riceviamo e volentieri pubblichiamo
Intervista a Daniele Perra
di Enrico Sanna
da https://mysterionweb.wordpress.com
Il peggioramento della situazione in Medio Oriente dopo la morte del generale iraniano Soleimanì e in seguito alla presentazione a Washington del “Deal of Century” da parte di Trump e Netanyahu, impone di parlare ancora di quanto sta accadendo nella regione. Lungi da voler abbandonare la scena gli Stati Uniti continuano a voler essere protagonisti in un scenario reso complicato dalla presenza di diversi e importanti attori, tra i quali, Ankara, che, a mio avviso, sembra fungere sempre più da ago della bilancia soprattutto in Siria. Oggi pertanto Mysterion vi offre un’interessante analisi del quadro e dell’eventuale sviluppo dello scacchiere mediorientale, che ci ha gentilmente fornito Daniele Perra, esperto di geopolitica e relazioni internazionali, che scrive per importanti testate online tra cui “Eurasia”. Ringrazio Daniele per la collaborazione. Buona lettura.
Il 2020 si è aperto con due importantissimi eventi che hanno scosso lo scenario mondiale: l’uccisione del generale Soleimanì, e l’annuncio da parte di Tel Aviv e di Washington del “Deal of Century” o “Piano del Secolo”, il quale viene presentato dalle amministrazioni di USA e Israele come la soluzione definitiva del conflitto Israelo-Palestinese. Che cosa sta succedendo in Medio Oriente? Si sta andando verso la Guerra contro l’Iran? Esiste un legame che colleghi i due eventi?
Esiste indubbiamente un legame tra i due eventi. È noto che Qassem Soleimani stesse lavorando sotto traccia per stabilire una mediazione tra Iran e le monarchie del Golfo quantomeno per arrivare ad un “patto di non aggressione” tra i Paesi della regione. Una soluzione che era stata suggerita, a suo tempo, anche dal Ministro degli Esteri russo Lavrov. Eliminando Soleimani, gli Stati Uniti hanno eliminato l’unico personaggio realmente capace di portare a compimento tale missione. Il Primo Ministro iracheno, a questo proposito, ha confermato che Soleimani si trovasse a Baghdad in “veste diplomatica”. Questa soluzione era naturalmente sgradita agli USA in quanto avrebbe ridotto la pressione su Teheran e rovinato quello che è l’obiettivo fondamentale del cosiddetto “accordo del secolo”: aprire ad un riconoscimento “ufficiale” (visto che la collaborazione attraverso altri canali è già avanzata) di Israele da parte di Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti in particolar modo. Ciò garantirebbe di acuire ulteriormente la pressione sull’Iran e di stabilire un fortissimo contrappeso alla possibilità del rafforzamento di un asse Iran-Iraq-Siria-Libano. Personalmente non ritengo perseguibile una “via militare” nei confronti di Teheran. Gli Stati Uniti non stanno cercando lo scontro diretto. In primo luogo perché non possono permetterselo (in 19 anni non sono riusciti ad ottenere nulla in Afghanistan, non oso immaginare quale possa essere l’esito di una “invasione” dell’Iran). Questo, infatti, comporterebbe il dispiegamento di un enorme contingente militare nella regione, grosse perdite ed una potenziale crisi globale determinata dalla possibilità della chiusura dello Stretto di Hormuz e dall’eventuale distruzione di numerose infrastrutture petrolifere. In secondo luogo, perché con l’assassinio di Soleimani hanno già ottenuto quanto volevano: l’interruzione della suddetta “trattativa”. Il fatto che l’amministrazione Trump abbia ripetutamente mentito sulla presenza di feriti tra i militari statunitensi a seguito degli attacchi missilistici iraniani contro la base aerea di Ayn al-Asad in Iraq ne è la più evidente dimostrazione. Riconoscere (da subito) la presenza di feriti (o di decessi, che probabilmente ci sono stati) avrebbe inevitabilmente comportato la necessità di una nuova azione militare.
