di Francesco Galofaro, Università di Torino
Di recente il People’s Daily, organo del Partito comunista cinese, ha inaugurato una versione italiana online. Si rivela molto interessante il confronto tra il punto di vista cinese e quello costruito dai media italiani sulle relazioni, profonde e importanti, tra i nostri due Paesi. Nella sezione video, infatti, troviamo un documentario in cinque parti sulla regione autonoma dello Xinjiang nordoccidentale, dove vivono gli Uiguri. In questi miei appunti, presi durante la visione e risistemati alla meglio, vorrei ricostruire il punto di vista Cinese sulla questione, per come emerge dal documentario. Il lettore mi perdonerà una certa rapsodicità: il fatto è che, accostando questo punto di vista agli avvenimenti recenti in Afghanistan, si apre uno spazio per interrogativi importanti: il punto di vista occidentale sul terrorismo e sulla violazione dei diritti umani è consistente? Nel contrasto al radicalismo islamico sono più efficaci i metodi impiegati dalla NATO o quelli applicati in Cina?
La questione uigura – come è noto, gli Uiguri sono una minoranza etnica di religione islamica, che parla una lingua imparentata con il turco. Convive, nella regione dello Xinjiang, con altri cinesi di etnia Han. È spesso citata dai media occidentali come un caso di ‘genocidio culturale’ attuato attraverso la rieducazione forzata in appositi campi, il lavoro forzato, la proibizione di vestiti tradizionali e del velo per le donne, le persecuzioni religiose (Maria Morigi si è occupata di una critica della nozione di ‘genocidio culturale’ alla luce del diritto internazionale qui). La Cina ha sempre smentito ogni accusa. Negli anni ha invitato oltre un migliaio di osservatori esterni qualificati, organizzazioni non governative, esponenti dell’ONU, rappresentanti di organizzazioni islamiche, che hanno descritto come ineccepibili le politiche culturali cinesi nello Xinjang. La Cina rivendica inoltre il successo delle proprie politiche antiterrorismo e volte a combattere la radicalizzazione islamica, dato che molti volontari dell’Isis erano di etnia uigura, criticando i tentativi di politicizzare le questioni relative ai diritti umani. A ottobre 2020, in sede ONU, i paesi aderenti alle mozioni di condanna delle politiche cinesi nello Xinjiang ammontavano a 39, contro i 45 che, al contrario, le supportavano (sul crescente sostegno internazionale alle politiche cinesi nello Xijiang si veda questo articolo).
Distorsioni mediatiche – i numeri che abbiamo introdotto sopra fanno ben comprendere come la questione uigura sia oggetto in occidente di distorsioni mediatiche di matrice ideologica. Infatti, i media occidentali raccontano il così detto genocidio culturale come una verità incontrovertibile e un processo ineluttabile; andrebbe per lo meno presentata come una controversia politica internazionale complessa e articolata, che riguarda la conciliabilità tra la tutela dei diritti umani, specie quelli legati al culto e alle scelte ideologiche, politiche e sociali che esso comporta; il tentativo di costruire un modello di integrazione che preveda una relazione armoniosa tra diversi gruppi etnici, spinti a formare un’unica comunità; la lotta alla radicalizzazione e al terrorismo.
Quel che è nazionale è internazionale- il documentario che ci interessa è costituito da un insieme di micro-racconti di tre o quattro minuti ciascuno. Come ogni racconto, si tratta di storie di realizzazione di un soggetto, incarnato in un individuo appartenente alla nazione uigura. Ciascuna di esse risponde a uno o più capi di accusa mossi contro le politiche culturali cinesi nello Xinjiang. La Cina è accusata di aver proibito le manifestazioni della cultura uigura? Il documentario racconta la storia della direttrice di una scuola di danza tradizionale; del direttore di un’orchestra folkloristica; di un contadino che diventa un cantante; di un Imam la cui storica moschea, che risale al medioevo, è stata ristrutturata con fondi dello Stato. L’insegnamento che il Partito cerca di trasmettere attraverso questi interventi è affidato alle parole dell’insegnante di danza: quel che è autenticamente nazionale è internazionale. La danza, la musica e, per estensione la cultura, sono universali, perché apprezzare la bellezza è universale.
La lingua- la Cina è sotto accusa per aver introdotto nelle scuole lo studio del cinese e il bilinguismo negli insegnamenti. Ma quel che appare evidente dal documentario è che una parte della popolazione uigura non conosce affatto il cinese. Abbiamo così la storia di un immigrato pakistano che sposa una donna uigura e fa fortuna come gioielliere, il quale racconta la propria storia in inglese. Vediamo coppie in cui solo uno dei due coniugi parla cinese; alcuni protagonisti parlano cinese con vistose esitazioni, perché per loro è semplicemente uno strumento di lavoro; i nonni interagiscono con i nipotini nella lingua materna. Tra le storie di successo vediamo bambine che frequentano la scuola con ottimi voti e studenti delle superiori cui si apre la strada delle migliori università. È chiaro che, anche in questo caso, l’insegnamento del cinese è interpretato dal documentarista come un modo per fornire alla popolazione strumenti culturali che, oltre a favorire l’integrazione tra le etnie uigura e han, garantisce agli Uiguri la possibilità di realizzarsi su un piano economico e professionale.
