Intervista a Mohamed Hassan: Siria, tessera ingombrante per il puzzle americano

di Tony Busselen e Bert De Belder | da Partito del Lavoro del Belgio

Traduzione dal francese per www.resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

 

Se ci si fida dei politici e dei media europei e americani, sembrerebbe che il mondo intero voglia un cambiamento di regime in Siria. Altrove, è meno evidente. Mohamed Hassan inquadra la Siria nel grande puzzle del Medio Oriente e dell’Asia centrale.

 

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Quali sono le forze che vogliono un cambio di regime in Siria e perché?


Mohamed Hassan. Sono gli Stati Uniti, Israele e i regimi reazionari arabi del Golfo, in particolare l’Arabia Saudita e il Qatar. E anche i sunniti libanesi vogliono che il presidente sciita al-Assad se ne vada. Per loro, oggi la Siria è un ponte tra l’Iran, gli Hezbollah sciiti in Libano e Hamas nella Striscia di Gaza.

 

Dopo la guerra contro l’Iraq, la Lega araba è nelle mani dei governanti feudali dell’Arabia Saudita e degli Stati del Golfo. In effetti, la Lega è più un’estensione della politica estera degli Stati Uniti che una Lega a difesa degli interessi del mondo arabo. Dopo la guerra in Iraq, tutti i governi progressisti sono stati emarginati. Nel 2006, la Lega araba era già a fianco di Israele, quando l’esercito israeliano invase il Libano: la Lega Araba, all’epoca, condannò Hezbollah, pretendendo che provocasse Israele. Per gli Stati Uniti, Israele e i regimi reazionari arabi, la sconfitta di Israele in Libano è stato uno shock enorme. L’esercito israeliano, che si sentiva invincibile, dovette cedere a Hezbollah!

 

Durante la guerra in Libia, anche la Lega Araba e gli Stati del Golfo hanno svolto un ruolo importante.

 

Mohamed Hassan. E’ un dato di fatto. Da quel momento siamo consapevoli di vivere un’epoca in cui le cose possono andare molto più velocemente di quanto pensiamo. Ma la questione della Siria è ancora più complicata di quella della Libia. Nessuno può prevedere come cambierà la situazione in Siria e nella regione.

 

Per gli Stati Uniti e gli Stati del Golfo, la principale minaccia in Medio Oriente è la crescente influenza dell’Iran. L’occupazione dell’Iraq è finita in un fiasco e l’influenza dell’Iran in Iraq non è mai stata così grande. Dopo la Cina, l’Iraq è il principale partner commerciale dell’Iran.

 

L’Iran è una grande potenza regionale in grado di far arretrare l’influenza degli Stati Uniti?


Mohamed Hassan. Effettivamente. In compagnia di cinque altri importanti fornitori di gas della regione – Russia, Cina, Turkmenistan, Uzbekistan e Kazakistan – l’Iran vuole formare una sorta di OPEC (Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio, ndr) dei paesi produttori di gas, in modo che possano ottenere prezzi più alti. Vi è una crescente collaborazione, per la fornitura di gas tra Iran e paesi come l’India e il Pakistan: un “gasdotto della pace” è in costruzione e ci sono grandi progetti in corso per la costruzione di una raffineria di gas in Iran, insieme con l’India. Le tensioni tra India e il Pakistan diminuiscono nella misura in cui entrambi i paesi accrescono i loro interessi economici comuni.

 

Una parte rilevante del Grande Medio Oriente rischia di sfuggire all’influenza degli Stati Uniti. Dal Pakistan passando dall’Iran e l’Iraq fino alla Siria e al Mediterraneo. Questo scenario è un incubo per gli americani, per Israele e per i regimi arabi feudali e reazionari. Un cambio di regime in Siria è per tutte queste forze di cruciale importanza al fine di contrastare la crescente influenza dell’Iran.

 

Come vede il ruolo della Turchia, che è sempre più coinvolta?


Mohamed Hassan. Anche la Turchia anela a diventare una grande potenza regionale, relativamente indipendente. Il Primo ministro Erdogan usa toni molto duri con Israele, tanto che la Turchia è diventata molto popolare nel mondo arabo. E la Turchia è proiettata come un paese che intende controllare l’industria del gas nel Mar Egeo, a scapito della Grecia e della Siria. Anche nei Balcani, la Turchia sta guadagnando influenza: gli scambi con paesi come la Romania, Bulgaria, Macedonia e Albania sono in crescita.

 

La Turchia ha tutto l’interesse di intrattenere rapporti di buon vicinato con l’Iran e la Siria e, fino a poco tempo fa, le relazioni tra Turchia e Siria erano molto buone. Peraltro, essa preferisce un nuovo governo sunnita al potere a Damasco. Scenario che sarebbe possibile nel caso della caduta del governo siriano. In questo caso si avrebbe una situazione simile a quella dell’ex Impero Ottomano, quando la Turchia controllava la Siria con l’aiuto della nobiltà feudale sunnita.