Il regime sanzionatorio contro l’Iran sta davvero isolando il Paese, in particolare da partner come la Cina (la quale sta investendo nel Paese degli Ayatollah per via della sua posizione strategica nel progetto della Nuova Via della Seta) oppure no? Se si sino a che punto? C’è il rischio di un cambio di regime?
Sicuramente il regime sanzionatorio ha provocato gravi danni all’economia iraniana. A questo proposito è bene ricordare che i blocchi commerciali e le “sanzioni”, sin dalle Guerre del Peloponneso, vengono considerate alla stregua di conflitti a tutti gli effetti. Quindi, potremmo tranquillamente affermare che una guerra contro l’Iran è già in corso. Al momento, il principale risultato ottenuto da Washington è stato quello di minare i rapporti commerciali (ben avviati) tra Unione Europea ed Iran e tra Iran ed India (uno dei principali importatori di greggio iraniano). La posizione dell’India è interessante visto che esistono delle particolari affinità ideologiche (poco analizzate) tra la “destra” sionista, attualmente al potere in Israele, ed il Bharatiya Janata Party di Narendra Modi. Questo sta portando al progressivo abbandono da parte dell’India del progetto North South Transport Corridor (che dovrebbe collegare l’India alla Russia attraverso l’Iran e l’Azerbaigian e garantire un’alternativa più rapida al Canale di Suez) in favore del progetto infrastrutturale israeliano noto come Trans-Arabian Corridor che, attraverso la Pensiola Arabica (altro motivo dietro al fantomatico “accordo del secolo”), dovrebbe spalancare a Tel Aviv le porte dell’Oceano Indiano. Allo stesso tempo, l’Iran può ancora godere dell’appoggio di Russia e Cina (anche se certa propaganda cerca di minare tali rapporti), ben consapevoli che, spesso e volentieri, le sanzioni nordamericane sono indirettamente rivolte anche contro di loro. L’aggressione all’Iran, di fatto, è un attacco al cuore pulsante dell’Eurasia. Attacando l’Iran (posizionato all’incrocio delle direttrici Nord-Sud ed Est-Ovest dello spazio eurasiatico), Washington attacca l’intero progetto di integrazione di questo vasto continente percepito alla stregua di minaccia esistenziale dagli strateghi del Pentagono (Nicholas Spykman docet). Il rischio di cambio di regime rimane. È un progetto che Washington difficilmente abbandonerà e che ritenterà periodicamente attraverso l’utilizzo della cospicua “quinta colonna” interna all’Iran. Tuttavia, la Repubblica islamica, nel corso dei suoi oltre 40 anni di esistenza, ha prodotto degli efficaci anticorpi contro quella che Jalal Al-e-Ahmad chiamava gharbzadegi (intossicazione da Occidente).
Qual è il ruolo giocato da Erdogan in Medio Oriente e da che parte sta, visto che sembra giocare su fronti contrapposti? (Chiusura del Mar Nero a navi Nato, sostegno economico e politico all’Ucraina, appoggio ad Al Serraj, ecc.). È possibile che il doppio gioco sia finto e voluto dagli USA?