Tecnologia e agricoltura – tra le accuse mosse alla Cina, vi è quella dell’impiego del lavoro forzato nei campi (per una replica della parte cinese alle accuse, si veda qui). Il documentario risponde direttamente alla domanda, mostrando i metodi tecnologici impiegati da contadini uiguri nella coltivazione del cotone. I processi di semina e di raccolta sono totalmente automatizzati. Il documentario indugia a lungo sui droni che sorvolano i campi. Il padrone del campo sorride all’idea di migliaia di Uiguri costretti a lavorare forzatamente, e ricorda di avere avuto solo due braccianti, ovviamente volontari, l’anno precedente. Il documentarista mostra contadini han e uiguri proprietari di frutteti confinanti che si sostengono a vicenda comprando, in caso di bisogno, l’uno il prodotto delle terre dell’altro.
Radicalizzazione – una tra le storie presentate dal documentario mi è parsa più stimolante delle altre per comprendere il punto di vista cinese sulla questione uigura, e la riassumo qui. NurEhmet Abdula è un arredatore di interni trentaquattrenne, padre di due figli. Nel suo lavoro di compravendita di materiali all’avanguardia conosce un fornitore che, attraverso WeChat, gli invia video di propaganda estremista. Abdula racconta di aver subito questa propaganda, che finisce per rovinargli la vita. Come racconta la moglie, Sudman UbulEsen, i litigi si susseguono e l’uomo prende che lei rimanga in casa, che si occupi dell’educazione dei figli, che non cerchi un lavoro, che porti il velo, e minaccia di abbandonarla in caso contrario. Il matrimonio va verso il naufragio e anche gli affari ne risentono; la moglie e il fratello di Abdula lo convincono a frequentare un centro di educazione e formazione aperto di recente nella regione. I corsi, di livello universitario, durano oltre un anno; Abdula apprende il cinese e il diritto. Attraverso gli studi, Abdula diviene consapevole che abbracciare l’islam non rende felici quanto abbracciare la propria moglie, e descrive come un’esperienza estraniante il periodo in cui aveva sposato l’estremismo. Il documentario lo rappresenta come un professionista scrupoloso, un uomo di gusto, realizzato sul lavoro, a cui importa della carriera della moglie e del successo scolastico dei figli, desideroso di contribuire allo sviluppo della sua città attraverso il lavoro. Una costante in tutte queste storie, infatti, è la sintesi tra valori personali e comunitari; tale sintesi è operata attraverso l’educazione e la cultura. Si tratta di una risposta diretta alle accuse di ‘sinizzazione’ degli Uiguri e di lavaggio del cervello. Secondo il punto di vista del documentarista, all’opposto, è la propaganda dell’estremismo islamico a lavare il cervello di chi le dà credito, creando persone inautentiche e infelici, minando le basi di una società che mira all’armonia tra le etnie presenti nella regione e tra realizzazione individuale e collettiva.
A chi credere? – in ogni racconto, la verità è un effetto perseguito e costruito dal narratore. Per quanto la vita di una persona sia reale, quando viene raccontata essa passa per una messa in forma: si selezionano alcuni episodi, li si concatena in modo che i primi appaiano come cause dei secondi, si costruisce all’unisono la trama e la sua interpretazione. Inoltre, la verità è la posta in gioco in ogni guerra: possiamo definire il conflitto USA – Cina sui diritti umani proprio come la lotta per affermare una verità. Per questo, quel che mi importa davvero del documentario non è tanto la sua verosimiglianza, ma la credibilità del modello di integrazione proposto: esso cerca di evitare che le due comunità vivano nella separazione e nel conflitto, e che l’una si arricchisca a spese dell’altra; al contrario, cerca di stimolare la solidarietà reciproca e rapporti interpersonali attraverso la cultura, l’educazione e lo sviluppo comune. La mia modesta opinione è che si tratti di intenzioni alquanto lodevoli.
Modelli in concorrenza – se il modello cinese funzionerà, lo dirà il futuro. Per lo meno, ha il vantaggio di essere un progetto. È opposto in tutto e per tutto a quanto accade in USA, dove non si ravvede alcun progetto coerente: le comunità sono chiuse e le etnie conducono esistenze separate, in guerra tra loro, vittime di pregiudizi culturali e razziali,tutte egualmente sfruttate a vantaggio di un ristretto club di ricchi aventi accesso all’istruzione e a una rete sociale che li sostiene e li avvantaggia. È opposto anche al non-modello italiano: anche qui, vediamo comunità di immigrati che non comunicano tra loro, bande giovanili che si affrontano per strada, clan etnici che contendono ad altri clan il diritto a farsi sfruttare come braccianti nelle serre, giovani che vengono uccisi perché rifiutano i matrimoni combinati o frequentano coetanei italiani, immigrati integrati che votano Lega per impedire ad altri immigrati di insidiare la loro posizione sociale, lavoratori poveri italiani in concorrenza con lavoratori extracomunitari che chiedono un tozzo di pane più piccolo.
