di Alberto Bradanini
1. Sebbene sia trascorso appena un mese, che nel vortice di un mondo in ebollizione sembra un secolo, resta d’interesse gettare uno sguardo sul viaggio in Cina, a fine luglio, della Presidente del Consiglio. A Pechino, Giorgia Meloni è stata ricevuta con ogni decoro, alla luce della tradizionale ospitalità cinese, ma anche degli interessi che la Cina mira a tutelare nel suo rapporto con l’Italia, membro formale del G7 e una delle prime otto/nove economie al mondo. Qualche settimana prima si era recato a Pechino anche il Ministro delle Imprese e del Made in Italy, A. Urso, mentre il capo di Stato S. Mattarella concluderà in autunno un’insolita triade di viaggi istituzionali italiani in Cina.
Per comprendere il senso di tali interlocuzioni, in particolare la visita di G. Meloni, di cui questo scritto si occupa, è necessario scendere sotto la superficie per catturare quel prisma di sottintesi/malintesi solitamente rimosso per pigrizia, convenienza o pavidità. Un esercizio questo che offre altresì l’occasione per toccare altri aspetti di natura internazionale, scollegati dalla visita, ma utili alla riflessione.
A Pechino, G. Meloni ha incontrato i vertici della Repubblica Popolare, il presidente Xi Jinping, il primo ministro Li Qiang, il presidente dell’Assemblea Nazionale del Popolo, Zhao Leji, tutti consapevoli, ça va sans dire, che i due paesi hanno un peso economico e politico ben distinto, oltre ad appartenere a diversi sistemi di alleanze.
Deve rilevarsi che le intese raggiunte non hanno per i due paesiuna valenza di impegni formali. L’Italia, infatti, quale membro della gabbia europea, non può sottoscrivere accordi bilaterali veri e propri, una competenza questa che spetta solo alla Commissione Ue, sul cui sostegno l’Italia non ha mai potuto contare. Euroburocrati e politici nominati di Bruxelles, infatti, – sia qui detto en passant – obbediscono solo a istruzioni e interessi del direttorio franco-tedesco (e satelliti), il quale decide nomine e vertici delle cosiddette istituzioni europee. I documenti siglati costituiscono, dunque, solo un elenco di buone intenzioni, nella presunzione che eventuali scostamenti devono considerarsi fisiologici (e, nella prassi, scontati).
Deve aggiungersi che, alla luce delle consuetudini diplomatiche cinese, l’ermeneutica degli incontri, più che negli eloqui espliciti o nelle carte sottoscritte, va ricercata nelle parole non dette e negli spazi vuoti. È in questi luoghi incorporei delle menti e dei documenti che si può rintracciare qualche indizio sulla corposità dei colloqui o la plausibilità dei risultati perseguiti, tenendo conto della molteplicità, occulta o palese, di attori e interessi.
In ogni caso, per provare ad avvicinare la forma alla sostanza delle relazioni Italia-Cina appare cruciale acquisire nozione dei pilastri delle soggettività statuali dei due interlocutori, tenendo a mente che le caratteristiche istituzionali, politiche e ideologiche, risultato di distinte traiettorie storiche, condizionano anche l’interlocuzione bilaterale e la rispettiva agibilità internazionale.
2. La Cina, innanzitutto: la Repubblica Popolare è un paese sovrano, espressione di una potenza economica e politica in forte crescita, palpabile in ogni angolo del pianeta. Al centro delle sue istituzioni è collocato il Partito Comunista, che garantisce stabilità e indipendenza alle scelte interne e internazionali del paese. Quale essenza costitutiva della soggettività di ogni stato degno di tal nome, il pieno esercizio della sovranità (per il Machiavelli un paese può dirsi sovrano solo se non ospita truppe di altri paesi sul suolo nazionale e se è padrone della propria moneta: l’Italia dunque non si colloca in tale categoria!) ha rappresentato il pilastro ideologico-strutturale che ha consentito alla Cina di riscattare il secolo dell’umiliazione nazionale (1839-1949). Su tale impalcatura, la Repubblica Popolare ha costruito il percorso che in quarant’anni ha generato un benessere inedito per una popolazione che nella storia aveva conosciuto solo povertà ed emarginazione, divenendo la seconda economia mondiale.