Il ruolo di Erdogan è estremamente ambiguo. Il Presidente siriano Bashar al-Asad lo ha definito come “colui che ha avuto maggiore successo nell’essere una pedina nelle mani del suo padrone americano”. Di fatto, a prescindere dalla retorica ufficiale concetratasi esclusivamente sulla questione curda (e sul presunto tradimento della loro causa da parte di Washington), l’azione turca in Siria, prolungando ad oltranza la guerra e la destabilizzazione del Paese levantino, è stata da subito percepita con estremo favore dal Pentagono. Basti pensare che la Turchia, in Siria, continua ad agire sotto l’ombrello della NATO che garantisce la difesa del suo spazio aereo attraverso il dispiegamento di diverse batterie missilistiche Patriot lungo i suoi confini. E, nonostante Ankara e Tel Aviv vengano percepite come in aperto contrasto, è quasi sorprendente come ad ogni avanzata siriana sul fronte di Idlib faccia da contrappeso un nuovo attacco aereo israeliano in Siria. Non scopriamo di certo oggi il sostegno che l’Occidente e la Turchia hanno fornito ai gruppi terroristici che si oppongono al legittimo governo di Damasco. Meno chiaro è il rapporto che Ankara intrattiene con la Russia. In questo caso, ad una saldatura commerciale sempre più evidente ed avanzata (ad esempio, lo sviluppo del progetto TurkStream nato in sostituzione del SouthStream apertamente boicottato dagli Stati Uniti) fa da contraltare l’opposizione tra i due Paesi in diversi teatri di conflitto: dalla Siria all’Ucraina, fino alla Libia (sebbene il caso libico meriti alcune precisazioni). E non è da escludere che, oltre alle pretese sub-imperialiste di Erdogan, attori terzi “giochino” ad esarcerbare gli animi in questi diversi “teatri” per fare in modo che pure la suddetta saldatura si spezzi rapidamente. Ora, gli accordi presi a Sochi tra Erdogan e Putin prevedevano il disarmo dei gruppi terroristici attivi nella regione di Idlib. La Turchia, non solo non ha ottemperato ai doveri previsti dall’accordo, ma ha proseguito nel rifornimento ai miliziani gihadisti (che proprio in queste ore stanno ripetutamente prendendo di mira i militari russi in Siria) e continua a considerare l’area alla stregua di parte integrante del territorio turco. Ad Idlib sventolano le bandiere turche e le strade sono “decorate” dai ritratti di Erdogan. In pratica, Erdogan chiede ai Siriani di ritirarsi dalla Siria. Lo scenario libico è ben più complesso. L’accordo tra Turchia ed il GAN – Governo di Accordo Nazionale di Tripoli sulla delimitazione dei confini marittimi, tagliando in due il Mediterraneo orientale, di fatto, nel breve periodo fa un favore indiretto alla Russia mettendo in quarantena il progetto israelo-greco-cipriota (con supporto nordamericano) del gasdotto EastMed, studiato per sganciare l’Europa dalla dipendenza energetica dalla Russia. Tuttavia, allo stesso tempo, la nuova infiltrazione gihadista in Libia sostenuta da Ankara mette in crisi il progetto di costruzione di un “trinagolo russo” nel Mediterraneo orientale (comprendente teoricamente Libia, Egitto e Siria) volto a mettere in crisi l’egemonia dell’asse Washington-Riad-Tel Aviv e, in particolar modo, lo strapotere del duopolio Washington-Riad sul mercato petrolifero. Dunque, se è vero che Ankara sta cercando una qualche autonomia all’interno dell’Alleanza Atlantica; è altrettanto vero che il più delle volte le sue azioni finiscono per favorire proprio la strategia della NATO. Lo stesso trasferimento di miliziani e mercenari dalla Siria alla Libia ha un enorme potenziale di destabilizzazione per i Paesi confinanti e, soprattutto, per l’area del Sahel: altra regione geografica in cui Francia e USA stanno cercando di limitare la penetrazione sino-russa.
La guerra in Siria è davvero finita?
La guerra in Siria non è affatto finita. Come ho avuto modo di sottolineare in alcuni articoli pubblicati dalla rivista di studi geopolitici “Eurasia”, l’operazione “Sorgente di Pace” (la terza operazione militare turca all’interno dei confini siriani dall’inizio del conflitto) ha più o meno indirettamente prodotto anche una nuova insorgenza dello Stato Islamico nelle regioni di confine tra Iraq e Siria e nella provincia di Deir Ezzour. Questo, inoltre, è un altro prodotto dell’assassinio di Qassem Soleimani che della lotta al gruppo terroristico fece la sua ragione di vita negli ultimi anni. E non sorprende che tale insorgenza sia avvenuta nel momento in cui il Parlamento iracheno ha richiesto alle truppe occupanti nordamericane di lasciare il proprio territorio. Non dobbiamo dimenticare anche il fatto che gli USA, nonostante le propagandistiche dichiarazioni di ritiro, continuano ad occupare illegalmente il Nord-Est della Siria perpetrando un vero e proprio saccheggio delle risorse petrolifere del Paese levantino. Tale occupazione, oltre al pesante regime sanzionatorio imposto a Damasco, è la garanzia che non vi possa essere in alcun modo una ripresa economica tale da consentire alla Siria un nuovo ed eccessivo rafforzamento. Tra l’altro, a partire dal 2023, la Siria (con ampia partecipazione russa) dovrebbe iniziare ad estrarre gas dai giacimenti lungo le sue coste. E non escludo affatto che vi possa essere un nuovo intervento turco per impedire che ciò avvenga.
