La storia di Ahmad, 25 anni, prigioniero palestinese liberato nella seconda fase dello scambio tra Israele e Hamas, lo scorso 18 dicembre. Nel suo racconto all’AIC, le torture e le vessazioni subite in cinque anni di prigionia.
A Dheisheh l’attesa è grande. In Shara Al Quds-Al Khalil, la strada che passa ai piedi del campo profughi e lo collega a Betlemme, ci sono decine di persone radunate, familiari e amici dei detenuti che saranno liberati dalle carceri di Israele in seguito alla seconda fase dello scambio di prigionieri.
Ormai è notte fonda, qualcuno cerca di scaldarsi intorno ad un falò improvvisato, regna una strana miscela di stanchezza e gioia ancora incredula. Dopo molte ore, un improvviso e insistente coro di clacson riaccende l’eccitazione dei presenti, sono tante le automobili e le bandiere che occupano la strada, la gioia è palpabile, dappertutto si vedono abbracci grida risate e pianti. Vista la tarda ora, i festeggiamenti dei dodici ragazzi del campo che hanno riottenuto la libertà vengono rimandati al giorno successivo.
Ahmad, 25 anni, gli ultimi 5 passati in prigioni israeliane, è uno di questi. La facciata di casa sua è interamente ricoperta da un’enorme bandiera palestinese e le visite di parenti e amici nel suo salotto si susseguono ininterrotte. E’ stanco, ma il volto magro è illuminato da un sorriso che non riesce a nascondere meraviglia per la libertà inaspettata: gli è stato comunicato di essere uno dei 550 che sarebbero stati rilasciati solo quattro giorni prima del 18 dicembre, la data prestabilita dall’accordo tra Hamas e il governo israeliano.
“I had a dream”, così inizia il suo racconto: sognava la libertà dall’occupazione, perché “dove c’è occupazione non ci può essere pace, e senza pace non vedo futuro. Invece io voglio poter guardare il sorriso sul viso di mia madre, dei miei fratelli e sorelle”, spiega Ahmad all’Alternative Information Center. La scelta della militanza giunse dopo l’uccisione di un caro amico da parte dell’esercito di occupazione, nel pieno della seconda Intifada, inevitabilmente nata, spiega, dal diritto al ritorno disatteso ancora oggi. Ricercato prima ancora che raggiungesse la maggiore età, è stato arrestato ad un checkpoint mentre andava a Gerico per assistere ad una partita di calcio.
E stato in quel momento che è iniziata la sua personale Odissea. Dopo l’interrogatorio e il lungo processo, intervallato dalle violenze subite in cella e conclusosi con una condanna a sette anni e mezzo, è stato spostato in numerose carceri.
Molte anche le sue permanenze in ospedali militari, fino a due mesi di degenza, conseguenza delle dure condizioni di vita e delle violenze subite : “Si pensa che i medici, ovunque nel mondo, siano mossi da una missione universale, a prescindere che si trovino a dover curare un amico o un nemico. Quelli ai quali mi hanno affidato erano invece veri e propri dottori-soldati, addirittura mi facevano male di proposito quando dovevo cambiare la flebo”.
Se persino in ospedale non poteva dirsi al sicuro dalla brutalità costante alla quale erano e sono sottoposti tutti i prigionieri, in carcere ha potuto contare sulla solidarietà dei compagni, che gli hanno fornito coperte e indumenti: arrestato in estate, con l’avvento dell’inverno ha dovuto fronteggiare una situazione molto difficile, anche a causa del divieto imposto ai familiari di inviare qualsiasi cosa che non fossero soldi, affidando le spese al personale carcerario ma a prezzi molto più elevati.
Ahmad, novello Davide di biblica memoria, ricorda in particolare un episodio: uno dei detenuti, redarguito da un secondino che gli aveva ordinato di non fumare, aveva risposto invece di obbedire, e per questo era stato picchiato. Era quindi cominciata una rivolta, che i soldati avevano cercato di sedare con la forza, sparando lacrimogeni e proiettili di gomma. Ahmad, sperando di sviare l’attenzione dei militari così da porre fine alle violenze, diede fuoco alla tenda dove dormiva: riuscì in parte nell’intento, ma per punizione fu ammanettato e trasferito in un’altra prigione, dove venne picchiato ripetutamente.
In cinque anni di detenzione, Ahmad ha potuto ricevere solo una visita all’anno, e solo dalla madre. Si commuove al pensiero dei fratelli, così cresciuti che nel primo incontro dalla liberazione non è stato in grado di riconoscerli. Per mantenere i contatti con l’esterno era riuscito a nascondere un cellulare, con il quale riusciva, di tanto in tanto, a comunicare con i familiari; è stato così che ha potuto dire alla madre di essere nella lista di coloro che sarebbero stati scarcerati. Eppure, se le violenze fisiche erano finite, non è stato lo stesso per quelle psicologiche. Infatti, il giorno del rilascio, con i fratelli che attendevano trepidanti a Ramallah, c’è stato un rinvio continuo del momento tanto atteso: dalle 4 di pomeriggio si è passati alle 6, poi è stato annunciato a tutti che c’era stato un errore e non ci sarebbe stata alcuna liberazione. Liberazione riconfermata dopo due ore di rabbia e disperazione, ma i prigionieri hanno potuto riabbracciare i loro cari solo intorno a mezzanotte.
Mustafa, il fratello diciassettenne di Ahmad, non riesce a trattenere l’entusiasmo, eppure un velo di amarezza gli offusca il viso: “Mio fratello è libero, ed è meraviglioso, ma è finito in una prigione più grande”. Secondo l’organizzazione per i diritti dei detenuti Ansar al-Asra, infatti, sono 870 i detenuti arrestati nell’ultimo trimestre del 2011, dei quali 90 minori di 18 anni, e molti vengono proprio da Dheisheh.
In questo modo, il numero dei liberati verrà presto pareggiato dai nuovi prigionieri, e i Territori Palestinesi assumono sempre di più il profilo grottesco di un’enorme sala d’attesa per la prigione. Inoltre, su Ahmad pende già un’altra condanna: non gli è permesso di uscire da Betlemme, e non gli è stato riferito fino a quando sarà costretto alla reclusione in casa sua. Nonostante tutto, non si fa prendere dallo sconforto: “Voglio ricominciare a studiare, e mi piacerebbe anche poter viaggiare, un giorno. Ma soprattutto, voglio vedere i miei futuri figli senza che la paura contragga i loro volti”.