di Maurizio Musolino | da www.controlacrisi.org
E’ passato un anno e mezzo da quel giorno di dicembre quando il telegiornale dava la notizia di manifestazioni in Tunisia contro il regime di Ben Ali. Sembrava uno dei tanti fuochi, destinato però a spegnersi immediatamente. Nessuno poteva pensare che da lì l’incendio si sarebbe propagato mettendo in crisi uno status-quo regionale che durava da decenni. Nei giorni successivi, invece, le rivolte dalle campagne interne del Paese si estesero alle città della costa, Sfax, Sousse, fino ad arrivare a Tunisi. Dalle iniziali parole d’ordine sul “pane” e sul “lavoro” si inizia a chiedere un cambio radicale alla guida del governo, in pratica si mette in discussione il potere di Ben Ali e della sua famiglia. Una novità sconvolgente per il regime, che si considerava inattaccabile e eterno.
Ma queste proteste non sorprendono solo Ben Ali; in realtà sia le opposizioni (comunisti e islamisti compresi), sia quelle potenze occidentali che da sempre hanno sostenuto il regime, sembrano sorpresi e sbigottiti da un movimento nato “dal nulla”.
Gli Usa vedono in poche settimane mettere in discussione una strategia che si era dimostrata vincente appena un decennio prima, quando tre grosse nazioni della regione avevano cambiato i leader – morti per vecchiaia – attraverso il passaggio del potere ai figli. Marocco, Giordania, Siria dimostravano che era possibile continuare a mantenere un sistema di potere a prescindere dalla persona che lo aveva creato.
A dire il vero, che questo schema non funzionasse più gli Usa ne avevano avuto sentore qualche tempo prima, soprattutto quando in Egitto era sembrato a tutti chiara l’impossibilità di un passaggio delle consegne da Mubarak padre a Mubarak figlio. E non a caso proprio dall’Egitto, al Cairo, Barak Obama una volta eletto aveva deciso di mandare un preciso messaggio al mondo islamico: l’era della contrapposizione frontale voluta da Bush era finita. La nuova amministrazione americana, soprattutto grazie al lavoro della segretaria di stato Hillay Clinton, metteva sul tavolo una nuova proposta, una sorta di “compromesso storico” fra forze liberiste – Usa in testa – e una fetta di islam politico sunnita facente capo ai Fratelli Musulmani. Questi ultimi tanto integralisti sotto il profilo religioso quanto aperti e compatibili con il sistema economico del mercato. Era il maggio del 2009.
Ma ritorniamo alla Tunisia. Le rivolte non diminuiscono nonostante la confusa, e a volte violenta, reazione di Ben Ali. Nel giro di pochi giorni si arriva così alla fine del dittatore. La piazza aveva vinto e a questo punto iniziava il difficile percorso verso una democrazia nuova. Ma soprattutto la caduta di Ben Ali dimostrava la fragilità di certi regimi e incoraggiava altri paesi a provarci. Un effetto domino che investe subito l’Egitto di piazza Tahrir e provoca la caduta di Mubarak. Si inizia a parlare di “primavere arabe” e alcuni si spingono oltre definendo le rivolte delle vere e proprie “rivoluzioni”. A spegnere gli entusiasmi però ci vuole poco. Arriva la Libia.
Alle iniziali proteste che vedono fra i protagonisti anche giovani e parte della popolazione desiderosa di maggiore democrazia e libertà, si sostituisce una opposizione sempre più armata e militarizzata che immediatamente mette sul piatto del confronto con Gheddafi il peso di potenti alleati: Francia e Usa su tutti. Appare subito chiaro che qui la partita è ben più ampia di legittime richieste di democrazia e libertà, mette in gioco la collocazione geopolitica della Libia e soprattutto il destino delle sue enormi risorse energetiche. Si passa ad una nuova fase, ancora oggi in atto. La primavera iniziava a divenire autunno, se non inverno inoltrato.
Ma ancora una volta ritorniamo a Tunisi, perché il piccolo paese nordafricano ha molti aspetti emblematici che aiutano a capire molti dei processi in atto. Con la caduta di Ben Ali le opposizioni escono dalla clandestinità e si propongono come forze disposte a gestire il futuro del Paese. Fra queste quella maggiormente organizzata appare subito Al Nahda, partito islamico vicino ai Fratelli Musulmani. Leader di Al Nahda è Rashid Ghannouchi, uno dei massimi pensatori dell’islam politico, che caratterizza immediatamente il suo partito per una visione nazionale e islamica. Si contrappongono a Al Nahda una serie di forze politiche che vanno dal centro alla sinistra marxista, partiti populisti e demagogici e i religiosi che si ispirano al salafismo. I Fratelli musulmani in questi ultimi mesi hanno stretto sempre di più la loro dipendenza con il Qatar, grande finanziatore della loro strategia politica, mentre il salafismo, in una logica di contrapposizione di influenze, sono sostenuti principalmente dai principi dell’Arabia saudita.
Le sinistre invece si presentano estremamente divise e incapaci di trovare elementi di unità. Il resto lo fa un sistema elettorale che dietro una apparente struttura proporzionale nasconde – grazie a tantissimi micro-colleggi – una realtà estremamente maggioritaria. Il risultato di tutto questo è che dopo quasi un anno si arriva all’elezione dell’Assemblea costituente e da questo voto esce una vittoria nettissima di Al Nahda.