Sembra esistere un focolaio strategico a muro, divisorio fra Europa e Russia, il quale forma una fascia geografica che parte dalle repubbliche baltiche, attraversa Ucraina, Balcani, e arriva fino al Caucaso, alla Turchia e al Medio Oriente. In queste regioni inoltre si trovano importanti basi militari controllate dagli USA che accerchiano la Russia. Che cosa motiva il fermento crescente in queste regioni?
Il geopolitologo tedesco Karl Haushofer era convinto del fatto che una condivisione di intenti e di confini tra Germania e Russia (potenze prettamente “tellurocratiche”) avrebbe inevitabilmente prodotto la crisi del sistema “talassocratico” imposto, a suo tempo, dalla Gran Bretagna. Con la fine della Seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti hanno rapidamente sostituito il Regno Unito nel suo ruolo di potenza marittima. E, alla pari dei britannici, anche dopo il crollo dell’URSS, hanno continuato a ritenere la suddetta possibilità come una minaccia alla loro egemonia sul continente europeo. In questo senso deve essere letta la rapida espansione della NATO nell’Europa orientale a seguito dell’implosione del blocco socialista e la transizione violenta dal socialismo al capitalismo in Paesi come Romania e Jugoslavia. La Romania, ad esempio, situata lungo la diagonale di navigazione interna più importante dell’Europa (il fiume Danubio), insieme alla Bulgaria, nei piani della NATO doveva necessariamente svolgere il ruolo di garante del corridoio terrestre tra i nuovi ingressi settentrionali e mitteleuropei dell’alleanza atlantica (Paesi baltici, Polonia, Slovacchia, Ungheria) ed il suo membro più orientale: la Turchia. In poche parole si è cercato di creare un vero e proprio “cordone sanitario” attorno alla Russia recentemente rinvigorito dall’iniziativa “Tre Mari”. Questa, studiata dall’amministrazione Obama ma portata a compimento sotto Trump, unisce dodici paesi (Estonia, Lituania, Lettonia, Polonia, Slovacchia, Repubblica Ceca, Ungheria, Austria, Slovenia, Croazia, Romania e Bulgaria) lungo l’asse verticale che dal Mar Baltico arriva fino al Mar Nero ed al Mar Adriatico. L’obiettivo di tale iniziativa, neanche a dirlo, è la riduzione delle esportazioni gassifere della Russia verso l’Europa e la costruzione di terminali per lo stoccaggio e la distribuzione del gas liquefatto proveniente dagli USA. Dunque, potremmo tranquillamente affermare che il fermento in queste regioni sia determinato dalla volontà di impedire un legame commerciale sempre più stretto tra Russia ed Europa e, di conseguenza, ogni potenziale sviluppo di una Europa unita fino a Vladivostok. Lo stesso discorso può valere per il Medio Oriente. L’unica strategia che può consentire agli Stati Uniti di mantenere intatta la sua “sovraestensione imperiale” ed una qualche egemonia globale (anche in un contesto multipolare) è il sempre valido divide et impera.
A me pare che, per capire lo scenario geopolitico, non si possa prescindere da Israele, al vertice fra le Potenze dell’Occidente a mio avviso. Sembra che i rapporti fra Israele e Russia siano ottimi eppure Washington sta combattendo contro Mosca. Come si spiega questa contraddizione? Israele e Usa: chi comanda chi?