La gerarchia dei paesi che contano per Pechino vede in cima gli Stati Uniti – un impero schiavo della patologia di voler dominare il mondo, per il quale la Cina, a seconda delle convenienze, costituisce un partner, un concorrente o un insidioso rivale strategico – seguiti a distanza dalla Russia (per ragioni economiche/energetiche e di comune valenza a contenere l’egemonismo americano), dal Giappone (con cui vige una pace fredda, economia bollente, politica gelida), dai paesi produttori di petrolio e materie prime, e poi da India, Pakistan, altre nazioni vicine e via via gli altri.
In un mondo in plurale effervescenza – dove il Sud Globale ha dato vita ai Brics+[1], alla Sco[2], alla Rcep[3] e altre aggregazioni a dimensione regionale – la Repubblica Popolare Cinese svolge il ruolo di una paziente locomotiva. Com’è noto, il principio informatore di tale architettura di paesi non è l’ideologia (il solo paese comunista è la Cina), ma anche qui la sovranità, precondizione politico-strategica per potersi distanziarsi dal neocolonialismo occidentale a guida Usa.
Sulla scorta di esso, tali nazioni intendono costruire il loro futuro, vivere e prosperare a modo loro, chiedendo rispetto per la loro storia, scelte politiche e religiose, sistemi economici e ideologici. Valori questi che l’etica universale del XXI secolo dovrebbe porre a fondamento della pace e la stabilità, nel riconoscimento che il genere umano – nelle parole del presidente cinese Xi – ha un destino comune perseguibile nel quadro dell’armonia nella diversità.
Si tratta di riflessioni che cadono beninteso nel vuoto di un Occidente schiavo della mercificazione dell’esistenza umana e degli interessi di corporazioni mai sazie di ricchezze e potere, mentre al loro posto viene collocato quell’ordine basato sulle regole/rules-based order, una litania ripetuta anche da G. Meloni a Pechino, che ha invero partorito sorrisi di divertito compatimento da parte degli ascoltatori cinesi. Del resto, risulta chiaro persino agli atolli dell’Oceano Indiano che si tratta di regole decise dall’impero egemone a suo esclusivo vantaggio, alle quali i vassalli europei si piegano senza nemmeno una smorfia.
Per tornare alla Cina, la presenza dello Stato nell’economia è solida e diffusa. Il mercato, pur ricoprendo un ruolo rilevante, non costituisce l’unico canone di riferimento nelle decisioni adottate. La politica monetaria e fiscale è al servizio della nazione, a nessuno è consentito di condizionarne le scelte, nemmeno alle Organizzazioni Internazionali alle quali il paese aderisce. Quella che in Occidente si chiama governance dell’economia, vale a dire gestione pubblica condizionata dagli interessi privati, in Cina si chiama in semplicità governo dell’economia, che vede al centro la polis, l’interesse collettivo. Tutto ciò non va però sovrastimato. Il paradiso in terra non esiste e la Cina non è certo immune da errori e criticità (senza nemmeno evocare quelle, qui fuori testo, riguardanti la rispondenza ideologica al pensiero del fondatore della ditta, K. Marx). Tra i punti critici di forte impatto sociale, troviamo l’iniqua distribuzione della ricchezza e tutele decisamente deboli per lavoratori/operai, oltre al tema della libertà, con cui la Cina dovrà prima o poi fare i conti, presumibilmente quando le condizioni politiche e securitarie saranno rassicuranti.
Alla luce dell’appartenenza dell’Italia alla Ue, lecita è la richiesta di conoscere in quale misura tale tematica sia stata evocata. In verità, tenuto conto dell’ingarbugliata natura politico-giuridica della cosiddetta Unione, è presumibile che le autorità cinesi l’abbiano ignorata, consapevoli che, in assenza di una vera politica comune europea, ogni paese membro fa gli affari suoi, cosicché i più potenti, audaci e meglio organizzati ne traggono profitto. In fin dei conti, per Pechino l’Europa brilla da tempo per la sua irrilevanza, vassalla politica/militare/economica e ora anche energetica del padrone atlantico, oltre che – sia qui detto fuori contesto – anche sotto il profilo culturale, se l’insana strategia anglosassone della cancellazione delle culture/lingue altrui non verrà adeguatamente contrastata.