Questo avviene anche perché stranamente – ma non troppo – tutta la campagna elettorale viene incentrata sul carattere laico o religioso del futuro stato (senza affrontare i temi che avevano dato origine alle rivolte: la disoccupazione, i bassi salari e le disparità fra costa e aree rurali interne). E’ bene sottolineare anche che la percezione che gran parte dei tunisini hanno della parola laicità non è simile alla nostra, bensì più vicina ad un concetto di ateismo.
Ma il voto fa emergere anche le potenzialità delle forze di sinistra, che se non frantumate avrebbero rappresentato la seconda forza politica della Tunisia. Una forza che viene confermata dal congresso nazionale dell’Ugtt, l’ex sindacato unico che era riuscito però a dimostrare inaspettatamente autonomia e protagonismo nei primi giorni delle rivolte avendo un ruolo determinante nella caduta del vecchio dittatore. Dal primo congresso libero il sindacato esce con un gruppo dirigente largamente rinnovato e con una forte presenza dei comunisti negli organi dirigenti.
I mesi che seguono l’elezione dell’Assemblea costituente sono caratterizzati da un tran tran sulle norme costituzionali, ma dietro questo la cenere continua ad ardere e i conflitti sociali seppur sopiti non accennano a finire. La prima contraddizione a riaprirsi è proprio quella che vede opposta la costa – ricca e con buone infrastrutture – all’interno, povero di tutto. I “ragazzi” delle zone rurali reclamano un protagonismo che avevano avuto nei primi giorni delle rivolte e che poi si sono visti scippare di mano dai “soliti noti” della costa. Chiedono lavoro e possibilità di vita dignitosa per il futuro. Chiedono sviluppo. Ma queste legittime richieste non ottengono nessuna risposta. Il Nahda, provvisoriamente al governo, cerca di presentarsi come una specie di Dc islamica, ovvero forza di centro e di “mediazione” contro gli estremismi di sinistra e dei salafiti. Il partito islamico si candida ad assicurare l’ordine e la stabilità, il tutto nel nome di una assoluta continuità con gli interessi economici precedenti alla caduta di Ben Ali. In queste ultime settimane la riapertura del conflitto sociale, attraverso manifestazioni e scioperi che coinvolgono molti settori pubblici, si è avuta soprattutto grazie allo stimolo del sindacato.
Qualcosa di simile nel frattempo avviene anche in Egitto. Anche lì i Fratelli Musulmani ottengono la consacrazione della loro forza prima nelle elezioni parlamentari e poi al primo turno delle presidenziali. Anche li i Fratelli musulmani, sunniti moderati, si giovano della presenza del salafismo che così li colloca in un ideale sfera di centro. Anche lì il fronte laico e progressista si presenta diviso. Anche lì, infine, l’islam politico, cosiddetto moderato, si presenta in piena continuità con gli interessi economici di sempre. Ma rispetto alla Tunisia, dove comunque la partita resta ancora aperta, in Egitto tutto sembra già deciso. Anche perché l’Egitto per storia, popolazione e peso politico ha una statura ben superiore di tutti i paesi della regione.
Detto questo resta il percorso che sta percorrendo la Tunisia, che a secondo degli sbocchi potrà influenzare anche i paesi limitrofi. Ma soprattutto c’è un elemento – questo sì – di assoluta e positiva novità: tanti giovani e uomini e donne che fino a ieri non osavano parlare di politica perché temevano repressioni e violenze oggi parlano e discutono del loro futuro. Discutono di quello che vorrebbero e di quello che non accade. Un entusiasmo contagioso per chiunque ha la fortuna di recarsi in quelle terre.
Parallelamente a tutto questo c’è la Libia. A leggere – o meglio a non leggere – i nostri media sembra di trovarci di fronte ad una sorta di buco nero. Nulla trapela di cosa stia succedendo a Tripoli e l’unica certezza è che le mani sui rubinetti delle risorse energetiche sono le stesse che hanno guidato i bombardamenti sulle città libiche ad opera della Nato. La Libia sconta una fragilità della società civile, messa sotto anestesia per decenni dal regime di Gheddafi. A molti mesi oramai dalla fine del colonnello non esistono ancora dei veri e propri partiti e l’amministrazione di quello che resta dello stato libico sembra affidata a bande armate e signori locali. Le stesse elezioni per l’assemblea costituente – previste per la metà del mese di giugno – continuano ad essere ricche di incognite a partire dalla stessa data. Di sicuro però c’è che a contendersi i posti per la stesura della futura Costituzione non saranno partiti o movimenti, ma singoli notabili locali.
La Libia sembra così essere diventata una sorta di terra di nessuno – sono quotidiane le denunce da parte della polizia di frontiera tunisina per le incursioni di bande armate nelle zone limitrofe al confine – dove al momento vige la legge del più forte e dove l’unico ordine che ci si è affrettati a ricostituire è stato quello dell’utilizzo delle risorse energetiche. Un po’ poco per giustificare guerre e distruzioni, anche agli occhi dei più coerenti oppositori del regime di Gheddafi.
E soprattutto un monito ai siriani, per quello che potrà succedere al loro paese. E se a tutto questo si aggiunge che quello che è accaduto in questi 18 mesi non hanno neanche minimamente aiutato il popolo palestinese a ritrovare la strada dell’unità e di una pur fragile proposta politica ci si rende facilmente conto che al di là di affermazioni e slogan c’è davvero poco di cui essere felici.