Senza la piena sovranità sul proprio mare interno (il Mediterraneo), l’Europa mai potrà ambire ad una qualsiasi forma di reale e completa sovranità. In questo senso, Israele, avamposto dell’“Occidente” nel Vicino Oriente, rappresenta la ragione “geopolitica” della presenza in pianta stabile nel Mediterraneo della VI Flotta nordamericana. Israele, dunque, è il principale ostacolo ad una reale sovranità del continente europeo sul suo spazio marittimo interno. Per ciò che concerne il rapporto russo-israeliano, lo studioso Youssef Hindi ha fatto notare come Tel Aviv da un lato cerchi di mantenere ottimi rapporti diplomatici con Mosca e, dall’altro, muova costantemente guerra a tutti i suoi alleati regionali. Anche in questo caso si può parlare di una sostanziale ambiguità tra le parti. È bene premettere che Mosca, sin dall’era sovietica, dopo gli errori di calcolo stalianiani che portarono all’erroneo aiuto alla causa sionista in chiave anti-britannica, non si è mai sbilanciata sulla possibilità di una liberazione della Palestina. Oggi, la posizione ufficiale della Russia rimane quella dell’URSS: ovvero, la creazione di due Stati lungo i confini antecendenti al conflitto del 1967. Tuttavia, c’è una sostanziale differenza rispetto al passato. Con il crollo dell’Unione Sovietica, l’immigrazione di ebrei russi verso lo “Stato ebraico” (ancora una volta ampiamente finanziata dagli USA ed ancora oggi in atto) ne ha modificato radicalmente la costituzione etnica. Israele, attualmente, è un Paese in buona parte russofono. Questo consente al Cremlino di pensare che, nel lungo periodo, attraverso un’abile azione di penetrazione diplomatico-commerciale, possa riuscire ad erodere il legame tra Washington e Tel Aviv portando Israele dalla sua parte. Ciò comporterebbe per la Russia nuove possibilità di azione in uno spazio mediterraneo in cui la presenza nordamericana verrebbe percepita come non più necessaria. Inutile dire che un simile progetto è attuabile solo in tempi estremamente lunghi e che la potente lobby sionista nelle istituzioni statunitensi difficilmente consentirà un simile cambio di registro.
Come stanno reagendo Pechino e Mosca di fronte alle tensioni crescenti?
Ciò che Russia e Cina possono fare (e che in effetti stanno già facendo) è proseguire nel processo di integrazione dello spazio eurasiatico. Tale processo, tuttavia, deve compiersi su due livelli: uno economico-commerciale fondato sulla de-dollarizzazione negli scambi bilaterali e sulla cooperazione energetica; e l’altro, più politico, fondato sulla cooperazione anche in ambito militare e sui temi della sicurezza per evitare, ad esempio, i rischi di nuova destabilizzazione e “balcanizzazione” delle aree di passaggio della “Nuova Via della Seta”. In altre parole, ancora una volta, debbono cercare di erodere progressivamente gli spazi di azione per le potenze estranee al continente eurasiatico anche in termini di guerra asimettrica o di rischio di nuove “rivoluzioni colorate”. Posso concludere sbilanciandomi con una previsione: la tregua commerciale tra USA e Cina non durerà che un istante.
Daniele Perra a partire dal 2017 collabora attivamente con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e con il relativo sito informatico. Le sue analisi sono incentrate principalmente sul rapporto che intercorre tra geopolitica, filosofia e storia delle religioni. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha conseguito nel 2015 il Diploma di Master in Middle Eastern Studies presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2018 il suo saggio “Sulla necessità dell’Impero come entità geopolitica unitaria per l’Eurasia” è stato inserito nel vol. VI dei “Quaderni della Sapienza” pubblicati da Irfan Edizioni. Collabora assiduamente con numerosi siti informatici italiani ed esteri ed ha rilasciato diverse interviste all’emittente iraniana Radio Irib. È autore del libro “Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione”, Prefazione di C. Mutti (NovaEuropa 2019).