È una sequenza logica, dunque, che il Vecchio Continente, un tempo protagonista della scena internazionale, sia oggi percepito nella sua reale dimensione di servile inconsistenza, apprezzato esclusivamente per la sua economia, e comunque anche qui a sovranità limitata, poiché quando sono in gioco interessi cruciali è sempre il padrone a decidere, valutandone la compatibilità con la sua agenda strategica.
3. Veniamo ora all’Italia. Nella valutazione cinese, la Penisola è un paese di medie dimensioni, con minima autonomia, scarso peso internazionale e politicamente/militarmente subalterno agli Stati Uniti. Sono trascorsi 80 anni dal termine del secondo conflitto mondiale, eppure, attraverso presenza militare e infiltrazioni negli apparati statuali, oltre al controllo ideologico e finanziario, essi sovrintendono tuttora alle scelte fondamentali del Paese. In Italia gli Stati Uniti dispongono di un centinaio di siti militari (incluse 80/100 testate atomiche[4], in violazione del Trattato di Proliferazione Nucleare, da entrambi sottoscritto), cui si aggiungono gli armamenti Nato, di cui controllano struttura e risorse. In siffatto scenario, non sorprende che governi/ceto dirigente italiano si pieghino alle priorità americane anche a danno degli interessi nazionali. Del resto, se la perdita del senso delle proporzioni è un aspetto infantile dell’essere umano, allora l’Italia più che alleata deve considerarsi suddita degli Stati Uniti. L’amicizia, del resto, non si applica alle nazioni – che hanno solo interessi, per di più non eterni – ma solo alle relazioni umane, e in ogni caso essa è praticabile esclusivamente tra soggetti eguali, e i due paesi, Italia e Stati Uniti, eguali non sono. Una simile asimmetria, va detto, esiste anche tra Stati Uniti e altri paesi europei, incluse Francia e Germania, a dispetto delle loro velleitarie auto-estimazioni.
Quanto all’agibilità sulla scena internazionale e nei riguardi della Cina, deve tenersi a mente il duplice livello di asservimento di cui l’Italia è schiava, quello politico-militare agli Stati Uniti e quello economico-finanziaria al sovra-nazionalismoeuropeo del direttorio franco-tedesco, sorto dallo scellerato Trattato di Maastricht e dall’avvio della moneta unica, democraticamente (sic!) imposti ai cittadini europei mai consultati in proposito.
Mentre il primo livello di servitù comporta la sottomissione all’agenda atlantica (si pensi alla guerra contro Gheddafi, principale alleato africano dell’Italia, che garantiva ingenti benefici petroliferi e controllava i flussi d’immigrazione dall’Africa), il secondo, la subalternità alle élite nordeuropee impedisce politiche economiche a misura delle nostre caratteristiche, capacità e tradizioni. Un deficit che ha generato deindustrializzazione, precarietà strutturale del lavoro, depauperamento della Pubblica Amministrazione, stagnazione, vuoto di politiche industriali, deterioramento dei servizi pubblici, infrastrutture cadenti e altre umiliazioni. Sono lontani i tempi (maggio 1991[5]) in cui la Penisola veniva certificata quarta potenza economica al mondo (dopo Usa, Giappone e Germania, superando Francia e Regno Unito), che Pechino percepiva come un solido interlocutore economico/industriale, al quale si proponeva con rispetto e circospezione.
In sintesi, al pragmatico cinese l’Italia appare un paese di medie dimensioni, in declino politico, demografico ed economico, alle prese con seri problemi esogeni ed endogeni, con autonomia politica[6] e peso internazionale minimi.
Il severo giudizio nei riguardi della Penisola che i cinesi, maestri di cerimonie, nascondono dietro le buone maniere, si estende poi alla sua classe dirigente: un ceto politico mediocre, che guida un’amministrazione obsoleta, alle prese con corruzione diffusa, criminalità organizzata e un’immigrazione fuori controllo.
