di Najwa Sheikh Ahmad* | da Nena News
Un giorno a scuola mi dissero di scrivere delle mie origini. A casa mi padre divenne ansioso ed eccitato, aveva la possibilità di raccontarmi del suo tesoro, la sua storia.
Il 15 maggio 1948 i palestinesi venivano costretti con la forza ad abbandonare le loro terre orginarie, ormai assegnate allo stato di israele..
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Sono una rifugiata palestinese, nata a Khan Younis, uno dei campi profughi nel Sud della striscia di Gaza. Khan Younis era la mia casa – da lì nascono i miei ricordi. Quando ero bambina, non pensavo e addirittura non mi interessava sapere quali fossero le mie origini, anche se spesso sentivo i miei genitori ed i miei nonni menzionare la parola “Al-Majdal”. Ma per me, Al-Majdal (Ashkelon, ndr) non significava nulla, solamente un luogo illusorio di ricordi speciali per i miei genitori. Un giorno, tutto è cambiato: il nostro insegnante a scuola ci ha chiesto di scrivere un saggio sul nostro luogo d’origine. A casa, ho detto a mio padre del compito da fare, e lui è diventato molto ansioso ed eccitato – finalmente gli era stata data la possibilità di raccontarmi del suo tesoro. Mi ha chiesto di prepararmi a scrivere la sua storia.
Con parole piene di passione, di dolore, di dispiacere e con una sensazione di smarrimento, mio padre, settantenne, mi parlava della nostra città, di Al-Majdal. Con la sua voce forte e piena di orgoglio sembrava parlare, in maniera dolce, dei suoi cari. Incapace di seguire le sue parole, ho smesso di scrivere, ma continuavo ad ascoltare il flusso di parole sul suo caro paese, il suo paradiso dove la gente era felice e viveva una vita semplice. Il giorno dopo, l’insegnante mi ha chiesto di leggere il mio saggio per la classe. Ho preso coraggio, e lentamente ho iniziato a raccontare la storia di mio padre. Nel farlo, mi sono resa conto di un nuovo sentimento dentro di me – un bramoso sentimento di orgoglio e di passione per la mia origine. In seguito, nel 1998, ho avuto la possibilità di visitare la mia città natale. Un giorno, quando stavo tornando a Gaza da Tel Aviv, dove ero stata per ottenere un visto presso l’Ambasciata americana per visitare i miei fratelli negli Stati Uniti (a quel tempo era possibile viaggiare a Tel Aviv), ho visto Al-Majdal per la prima volta. Il ricordo di quando sono arrivata al villaggio è ancora chiaro e vivo, il mio cuore batteva così velocemente, ero così felice e il mio corpo tremava.
Cercavo di ricordare le parole dei miei genitori circa la loro casa perduta, l’albero di fico sotto il quale sono riusciti a trovare la pace, la moschea nel centro della città, ed i dolci frutti del fico che non potranno mai dimenticare. Ero concentrata a ricordare tutto quello che ho visto cosi poi da poterlo descrivere ai miei genitori. Quando sono entrata nella città, c’era una moschea, con molti archi, che gli israeliani avevano trasformato in un negozio di caffè, una bottega di un fabbro ed un bar. Un’altra casa, con la sua architettura antica, era sul lato sinistro della strada: in quel momento avrei voluto che le pareti di quegli edifici potessero parlare, e mi avessero potuto dire chi era il vero proprietario di queste terre.
A casa, i miei genitori erano in trepidante attesa per me. Non avevano a cuore il mio viaggio, o la mia intervista presso l’ambasciata, ma solo Al-Majdal: Senza fiato mio padre mi ha chiesto: “Che cosa hai visto? E’ tutto ancora lo stesso? E la moschea è ancora lì?”. Io gli risposi di “Sì”, ed in quel momento ho sentito lo smarrimento, il lutto e la disperazione nei loro toni. Ho detto a loro che la moschea era ancora lì, e le sue arcate sono state trasformate in negozi: mio padre se ne è rattristato. Avrei voluto portarli là, ma purtroppo, questo era impossibile. Mio padre ha proseguito: “Il minareto della moschea è ancora come prima?”. Gli ho risposto di si, e mio padre ha aggiunto che la voce del minareto raggiungeva il cielo.
Anni dopo, mentre lavoravo per l’UNRWA, mio padre ha chiesto se il mio supervisore, un internazionale che viveva ad Ashkelon, poteva scattare alcune foto di Al-Majdal. Mio padre era desideroso, come un bambino che implora per avere un giocattolo, di sapere se la sua casa era ancora lì. Allora mi sono resa conto che entrambi i miei miei genitori si chiedevano come sarebbe stato ritornare o perlomeno andare a visitare la loro città natale, ma temevano di morire prima di poter ritornare nelle loro case perdute, come era successo ai miei nonni.
Ho chiamato alcuni giorni fa mio padre per richiamare questi ricordi. Mi ha detto che l’unica cosa che vorrebbe vedere è la sua vecchia casa, con la palma, dalla quale distruibuivano i datteri ai parenti e vicini. La Nakba significa scappare dalle nostre case con tutto il conseguente dolore e la sofferenza, ma ancora più importante, la Nakba è tramandare questa tragica memoria da una generazione all’altra – dal nonno e la nonna, alla madre ed al padre, alla figlia e il figlio – senza alcuna speranza di pace e di ritorno. Mi chiedo se i miei figli condivideranno i miei sentimenti su Al-Majdal. Se saranno in grado di condividere gli stessi ricordi. O la parola Al-Majdal sarà solo una parola senza alcuna importanza o sentimento.