I diritti umani prima del Trattato

di Angelo Del Boca | da il Manifesto

 

monti jalil_tripoli-w300Con il viaggio di oggi, 21 gennaio 2012, del presidente del Consiglio Mario Monti a Tripoli, si riattiva il trattato di amicizia e cooperazione firmato a Bengasi nel 2008 da Berlusconi e Gheddafi. In tre anni la situazione è completamente cambiata: Berlusconi è stato costretto a dimettersi, il colonnello Gheddafi è stato linciato e barbaramente assassinato perché non parlasse.

Nel ripristinare il trattato di amicizia è necessario che si prenda atto della nuova situazione. In Italia c’è un governo nuovo, serio, capace, diretto da Mario Monti. In Libia, alla dittatura di Gheddafi è subentrato un governo provvisorio gestito da Mustafa Abdel Jalil, che ha promesso elezioni democratiche entro pochi mesi.

Ai libici interessa il Trattato non fosse altro che per la cifra veramente consistente del risarcimento: 5 miliardi di dollari. Per gli italiani, di rimando, il Trattato è importante poiché chiude una vertenza quasi secolare sul passato coloniale e in cambio conta di ottenere più petrolio e metano e meno immigrati clandestini. Tutto, però, non fila liscio. Come c’era da attendersi, i libici chiedono di rivedere il Trattato, non fosse altro perché quello di Bengasi porta la firma di Gheddafi. Ma anche l’Italia di Monti ha tutto il diritto di rivedere il Trattato del 2008, di apportarvi delle modifiche, soprattutto in quella misera parte politica del documento nella quale si ignora del tutto il rispetto dei diritti umani. È su questo punto invece che si deve basare la nuova cooperazione, perché ci sono dei segnali a Tripoli per nulla positivi. A cominciare dalla dichiarazione dello stesso capo del Cnt, Abdel Jalil, che la nuova Libia «adotterà la sharia come legge essenziale». E per gli strepitosi onori tributati il 7 gennaio 2012 a Tripoli al presidente sudanese Omar Al Bashir, ricercato dalla corte penale internazionale dell’Aia per «genocidio» e «crimini contro l’umanità», crimini nettamente più gravi di quelli attribuiti a Gheddafi. E infine, secondo un rapporto dell’Onu, abusi e torture sono praticate ancora oggi sui 7.000 seguaci dell’ex rais, o presunti tali, che si ammassano nelle prigioni.

Purtroppo anche l’Italia ha preso parte a quella guerra illegale, ingiustamente definita unified protector (protettore unificato) dopo aver causato 35 miliardi di danni, anche l’Italia viene ora chiamata a ricostruire il paese. Noi vogliamo sperare che il presidente del consiglio Monti, che sa il valore e il peso delle parole, non citi le 1.182 missioni sul territorio libico compiute dall’aeronautica italiana e le 1.921 ore eseguite dai trenta elicotteri della marina. È stato commesso un grandissimo errore, cerchiamo almeno di non esserne fieri.

Va anche detto che la situazione in Libia è tutto meno che normale. Ancora pochi giorni fa ci sono stati scontri a Tripoli tra miliziani delle katibas e truppe governative con sei morti e diciotto feriti. Ci sono ancora in armi 50mila miliziani che si rifiutano di consegnare il loro armamento, leggero e pesante, e lo stesso Jalil ha confessato che non è ancora scongiurata l’ipotesi di una guerra civile. Un altro segnale poco rassicurante è quello fornito dal governatore della banca centrale libica, Saddeq Omar Elkaber. Ieri ha comunicato all’Unicredit che ridurrà il suo contributo dal 4,9% al 2,8%. Anche il fondo sovrano Lia diminuirà il suo apporto dal 2,7% all’1,5%.

Vorremmo inoltre ricordare a Mario Monti il «silenzio assordante» della Francia dinanzi alla visita a Tripoli di Omar Al Bashir. Le Monde ha scritto che per queste incoerenze la Francia presta il fianco alle accuse di praticare due pesi e due misure. Quello che è certo è che la Francia non ha scatenato la guerra in Libia soltanto perché le stava antipatico il colonnello. Abbiamo il sospetto che la lista delle pretese del presidente Sarkozy sia molto lunga e verrà presentata a giorni, ora che la campagna elettorale per le presidenziali si sta facendo più intensa e brutale.

 

Angelo Del Boca – il manifesto