È doloroso constatare come un’infantile autoesaltazione e un insensato spirito di subordinazione nei riguardi delle oligarchie straniere impediscano a tale impalpabile classe dirigente (che per benefici effimeri chiude gli occhi sul declino della nazione) di liberarsi di un dissennato complesso d’inferiorità nei riguardi dei regnanti anglosassoni e nordeuropei, glorificati oltre ogni misura e portati a inspiegabile modello di virtù costruite sulla sabbia. Senza un inedito risveglio di coscienza sarà arduo trovare la via del riscatto, che seppur difficile resta possibile, poiché ciò che gli uomini hanno mal costruito, può sempre essere disfatto e ricostruito.
4. Ma andiamo avanti. L’Italia ha riconosciuto la Repubblica Popolare di Cina il 6 novembre 1970. Da allora i rapporti bilaterali sono stati condotti all’insegna di un saggio realismo e sono dunque privi di fattori critici. Roma non ha mai ceduto alla tentazione di interferire sui temi sensibili per Pechino – Taiwan, Tibet, la questione uigura, i diritti umani, Hong Kong – considerandoli affari interni cinesi. L’Italia, va tuttavia aggiunto, fa parte di un sistema di alleanze centrato sugli Stati Uniti, i quali vedono nella Cina l’insidia maggiore alla loro egemonia. Se un giorno le tensioni tra le due superpotenze dovessero superare la soglia critica, i rispettivi alleati sarebbero tenuti ad allinearsi senza troppi distinguo. È questo un profilo solitamente rimosso dai politici italiani e che i dirigenti cinesi evitano di evocare negli incontri bilaterali, ma che va tenuto a mente.
Pur con caratteristiche di fungibilità, la Cina considera comunque interessante il nostro tessuto industriale (quello delle eroiche piccole/medie imprese, le grandi essendo scomparse o acquisite dai fondi-pescecane Usa), quale mercato di sbocco, per tecnologie, capitali ed expertise, e porta d’ingresso in Europa. Pechino è però consapevole che le competenze su temi critici come lo statusdi economia di mercato, le procedure antidumping, accordi, contenziosi commerciali e altro sono di pertinenza della Commissione, non del governo di Roma. Solo quando l’Italia fa sentire la sua voce nelle istanze UE (talvolta accade), l’attenzione di Pechino si fa attenta.
Alcuni dati. Nel 2023, il commercio Italia-Cina ha superato i 71-74 mld di euro[7]. Le esportazioni cinesi si sono attestate intorno ai 50-52 mld, quelle italiane in Cina a 21-22 mld (i dati sono approssimati poiché molti container transitano per Hong Kong e Rotterdam, i due principali porti di transhipment tra Cina ed Europa). Il 22,9% del nostro export verso la Cina (4,39 mld) è costituito da prodotti farmaceutici-chimico-medicali, il 21% (4 mld) da prodotti tessili, abbigliamento, pelli e accessori, e ll 19,5% per 3,73 mld da macchinari e altri apparati. La Cina assorbe il 2,5% delle nostre esportazioni, 11.mo mercato. Dalla Cina, terzo paese fornitore, importiamo l’8,1% del totale, mentre per Pechino l’Italia costituisce solo il 22.mo mercato di export.
Il disavanzo italiano[8] subisce un’impennata a partire dal 2001 con l’ingresso di Pechino nell’OMC[9], passando dai 4 mld di allora ai 41/43 del 2023, seguendo la medesima curva dell’Ue che nel 2023 registra un deficit di 291 mld, su un totale di 738 (223,5 mld di export e 514,4 mld di import).
L’ingresso cinese all’OMC era stato trainato a fine anni ’90 dalle grandi imprese occidentali, che hanno puntato a produrre in Cina a bassi costi, delocalizzarvi le produzioni inquinanti per riesportare nei ricchi mercati americani ed europei, nell’incuranza dei governi di riferimento sui danni che tale scenario avrebbe causato all’insieme delle economie occidentali, in specie quelle esposte, come la nostra.
