem della chiesta mariana, situata al centro del quartiere cristiano nella città vecchia di Damasco, ricordando la storia di Paolo sulla via di Damasco sottolineano il fatto che qui si radicarono la religione islamica e quella cristiana e che tutte le religioni nelle loro varie suddivisioni qui hanno convissuto per secoli e secoli. Una pace che ha visto nella comunità alawita, proprio perché minoranza, un elemento di importante mediazione e stabilizzazione. Il patriarca ci racconta come quest’anno <a Pasqua i musulmani sono venuti a pregare da noi, lo fanno ogni anno, ma questa volta erano tantissimi, in segno di solidarietà e pace>.
In favore del dialogo e della pace fra le diverse confessioni si è espresso anche il gran Muftì della moschea Omayede di Damasco. Ahmad B. Hassoun tuona contro le “ingerenze estere che fabbricano la guerra invece di lavorare per la riconciliazione fra tutte le parti. C’è gente che uccide per denaro, soldi che arrivano da fuori. Ditelo. Sono armati e ricevono molti dollari>. Nessuna difesa d’ufficio del regime, che secondo il religioso sunnita <va cambiato in modo pacifico, non con l’uccisione di tante persone in cambio di denaro>. Per il Muftì <chi oggi uccide in nome di Allah fa un uso politico della religione che non si giustifica in alcun modo. Lo vediamo in Arabia Saudita, in Afghanistan, in tanti posti>. Parole dette con le lacrime negli occhi per il dolore e la rabbia: suo figlio è stato ucciso, fuori dall’università di Latakia, colpevole di rifiutare quello scontro fra confessioni che qualcuno vorrebbe imporre al Paese.
Ma a temere una opposizione targata Qatar è soprattutto quella parte di società siriana che in questi anni si è caratterizzata per la sua laicità. In questo senso è emblematico il colpo d’occhio che si riceve entrando nell’università pubblica di Damasco. I viali sono strapieni di studenti, ragazzi e ragazze che camminano, studiano, parlano e socializzano. Sembra una qualsiasi università del mondo se non fosse per la curiosità che porta in breve decine di studenti intorno alla delegazione del Consiglio mondiale per la pace (di cui faccio parte). Vogliono parlare con noi: ci dicono che loro non vogliono guerre e terrorismo, che vogliono decidere autonomamente del loro futuro e attaccano le ingerenze straniere e soprattutto quanto Qatar, Arabia Saudita e Turchia stanno cercando di fare. Non difendono Assad, anzi chiedono maggior coraggio e riforme più incisive. Sotto attacco sono anche i mezzi di informazione arabi, fra tutti Al Arabya e Al Jazeera, ieri campioni di libertà oggi strumento di manipolazioni e di un uso bellico dell’informazione. La prima fa riferimento all’Arabia Saudita, la seconda al Qatar. E su di un muro di Damasco si legge una scritta fatta da poco dove si da “della prostituta” all’emittente qatariota. Anche questo è un pezzo del conflitto che avvolge la Siria.
Ma torniamo ai cosiddetti ribelli. Chi sono? Nelle prime settimane il malcontento ha avuto una certa connotazione di massa, questo grazie alla somma di tre elementi: “un effetto a catena” delle cosiddette primavera arabe, una crisi economica che faceva sentire i propri effetti causando disoccupazione e che si sommava a due anni di siccità che aveva messo in ginocchio l’agricoltura, e infine una legittima stanchezza verso un partito che governa da oltre quarant’anni il Paese. In quella fase, come spesso accade ai governi in carica da molti anni, l’esecutivo siriano pecca di presunzione e resta sorpreso dalla presenza nelle piazze di una opposizione diffusa. Le prime reazioni sono spropositate e si fatica a comprendere realmente cosa sta accadendo. Vi sono vere e proprie violenze da parte della polizia, condannate poi dalle stesse forze che sostengono il Fronte patriottico nazionale. In prima fila nella critica sono proprio i due partiti comunisti.
Il paradosso sta però nel fatto che proprio quando Assad condanna gli eccessi della polizia e inizia ad aprirsi alle riforme, l’opposizione si trasforma, muta radicalmente pelle, e alle legittime richieste di democrazia e pane sostituisce l’obiettivo geopolitico di un cambio di campo del Paese. In pochissime settimane all’opposizione che riempiva le piazze si sostituisce qualcosa di ben diverso, il terrorismo, che ha come fine ultimo il vecchio progetto del Pentagono di sbarazzarsi in qualunque modo di uno dei pochissimi stati nazionali rimasti integri e non allineati ai suoi desideri. Una evoluzione non nuova, che ha caratterizzato in questi mesi gran parte delle rivolte arabe.
Per comprendere cosa succede può essere utile ricordare una scena di un film sempre attuale: Il Padrino. Nella pellicola di Francis Ford Coppola ad un certo punto si vede una riunione di “famiglia” intorno al tavolo da pranzo del “padrino” don Vito Corleone. Il boss in quella occasione parla delle imminenti elezioni per il rinnovo della presidenza della repubblica statunitense dicendo: <vinca chi vinca, ma il vincitore deve essere legato a noi>. La mafia non poteva perdere e così i poteri che ruotano intorno alla Casa Bianca non possono permettersi di vedersi sfilare l’egemonia che da decenni hanno in Medio oriente. Costi quel che costi. In questa ottica si deve leggere il cambio di rotta dell’amministrazione Obama, che pur difendendo gli stessi interessi del suo predecessore, decide di mettere fine alla crociata contro l’Islam per iniziare una strettissima collaborazione con una parte dell’islam politico sunnita che ideologicamente ha per riferimento i Fratelli Mussulmani. Una corrente questa da sempre estrema e intransigente nel voler applicare i precetti coranici quanto compatibile e buon alleata di componenti anglosassoni del liberismo di mercato.
C’è un elemento che invece non sembra preoccupare più di tanto i siriani, ovvero gli effetti del boicottaggio voluto da Obama e oggi strettissimo. In tanti mi ricordano che la Siria è vittima da circa un decennio di un embargo illegale quanto aggressivo. Una situazione che ha sviluppato anticorpi e una economia capace di resistere sul modello dell’esperienza cubana.
Se la realtà odierna è questa ben più complicato è cercare di definire come poter uscir dall’imbuto di violenze e destabilizzazione che caratterizza questa fase. Sicuramente le riforme rappresentano un primo passo importante, anche se insufficiente. In questo senso proprio la riforma elettorale può essere un primo banco di prova sulle reali volontà riformatrici di Bashar Al Assad. Fra le nuove liste ammesse alla tornata elettorale per il rinnovo del Parlamento molte sono vicine al partito Baath, ma non tutte, e comunque nel loro insieme è innegabile l’aspetto dialettico che inseriscono nella vita politica siriana. Un aspetto che balza agli occhio camminando per le strade di Damasco, come di Latakia o Aleppo, sommerse da manifesti elettorali di questo e quel candidato. Molte anche le candidate donne, tante di queste si propongono con manifesti elettorali che le rappresentano senza veli e con un look decisamente liberal. Un modo anche questo per sottolineare l’aspetto di apertura, anche nei costumi, presente nella società siriana.
Ma i siriani non si illudono sanno che la crisi non potrà finire con tempi stretti e che la loro autodeterminazione potrà prevalere solo se potranno continuare a contare su un indiretto sostegno dei Brics, i paesi oggi unico contraltare degli Usa, che hanno già fatto sentire la loro voce bloccando risoluzioni alle Nazioni Unite che avrebbero avuto l’effetto di replicare quanto accaduto in Libia.