La Libia sprofonda nel caos

da “Avante” | Traduzione a cura di Marx21.it

sirte distruzione-w300Migliaia di morti, feriti e scomparsi, città rase al suolo o spopolate dalla guerra, prigioni dove si tortura gente, senza che neppure si sappia di cosa sia accusata, e un territorio dove migliaia di miliziani operano nella totale impunità è la realtà che emerge in Libia un anno dopo la sollevazione filo-imperialista, iniziata il 17 febbraio 2011.

Non ci sono state cerimonie ufficiali e neppure sfilate militari. Così è stato celebrato il primo anniversario della sollevazione dei mercenari in Libia. A Tripoli e Bengasi, molti libici hanno approfittato dell’opportunità per esprimere la loro disperazione per i ritardi nella ricostruzione del paese e delle istituzioni e dei servizi pubblici, ha segnalato Prensa Latina. Hanno manifestato contro la corruzione, la mancanza di sicurezza e la criminalità, le promesse che ritardano a concretizzarsi.

La stessa fonte aggiunge che il presidente del cosiddetto Consiglio Nazionale di Transizione (CNT), Abdel Jalil, e il primo ministro, Abdel el-Keib, si sono recati nella seconda città del paese per partecipare alle celebrazioni, ma hanno tatticamente respinto il cerimoniale.

Il CNT ha giustificato le sue riserve con il rispetto per i “martiri della rivoluzione”. In verità, il Consiglio è stato contestato da molti di coloro che fino a poco tempo fa lo appoggiavano, compreso chi combatteva in suo nome. Recentemente, Abdel Jalil è stato persino aggredito dalla furia di centinaia di libici, proprio a Bengasi.

Nella città, le misure di sicurezza sono state rafforzate per paura di infiltrazioni di filo-gheddafisti nelle celebrazioni (Haaretz, 20.02), e neppure la voce secondo cui il CNT avrebbe distribuito 1.600 dollari a ogni famiglia in occasione dell’anniversario della sollevazione armata del 17 febbraio (Russia Today) pare avere rinvigorito la simpatia delle masse.

Secondo uno studio dell’università di Oxford, citato da Russia Today, il 35% dei libici desidera la restaurazione del vecchio regime. Uno dei figli di Gheddafi, Saadi, ha assicurato, dal Niger dove si trova in esilio, che una rivolta con l’obiettivo di riscattare la sovranità della Libia sta per essere scatenata. Si presume che avrà l’appoggio del recentemente creato Movimento Popolare Nazionale (Publico, 18.02).

Un potere balcanizzato

Il fatto è che la situazione politica e sociale è tesa. Il CNT non dirige che gli affari correnti affrontati negli uffici del cosiddetto governo di transizione.

Nelle strade il potere è un altro. Viene diviso tra 100 e 300 gruppi diversi (nessuno arrischia calcoli precisi), coinvolti in un braccio di ferro per garantirsi la loro parte del bottino dell’aggressione imperialista.

A Tripoli, ad esempio, brigate di Misurata e Zilten continuano a controllare la città. I negoziati sul loro disarmo o, come minimo, sulla subordinazione alle nuove autorità, si sono rivelati infruttiferi. Una milizia controlla l’aeroporto internazionale, altre si dividono i quartieri della capitale come se fossero feudi. Non di rado si affrontano nelle strade, terrorizzando la popolazione (Associated Press, 17.02).

L’agenzia France Press sottolinea il clima di “incertezza sulla stabilità e la sicurezza”, motivato dalla “legge” esercitata dalle milizie, che “dettano norme consonanti con il contesto e che rispondono sempre a propositi materiali e al rafforzamento della loro influenza”.

Un consigliere della Banca Mondiale nota che le milizie “perseguono interessi che impediscono loro di smettere”. Neppure la promessa di inclusione di loro membri nei futuri contingenti della polizia e delle forze armate, come ha ripetutamente promesso il CNT, si è rivelata efficace, sottolinea anche AFP.

Impunità assoluta

“Calcoliamo che esistano 50.000 combattenti”, ha ammesso Ashur el-Shames, portavoce del CNT, citato da El Pais. Una parte di questi combattenti controlla circa 8.000 persone incarcerate senza alcuna accusa formale.