Quanto agli investimenti italiani in Cina, il loro stock (numeri approssimati, per definizione) dovrebbe aggirarsi intorno ai 16/18 mld di euro. Nell’arco di alcuni decenni, essendo quasi tutti green-field, essi hanno creato in Cina centinaia di migliaia di posti di lavoro. Seppure alcune imprese abbiano tuttora convenienza a spostare laggiù la produzione, nel complesso il fenomeno risulta ora in esaurimento, a causa dell’aumento dei costi cinesi (lavoro e servizi), della crescente competitività locale, di un’imposizione fiscale non più incentivante come un tempo, di una maggiore attenzione cinese alla protezione ambientale e dell’appeal di paesi alternativi, oltre che per le difficoltà delle nostre imprese a reperire capitali.
A loro volta, gli investimenti cinesi in Italia[10], che nel 2019 avevano già raggiunto i 15,3 mld, dovrebbero ora attestarsi su 18/20 miliardi, concentrati su merger and acquisition di società attraenti per tecnologia e sbocchi di mercato, che non creano però nuovi posti di lavoro, con qualche eccezione (Huawei a Segrate, il centro design per auto a Torino e altri minori)[11]. Cresciuti gradualmente negli anni, dopo l’impennata del quadriennio 2013-2017, anche tali flussi vanno esaurendosi. In proposito, sia il Ministro Urso a Pechino ai primi di luglio, che G. Meloni a fine mese hanno sollecitato un importante investimento cinese nel settore auto elettriche. Tuttavia, tale prospettiva resta impalpabile. Deve aggiungersi che l’improvvida decisione italiana, adottata nel dicembre scorso su pressioni americane, di uscire dall’accordo sulla Via della Seta non ha certo aiutato. Vedremo. Altri capitali cinesi sono infine attivi sulla borsa di Milano e sul debito pubblico italiano: essi hanno però natura speculativa, sono volatili per definizione e non generano nuovi posti di lavoro.
Infine, sulla vexata questio delle infrastrutture marittime, in ragione della scarsa lungimiranza e concretezza italiana, non si è mai giunti a identificare un porto-hub per ricevere le merci cinesi in entrata in Europa, sebbene le navi transitino davanti alle nostre coste prima di proseguire per Gibilterra e il Nord Europa. La Cina ha legami strutturali con i porti nordeuropei, dove confluiscono ingenti flussi di import-export e si realizzano elevate economie di scala. Ciononostante, a date condizioni, Italia e Cina trarrebbero grande beneficio nel servire l’Europea centro-meridionale e orientale attraverso i porti della Penisola, più vicini ai mercati di destinazione[12]. Nel vuoto di proposte viabili da parte dei governi italiani dell’ultimo quarto di secolo, Pechino ha finito per guardare ad Atene-Pireo, dove ha già investito 800 milioni di euro, e ad altri porti del Mediterraneo.
5. Quanto sopra premesso, ai dirigenti cinesi che hanno incontrato G. Meloni non è certo sfuggita la decisione americana – cui Roma è tenuta a sottomettersi – di considerare la Cina una nazioneostile. Xi Jinping avrà avuto davanti agli occhi il contenuto del comunicato uscito dal Vertice Nato di Washington (10 luglio scorso), firmato anche da G. Meloni, che accusa “Pechino di fornire armi alla Russia e invita ad astenersi di farlo”, essendo la Cina “un fattore decisivo della guerra della Russia contro l’Ucraina” (naturalmente senza alcuna prova, mentre i paesi occidentali possono fornire a Kiev ogni genere di armamenti senza violare alcun principio. La Cina resta invero il solo paese ad aver presentato una piattaforma di un eventuale compromesso, su cui le parti potrebbero tuttora lavorare, se il governo ucraino non avesse impedito per legge ogni possibile negoziato!). Il Comunicato rileva poi che: “la Cina continua a porre sfide sistemiche alla sicurezza euro-atlantica” (dove e quando non è dato sapere, ma forse il probabile redattore della Cia in questo passaggio intendeva che Pechino vuol crescere per suo conto senza il permesso dei padroni del mondo), e ancora: “la Nato assiste a continue attività informatiche e ibride dannose, compresa la disinformazione, provenienti dalla RPC … la quale espande e diversifica il suo arsenale nucleare con … sofisticati sistemi di lancio. La Nato intende proteggersi dalle tattiche coercitive della RPC e dagli sforzi per dividere l’Alleanza”. Una riflessione avvolta nel candore più genuino da parte di un paese che dispone di 6000 testate nucleare, delle quali 1600 pronte all’uso, venti volte più numerose di quelle a disposizione della minacciosa Repubblica Popolare, la quale per di più non risulta aver schierato sommergibili e portaerei armati di testate nucleari davanti alle coste della California o nel golfo del Messico, come gli Usa davanti a quelle cinesi. Quel vertice Nato, secondo i dirigenti cinesi che hanno incontrato G. Meloni, sarebbe stata un’utile occasione per promuovere una conferenza internazionale sulla riduzione degli arsenali nucleari ipotesi (che poi, secondo il Trattato di Non Proliferazione, sarebbe un obbligo per le potenze nucleari militari, che se ne infischiano), dalla quale gli effervescenti generali atlantici si guardano bene, perché da essi traggono benefici di soldi e carriere, tanti.