Cosa c’entra l’Afghanistan – al principio dell’articolo ho evocato l’Afghanistan perché, almeno in teoria, le truppe degli USA e dei suoi alleati occidentali erano là per combattere il terrorismo. Come si legge su Wikipedia, venti anni di occupazione militare sono costati novecento miliardi di dollari, cui l’Italia ha contribuito con 650 milioni di euro; hanno prodotto 35.000 vittime civili, un terzo dei quali bambini, e avrebbero causato 5000 morti uccisi dai bombardamenti americani nel primo anno di guerra. L’intervento americano, ha dichiarato il presidente Biden, non era finalizzato a costruire uno Stato in Afghanistan, ma solo a contrastare il terrorismo. Questo non-modello si è rivelato dunque controproducente. Non ha battuto, ma ha alimentato il radicalismo islamico; non ha difeso i diritti delle donne, li ha semplicemente strumentalizzati. A differenza del modello cinese, non ha tentato di costruire una società stabile e in crescita; dal punto di vista dei mezzi, non ha privilegiato l’educazione e la cultura e ha preferito l’uso della forza.
Ipocrisia dell’Occidente – nella sua lotta per affermare la propria verità sullo Xinjiang, la stampa occidentale rovescia sofisticamente contro la Cina le argomentazioni che lo stesso occidente ha impiegato per giustificare venti anni di giogo militare in Afghanistan. Se la Cina combatte il radicalismo islamico, i giornalisti occidentali scrivono che cerca di estirpare la pietà religiosa. Se la Cina garantisce alle donne uigure istruzione e autodeterminazione, scrivono che cerca di cancellare la tradizione; se la Cina combatte l’uso del velo (come accade, peraltro, in Francia), scrivono che impedisce agli Uiguri di vestire secondo i loro costumi; se la Cina combatte il fondamentalismo con l’istruzione, scrivono che gli Uiguri subiscono il lavaggio del cervello e la sinizzazione forzata; se i Cinesi non uccidono gli Uiguri, allora scrivono che si tratta di un ‘genocidio culturale’. Il problema è che nel sistema della cultura occidentale il valore della difesa della libertà di culto e della tradizione entra costantemente in conflitto con quello della garanzia dei diritti individuali, in particolare delle donne. Proibire o permettere che una ragazzina entri in classe col velo? Rispettare il diritto di culto o proibire l’edificazione di una moschea, se i cittadini del quartiere raccolgono firme per impedirlo? Spiare gli Imam per schedare i radicali o non intromettersi nella religione altrui? Rispettare i non cristiani o festeggiare il Natale nelle scuole? Proibire circoncisione e infibulazione sui neonati o consentire che si esegua negli ospedali, sotto controllo medico? Sottolineare le radici cristiane e giudaiche della cultura italiana o promuovere un’intesa tra Stato e organizzazioni islamiche? Lasciare che i bambini italiani siano educati accanto a bambini indù, buddisti e islamici o creare scuole e classi confessionali? Come si vede, di fronte alla complessità e alla contraddittorietà del reale non è possibile enunciare una limpida etica a priori. Giocoforza si adotta una morale casuistica, in cui si tenta di risolvere un problema contingente esercitando il discernimento. La possibilità di rovesciare un valore nel corrispettivo antivalore, nell’ambito del discorso giornalistico, testimonia di questa nostra incapacità di operare una sintesi politica tra opposti valori una volta per tutte.
Cultura e zoologia – in occidente, la difesa della cultura è vista troppo spesso come la creazione di un giardino edenico dove rinchiudere, per il loro stesso bene, specie in via di estinzione simpatiche come i panda, curiose come gli armadilli o terribili come gli squali: indios, pigmei e cannibali. Così la cultura occidentale assume un punto di vista zoologico sulle altre culture, arrogandosi il diritto di ingabbiarle. Mai fu preso un abbaglio simile: la cultura non è una forma da preservare, è piuttosto un’inesausta capacità di nuova formazione. Se le si impedisce di cambiare, racchiudendola in una riserva, ogni cultura muore: usi e costumi diventano messe in scena, l’artigianato si trasforma in paccottiglia, i villaggi in parchi a tema per turisti. Lo scopo delle politiche cinesi di intervento culturale, per come le si legge nel documentario, non è preservare un’immacolata civiltà rurale patriarcale islamica medioevale, che probabilmente non è mai esistita, ma garantire uno sviluppo armonioso e una prospettiva concreta alle culture degli Uiguri e degli Han, così che formino, nel rispetto reciproco, una sola comunità.