di Fabio Mini
da il fatto quotidiano 6 giugno 2023
C’è una nota di disperazione nell’annuncio di Zelensky sull’imminente controffensiva. E di cinico piacere. E d’ipocrisia. Secondo lui la vittoria è certa, ma ci saranno molte perdite. Molti uomini e donne ucraini moriranno, molti altri perderanno casa, familiari e futuro. Gli americani e gli europei che lo sostengono sono d’accordo sulle perdite ma non sono così certi della vittoria. Mentre il presidente Biden e i vertici europei assicurano l’invio di altre armi e soldi, il Segretario alla Difesa Austin ribadisce che la controffensiva consentirà all’ucraina di guadagnare posizioni sul terreno da far valere nei successivi negoziati. Un messaggio che tutti gli europei, a partire dal nostro governo, hanno mutuato e inteso come affermazione di vittoria, ma che Zelensky potrebbe e dovrebbe invece intendere come una sconfitta programmata: l’ucraina dovrà trattare con la Russia, a prescindere dal risultato. E tale prospettiva fieramente negata sarà costata la vita ad altre migliaia di soldati e cittadini. Tutti si preparano a sfruttare il loro sacrificio non tanto per un pezzo di terra che avrebbero potuto ottenere senza sparare un colpo, ma proprio per favorire chi dalle armi e dalle distruzioni trae i maggiori vantaggi.
Per la controffensiva, l’ucraina avrebbe bisogno di altri sistemi contraerei e aerei, tempo per prepararsi, combattenti, migliori condizioni del campo di battaglia: ma ha deciso di partire lo stesso. Deve sacrificare tutto ciò che possiede per indurre gli altri, i reticenti e gli stessi sostenitori a entrare in guerra. Se l’ucraina punta tutto su una vittoria determinante corre il più subdolo dei rischi: se fallisce perde tutto e chi la sostiene dovrebbe intervenire non al suo fianco, perché non avrà più forze, ma al suo posto. Tutte le volte che ciò è accaduto, l’alleato impotente è diventato il suddito o il potente è venuto a patti con l’avversario.
In guerra il comandante in capo non dichiara l’entità delle perdite e dei sacrifici prima di cominciarla e neppure dopo. Anzi è sempre stato fatto di tutto per nascondere o minimizzare i rischi e le perdite e delegittimare i generali che avrebbero voluto “informare” su rischi e limiti.
La retorica della vittoria e la promessa di “lacrime e sangue” per conseguirla fanno parte della propaganda di guerra. Zelensky non ha mai saputo molto di guerra, ma dopo un corso intensivo di oltre un anno, ascoltando le lezioni di abili maestri occidentali e ruvidi ma efficaci maestri di casa propria, sa qualcosa della guerra di propaganda. Sa anche che essa è importante ma da sola non vince. Lo ha constatato in questo anno e mezzo in cui, con la propaganda ha vinto sugli alleati, ma secondo alcuni analisti statunitensi “ha perso completamente il proprio esercito” (Col. Doug Macgregor et al.). E quindi questa retorica nasconde il piacere della guerra e l’ipocrisia.
Sono rari gli uomini che confessano il piacere della guerra, come Ernst Jünger, che descrisse l’intima esaltazione provata nello “scannatoio” della battaglia dai giovani come lui “ubriachi di guerra”. È invece più facile trovare coloro che simulano buoni sentimenti, ma soddisfano il gusto segreto per la guerra ricorrendo alla retorica, appellandosi ai codici d’onore, alla patria e al dovere di chi è superiore per razza o missione divina. Winston Churchill, dopo la disfatta di Dunkerque del 1940, ricorse alla straordinaria sequenza retorica di we shall fight: “noi combatteremo” per chiamare alla riscossa. Il discorso tradiva però il sottile piacere della battaglia e l’orgoglio di sapere che l’esortazione alla lotta era inutile perché il suo popolo e la Corona non volevano altro.
Il generale George Patton ostentava l’amore per la guerra, eppure ricorreva all’ ipocrisia retorica quando definiva demoniaco ogni nemico dell’america, quando definiva veri uomini non quelli che morivano in guerra ma quelli che sapevano uccidere, anche gli inermi. Diceva: “Nessuno va in guerra per essere ucciso ma per uccidere un altro bastardo dannato figlio di puttana che vuole ucciderlo”. E diceva che l’america non avrebbe mai perduto perché gli americani amano combattere.
L’ipocrisia ha prodotto milioni di vittime ignare e giustificato molti crimini. Patton non fu mai inquisito per quelli istigati dalle sue parole e dai suoi ordini come quello di fucilare prigionieri italiani inermi. Fu sollevato dall’incarico per aver preso a schiaffi un soldato americano in preda a una crisi di panico: per lui era un affronto personale, la dimostrazione evidente che non tutti gli americani amano combattere e uccidere. Il suo mito dell’invincibilità e il suo paradigma demoniaco erano necessari alla guerra ma si sono rivelati profetici all’incontrario: dalla Seconda guerra mondiale gli americani non hanno più vinto una guerra e per gran parte del mondo è l’america a essere il nemico demoniaco.
Pensare che oggi Patton sarebbe censurato e condannato è pura ipocrisia. Ci sono molti militari che lo imitano e molti civili che condividono il suo disprezzo per ogni avversario. Questo disprezzo incombe su tutti i campi di battaglia; pronto a insinuarsi negli ideali dei soldati e modificarli camuffandosi da spirito di corpo, onore e amor di patria. In Ucraina è presente come una colla appiccicosa sparsa sulle popolazioni e stesa anche su tutti i popoli alleati proprio dalla retorica e dall’ipocrisia dei capi, incitati e guidati dalla altrettanto ipocrita e retorica riconoscenza per chi “combatte per tutti noi”. Il popolo ucraino non avrebbe voluto la guerra né tantomeno una guerra nella quale sacrificarsi per “tutti noi”, ma combatterà perché i suoi capi lo vogliono, perché devono disprezzare l’avversario e perché le “Corone” europee e americane lo pretendono.
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