Beh, solo gli sprovveduti possono aver pensato che tutto ciò sia stato rimosso nell’iperuranio quando la Presidente del Consiglio italiana ha incontrato i leader cinesi. Questi ultimi devono aver steso un pietoso velo anche sulla circostanza che l’Italia detiene quest’anno il turno di presidenza del G7. E la ragione è intuibile, si tratta di un incarico coreografico, essendo noto anche alle pietre che sia le decisioni nella Nato che quelle nel Gruppo G7 vengono sempre prese dalla superpotenza atlantica, che ne redige i documenti, mentre le nazioni rappresentate intorno al tavolo sono incaricate di tenere viva la conversazione, se e quando si parla la stessa lingua (beninteso l’inglese, poiché gli oltreatlantici non ne parlano altre!). Il rilievo formale di detenere la presidenza G7, dunque, può forse aver sedotto qualche politico, lettore o giornalista semi-alfabetizzato del Bel Paese, non certo gli acuti interlocutori cinesi.
La parte cinese, inoltre, avrà avuto presenti, pur senza evocarli, i comunicati del G7 pugliese, fotocopie di quello della Nato, e quelli delle riunioni ministeriali G7 (ad es. tra Ministri degli Esteri), anch’essi evocatori della necessità di “contenere le sfide minacciose della Cina nel Mar Cinese Meridionale, che deve rispettare il carattere universale e unificato della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS) e il ruolo cruciale dell’UNCLOS nella definizione del quadro giuridico che disciplina tutte le attività negli oceani e nei mari (senza fornire prove di violazioni di sorta e dimenticando che gli Stati Uniti sono una delle poche nazioni al mondo a non aver ratificato quella Convenzione, che faccia di tola!) e “promuovere l’inclusione di Taiwan nelle organizzazioni internazionali”, un anatema per Pechino, insieme alla presenza nell’Indo-Pacifico di navi militari italiane (con quelle francesi e spagnole, britanniche, americane e di altri vassalli Usa estremorientali), dal forte sapore anticinese. Una presenza al servizio degli interessi dell’impero, perché anche un bambino capisce che la Cina si trova dall’altra parte del pianeta e non costituisce certo una minaccia per l’Europa. Su tutto ciò, in ogni caso, nelle riunioni con G. Meloni i dirigenti cinesi avranno tenuto le bocche cucite, consapevoli che non è G. Meloni a decidere o a fare differenza alcuna.
6. Ancora. Sul tema Belt and Road Initiative (Bri, Via della Seta) la letteratura è ormai vastissima. Lanciata da Xi Jinping nel 2013, essa aveva inizialmente due obiettivi: a) favorire la connettività tra Cina e paesi limitrofi; b) ridurre le distanze Cina-Europa, via terra e mare, attraverso l’infrastrutturazione dei territori/paesi intermedi. La Bri ha poi maturato obiettivi più ampi, tematici e geografici, puntando finanche, nel tempo lungo, a modificare alcuni profili dell’ordine economico internazionale.
Il progetto cinese, centrato su investimenti e commercio, mira ad attirare in particolare, ma non solo, i paesi emergenti che oggi guardano soprattutto al Beijing consensus, la via cinese di uscita dal sottosviluppo, piuttosto che al Washington Consensus, la via neoliberista/americana, alla quale molte nazioni hanno sacrificato la sovranità politico/economica, raccogliendo scarsi risultati.