Ancora più grave appare il fatto che organizzazioni come Medici Senza Frontiere e Amnesty International riferiscano sulla diffusione della tortura nelle prigioni. AI ha insistito, il 16 febbraio, nella denuncia della tortura come pratica ricorrente e accettata.

Continuano ad essere impuniti anche i criminali che hanno ordinato i bombardamenti ininterrotti e massicci della NATO per sette mesi. Almeno 30.000 persone sono morte e 50.000 sono risultate ferite. Altre quattromila persone sono scomparse, ha riconosciuto, lo scorso settembre, il CNT.

Città come Sirte sono in rovina e spogliate della popolazione. La violenza arbitraria impera come la criminalità perpetrata da gruppi di banditi armati fino ai denti, che molestano la popolazione, denuncia Russia Today.

El Pais parla persino di pulizia etnica evidenziando il caso del villaggio di Tauerga, vicino a Misurata, popolato in maggioranza da discendenti degli schiavi provenienti dall’Africa Nera.

Considerati sostenitori del precedente regime, sono ora il bersaglio di una miscela di “odio politico e razzismo malcelato”, conclude il giornale. “Case saccheggiate e bruciate, strade distrutte e silenziose” è lo scenario che si presenta, da attribuire alla vendetta compiuta dai ribelli venuti da Misurata.

I circa 35.000 abitanti di Tauerga sono ora rifugiati e reclusi nel loro stesso paese. Non possono ritornare. Si tratta di una rappresaglia per la loro presunta fedeltà a Gheddafi.

“Abbiamo dovuto lasciare le nostre case a causa della brutalità delle milizie”, ha raccontato Atiya al Mayub a El Pais. “Il giorno in cui sono partita, ho contato quaranta cadaveri solo nel mio quartiere”, ha aggiunto.

Mayub si trovava, come migliaia di altri cittadini, sotto la custodia delle milizie. Lo scorso 6 febbraio, i mercenari sono venuti a cercare alcuni detenuti. Non era la prima volta che Mayub assisteva alla selezione di prigionieri che non ritornano o ritornano massacrati dai maltrattamenti.

Ma questa volta i carnefici le hanno provocato un disgusto tale da non essere più dimenticato: hanno ucciso suo figlio, di 13 anni, quando hanno sparato sulla folla dei carcerati, che protestavano contro quella selezione sadica di persone da torturare.

L’ipocrisia

La recentemente creata agenzia umanitaria per la Libia, dipendente dalle Nazioni Unite, ammette l’esistenza del “risentimento”nei confronti delle genti di Tauerga, ma afferma che questa è una “materia delicata” e che “qualsiasi dirigente che si pronunci pubblicamente a favore degli abitanti” corre il rischio, come minimo, “di perdere le prossime elezioni”.

Vengono ammessi ipocritamente gli assassini. Ma si transige sulla tortura, e il segretario generale dell’ONU, Ban Ki-moon, in occasione del 17 febbraio in Libia, ha chiesto cinicamente alle autorità libiche di rispettare i diritti umani. “Una rivoluzione realizzata in nome dei diritti umani non può degenerare nella loro violazione”, ha dichiarato Ki-moon (Publico, 18.02).

Ki-moon sa che il genocidio che si sta perpetrando nella Libia “rivoluzionaria”, come l’ha definita, non è una degenerazione, ma parte di un progetto calcolato dai “combattenti della libertà”, che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha riconosciuto, promosso e animato quando ha dato copertura all’aggressione della NATO contro la Libia.

Ki-moon, gli USA e l’UE hanno sempre saputo che, come disse Diderot, “dal fanatismo alla barbarie c’è solo un passo”. Ancora nell’ultima riunione del Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU, svoltasi a Ginevra si è potuto confermare il pensiero cavernicolo delle attuali autorità libiche quando il nuovo rappresentante del paese in questo organismo ha dichiarato che “l’omosessualità minaccia la religione e la riproduzione della specie umana” (Russia Today).

Loro sanno e hanno sempre saputo che, siccome quest’anno Tripoli promette di far tornare la produzione di petrolio ai livelli di prima della guerra imperialista, poco importa poco importa che la Libia e il suo popolo sprofondino nel caos.