 

La caduta del presidente siriano Assad significherebbe allo stesso tempo un indebolimento dell’Iran, il principale rivale della Turchia in Asia centrale. In paesi come il Turkmenistan, l’Uzbekistan e il Kazakistan, la lingua corrente è effettivamente apparentata col turco.

 

Infine, vi è un legame crescente con paesi come l’Arabia Saudita, dove le aereolinee turche hanno quintuplicato gli affari negli ultimi anni e per contro, gli investimenti in Turchia non cessano di aumentare. Una collaborazione per abbattere Assad potrebbe migliorare ulteriormente la buona intesa con l’Arabia Saudita e rafforzare la Turchia stessa. Questi sono tutti motivi per cui la Turchia sostiene un cambio di regime in Siria. Ma tuttavia Ankara sta giocando con il fuoco, in una regione così instabile, con numerosi attori e interessi differenti.

 

La Turchia è un membro della NATO. Non è, in questo caso, uno stato vassallo degli Stati Uniti?

 

Mohamed Hassan. Sul piano militare, la Turchia collabora efficacemente con gli Stati Uniti: ma questo non ne fa uno stato vassallo. I turchi vedono la cosa come di reciproco vantaggio. Così, la Turchia ha accettato di ospitare le installazioni radar dello scudo missilistico americano in cambio di un accesso ai droni (velivoli senza pilota, ndr) tecnologia statunitense che contano di utilizzare nella lotta contro il PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan, ndr). Per quanto riguarda l’Europa la Turchia ha una strategia intelligente: vuole aderire all’Unione europea, ma non alla zona euro. Potrebbe così mantenere un vantaggio nelle esportazioni, con la sua moneta debole contro un euro più forte, come la Polonia.

 

Qual è la strategia degli Stati Uniti nella regione?

 

Mohamed Hassan. Gli Stati Uniti sono immersi in una profonda crisi economica e politica, espressione, come in Europa, della crisi generale del capitalismo. Obama vuole risparmiare sulle numerose e costose basi sparse per il mondo. Attribuisce grande importanza alla combinazione di forze speciali e droni, particolarmente utili per interventi militari puntuali. Allo stesso tempo, cerca di passare, più che può, l’intervento militare agli alleati e ai subappaltatori locali, come il Qatar.

 

Il Segretario Generale della NATO, Rasmussen e il ministro americano della Difesa, Panetta, hanno tratto la stessa lezione dalla guerra contro la Libia. L’intervento americano in Libia è stato decisivo quando l’Europa ha affrontato essa stessa la guerra, poiché nel suo cortile! La lezione è che gli Stati europei membri della NATO devono urgentemente investire nell’artiglieria pesante. Ma in questo periodo di economie, non è cosa facile da sostenere.

 

Per gli Stati Uniti, la Cina è il principale rivale nel mondo. Washington si rende conto che non potrà mai vincere la battaglia economica contro la Cina, e certamente non in un contesto di pace. Così la strategia degli Stati Uniti è concentrata sul blocco della crescente influenza economica della Cina. Se gli Stati Uniti non riescono a tenere bene in mano la situazione, creano il caos in modo da sprofondare l’avversario in difficoltà. Hanno appena insediato un regime reazionario in Libia. In Pakistan, sostengono il Baluchistan e la sua lotta per l’indipendenza, e lavorano contro il gasdotto previsto tra il porto di Gwadar e la Cina. Spingono il governo e l’esercito pakistano a fare la guerra contro il proprio popolo con il pretesto di lottare contro i talebani afghani. Il caos che hanno generato in Somalia si è diffuso in tutto il Corno d’Africa. E dal Sud-Sudan, che hanno appena diviso, gli americani vogliono importare petrolio attraverso un oleodotto diretto in Kenya senza passare dal Nord-Sudan.

 

Infine, c’è il fattore della primavera araba.

 

Mohamed Hassan. Le rivolte popolari in Tunisia ed Egitto, hanno disturbato l’imperialismo, che di recente è tornato a segnare dei punti. Queste “rivoluzioni” non hanno ancora cambiato nulla di fondamentale. Va ricordato che un paese come l’Egitto ha vissuto 40 anni di smantellamento economico. Questo paese aveva bisogno di una rivoluzione! Ma non si è trattato che di una scintilla, i problemi continueranno nel paese e non vi saranno mutamenti sostanziali.

 

E’ possibile tenere le elezioni e allo stesso tempo cercare di mantenere una dittatura militare e, infine, la popolazione non ha altra scelta che ribellarsi fino a quando non si affermerà un sistema politico che risponda ai suoi interessi. Comunque abbiamo ottenuto qualcosa. L’Egitto di Mubarak aveva perso ogni sovranità: era soggetto ad Israele, non controllava realmente il Canale di Suez e inviava medici militari in Afghanistan. Il fatto che gli egiziani abbiano preso d’assalto l’ambasciata israeliana sarebbe stato impensabile fino a un anno fa. Questo è accaduto un paio di settimane fa. Oggi, Il Cairo rifiuta ancora di forniture gas a Israele al di sotto del prezzo di mercato, come in passato, e ha consentito a una nave da guerra iraniana di navigare nel Canale di Suez …