Sin dal suo apparire, gli Stati Uniti hanno manifestato una totale contrarietà, sebbene il progetto cinese meritasse il plauso dell’intero pianeta, in primis delle Nazioni Unite, avendo lo scopo di aiutare i paesi poveri a uscire dal sottosviluppo, rafforzando in tal modo pace e stabilità nel mondo.
In tale contesto, il 23 marzo 2019, Italia e Cina sottoscrivono un accordo denominato “Memorandum d’Intesa sulla collaborazione nell’ambito della “via della seta economica” e della via della seta marittima nel 21° secolo”[13], che sulla carta avrebbe dovuto porre le basi per una stretta collaborazione economica bilaterale. L’Italia, unico Paese G7 ad aver aderito a tale lungimirante strategia, avrebbe dovuto puntare non tanto alla riduzione del deficit commerciale (pure importante), ma a una collaborazione industriale di lungo respiro con la Cina, per infrastrutturare i paesi intermedi tra Estremo Oriente ed Europa Occidentale (ciò che giustificava il nome Belt and Road Initiative). Tale obiettivo è rimasto sulla carta per inerzia, inefficienza e scarso impegno da parte italiana, e di riflesso cinese. Del resto, alla luce delle critiche che la firma dell’accordo aveva generato dagli Stati Uniti e partner europei, l’MoU è stato vissuto dall’Italia come una colpa, invece che come una straordinaria opportunità per costruire una relazione privilegiata con l’universo Cina.
Se avesse trovato il coraggio di sottrarsi alle minacce, l’Italia, trattandosi di tematiche economiche prive di implicazioni politico/militari, avrebbe potuto avviare un percorso d’innovazione geopolitica, cui le altre nazioni europee si sarebbero poi aggregate, ricavandovi enormi benefici e favorendo stabilità e prosperità. L’orizzonte sarebbe stato quello euroasiatico, ricco di opportunità, non in chiave alternativa, ma supplementare a quello euro-atlantico, dal momento che la Bri è aperta a chiunque, compresi gli Usa, se questi decidessero di dismettere le vesti della sola nazione indispensabile e di bisogno patologico di dominare il mondo.
Un sogno, certo, poiché la superpotenza atlantica ha visto come fumo negli occhi la possibile saldatura delle potenze del continente euro-asiatico, che la Usa in posizione marginale oltre Atlantico. È questa, del resto, una ragione primaria della guerra alla Russia per interposta Ucraina.
In tale scenario, non è giunta come una novità la decisione italiana adottata da G. Meloni, dopo la visita a Washington nell’autunno 2023, di notificare alla parte cinese l’uscita dell’Italia da quell’accordo, uscita che verrebbe compensata ora dalla riattivazione del partenariato strategico bilaterale (firmato nel lontano 2004 e che a dispetto del nome ha avuto ben poco di strategico), anch’esso privo di impegni per le parti, ma formalmente più rassicurante per l’alleato atlantico, perché non evoca saldature da cardiopalma.
Quella cancellazione non ha fatto bene alle relazioni Italia-Cina, anche se Pechino non adotta misure di ritorsione sullo stile Usa, mentre conferma lo spirito di subordinazione del governo più sovranista che l’Italia abbia mai avuto.
Resta la forte contraddizione di una nazione (gli Stati Uniti) che ostacola pesantemente gli interessi di un paese amico alle prese con un’economia sofferente (71-74 mld di euro di interscambio Italia-Cina, nel 2023), mentre il commercio Cina-Usa ha superato nel medesimo anno i 574 mld di dollari, quello del Giappone i 400 mld[14] e in proporzione Corea del Sud, Australia e via dicendo hanno flussi commerciali assai floridi, senza sottostare alle imposizioni imperiali.
Sorprende infine che l’accanimento Usa contro legittimi, innocui interessi italiani – il Pil dell’Italia è tuttora inferiore dell’1,7% rispetto al 2007, anno precedente la crisi Usa dei sub-prime, e sono trascorsi 16 anni da allora! – sia vissuto con indecorosa disinvoltura da governo, accademia, comunità industriale e media, quando l’argomento dell’interesse nazionale per un’economia in difficoltà non sarebbe stato dismesso, ma verosimilmente rispettato persino dagli Stati Uniti.
È pertanto con sofferenza che concludiamo le presenti riflessioni rievocando il grido di dolore del Divin Poeta: Ah serva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiere in gran tempesta, non donna di provincia, ma …!
Note:
[1] Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa, più (dal 1° gennaio 2024) Arabia Saudita, Emirati Arati Uniti, Egitto, Etiopia, Iran (altri 16 paesi hanno chiesto di aderire, Algeria, Bangladesh, Bahrein, Bielorussia, Bolivia, Cuba, Honduras, Indonesia, Kazakistan, Kuwait, Nigeria, Palestina, Senegal, Thailandia, Venezuela, Vietnam, e in settembre 2024 persino la Turchia, paese Nato.
[2] Shanghai Cooperation Organization
[3] Regional Cooperation Economic Partnership
[4] https://www.tpi.it/esteri/bombe-nucleari-usa-italia-dati-documenti-20190717372685/, https://www.voltairenet.org/article164892.html, https://cnduk.org/resources/united-states-nuclear-weapons-europe/
[5] https://www.studioservice.com/quando-litalia-era-la-quarta-potenza-mondiale/
[6]https://contropiano.org/news/politica-news/2020/01/08/in-italia-ci-sono-decine-di-bombe-atomiche-pochi-lo-sanno-e-chi-sa-tace-0122697;https://www.tpi.it/esteri/bombe-nucleari-usa-italia-dati-documenti-20190717372685/; https://www.voltairenet.org/article164892.html; https://cnduk.org/resources/united-st ates-nuclear-weapons-europe/
[7]https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php?title=China-EU_-_international_trade_in_goods_statistics#Trade_with_China_by_EU_Member_State
[8] L’export italiano in Cina è rappresentato per i 4/5 da beni strumentali, mentre le note tre effe(fashion, food, forniture) non coprono più del 15% del totale, a dimostrazione che l’industria meccanica (o quel che ne resta) rappresenta tuttora il perno dell’export italiano, godendo dell’apprezzamento cinese per qualità e competitività internazionali.
[9] Organizzazione Mondiale del Commercio
[10] https://forbes.it/2019/03/09/via-della-seta-quanto-investe-davvero-la-cina-in-italia/
[11] Tali investimenti sono concentrati per lo più in Lombardia, Lazio, Piemonte, Veneto, Trentino-Alto Adige, riguardano i settori high tech, manifatturiero ed energetico e sono riconducibili alle seguenti tipologie:
– partecipazioni in aziende quotate (intorno al 2%): Eni, Enel, Prysmian, Fca, Telecom, Generali, Saipem, Intesa San Paolo, Unicredit, Monte dei Paschi di Siena, Mediobanca, e Atlantia/Autostrade (quest’ultima al 5%).
– acquisti di titoli del debito pubblico italiano, il cui ammontare è stimato intorno ai 20 mld di euro, investimenti di natura speculativa e precari per definizione;
– investimenti volti ad acquisire tecnologia: Pirelli, Cifa, Ferretti, Parmeestelisa, Krizia, Benelli, Salov, LFoundry, 35% di Reti Snam/Terna di CDP (da parte di State Grid of China), Shanghai Electric 40% di Ansaldo Energia e altri minori;
– investimenti greenfield: pochissimi, in pratica Huawei a Segrate e il centro design per auto a Torino;
– alcune squadre di calcio (Inter e Milan…).
[12] Oggi, dunque, i porti di Genova e Trieste potranno attirare qualche limitato investimento cinese, ma nel Mediterraneo l’hub di riferimento la Cina l’ha da tempo acquisito, investendo 800 milioni di euro nel porto di Atene-Pireo. Quel treno l’Italia l’ha perso per sempre, non essendo riuscita (nei primi anni 2000, con i governi Berlusconi, Prodi e altri) a costruire una proposta viabile per gestire le merci cinesi in arrivo nel Mare Nostrum.
[13]https://www.governo.it/sites/governo.it/files/Memorandum_Italia-Cina_IT.pdf
[14] https://www.mofa.go.jp/region/asia-paci/china/data.html
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