La propaganda “umanitaria” e “democratica” degli Stati Uniti

di Fabio Massimo Parenti

Lo scorso 27 febbraio si aperta a Ginevra, in Svizzera, la 52a sessione del Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU che si protrarrà sino al prossimo 4 aprile. Si tratta del primo appuntamento (febbraio/marzo) del 2023, che prevede, come di consueto, altre due sessioni (giugno/luglio e settembre/ottobre).

Durante il Segmento di Alto Livello, che ha avviato il dibattito, tra i vari rappresentanti governativi nazionali è intervenuto anche il Segretario di Stato americano Antony Blinken, che ha ribadito la posizione dell’Amministrazione Biden in materia di diritti umani, affrontando in particolare le presunte atrocità commesse dalla Russia nella sua “brutale guerra” contro l’Ucraina. Blinken, tuttavia, ha colto l’occasione anche per puntare nuovamente il dito contro la Cina, accusandola per l’ennesima volta di commettere “crimini contro l’umanità” nei confronti dei “musulmani uiguri ed altre persone di minoranze etniche nello Xinjiang”.

Si tratta in realtà di un vecchio refrain, utilizzato da almeno vent’anni dal governo statunitense (e da fondazioni e organizzazioni ad esso riconducibili), al di là del colore politico delle diverse amministrazioni di volta in volta alle redini della Casa Bianca, che è però tornato prepotentemente d’attualità con la strumentalizzazione che il suo predecessore, il repubblicano Mike Pompeo, ne ha fatto negli ultimi due anni di Amministrazione Trump, utilizzando i rapporti dell’antropologo tedesco Adrian Zenz, mai stato nello Xinjiang in tutta la sua vita, e di altri studiosi occidentali, immediatamente recepiti da Stati Uniti e Unione Europea, pur senza verifiche.

Secondo l’accusa, a partire dal 2016, la Cina avrebbe internato arbitrariamente moltissimi cittadini di etnia uigura, maggioranza relativa nella popolazione dello Xinjiang, utilizzando il pretesto della lotta al terrorismo islamista e al separatismo etnico. In realtà, come molti dati mostrano, e come anche numerosi rappresentanti di Paesi a maggioranza musulmana hanno potuto constatare nelle loro missioni diplomatiche in loco, il presunto genocidio etnico e culturale del popolo uiguro, denunciato per trent’anni dagli attivisti Rebiya Kadeer e Dolqun Isa, emigrati molti anni fa negli Stati Uniti, non è mai esistito.

“Nessun paese è titolato a comportarsi da giudice in materia di diritti umani e questi non dovrebbero mai essere utilizzati come pretesto per inserirsi negli affari interni di altri paesi o per bloccare lo sviluppo di altri paesi”, ha risposto nel suo intervento in videoconferenza il ministro degli Esteri cinese Qin Gang, che ha proseguito: “I propositi e i principi della Carta delle Nazioni Unite dovrebbero essere osservati da tutti, e gli scambi e la cooperazione in materia di diritti umani dovrebbero essere portati avanti sulla base dell’eguaglianza e del rispetto reciproco. I tentativi da parte di alcuni di politicizzare, usare come arma o strumentalizzare le questioni relative ai diritti umani dovrebbero essere respinti”.

Ormai da diversi anni, Pechino, in risposta a decenni di ingerenze, boicottaggi e tentativi di destabilizzazione (Hong Kong, Taiwan, Tibet e Xinjiang), pubblica un rapporto sulla situazione dei diritti umani negli Stati Uniti, individuando, dati alla mano, una situazione tutt’altro che invidiabile in quella che si autodefinisce come la più grande democrazia al mondo. Nel rapporto pubblicato a febbraio 2022, relativo al 2021, gli analisti cinesi hanno sottolineato in particolare: l’incapacità della politica americana di affrontare l’ondata pandemica, che ha provocato un numero record di vittime (480.000 nel solo 2021 tanto da provocare un calo dell’aspettativa media di vita pari a 1,13 anni, il peggior dato dalla Seconda Guerra Mondiale); le sparatorie di massa che insanguinano regolarmente i luoghi pubblici nel Paese (693 solamente nel 2021), i frequenti abusi da parte delle forze di polizia, in particolare nei confronti dei migranti e dei rifugiati che cercano di varcare il confine meridionale col Messico (557 vittime nel 2021, il numero più alto dal 1998); l’intensificazione della discriminazione delle minoranze etniche, in particolare degli asiatici (vittime di crimini d’odio in aumento del 361% tra il 2020 e il 2021 nella sola città di New York) ed altro ancora.

Tutti fenomeni di cui si parla molto poco tra i media mainstream occidentali, ma che dovrebbero porre seri dubbi sulla condizione nelle nostre società e sul sempre più illegittimo senso di superiorità democratica che pervade le nostre classi dirigenti. Proprio in tema di democrazia, lo scorso 3 febbraio il Ministero degli Affari Esteri cinese ha pubblicato un rapporto sullo stato della democrazia negli Stati Uniti aggiornato al 2022. Suddiviso in quattro capitoli ed undici paragrafi interni, il documento mette in luce la grande contraddizione esistente tra i numerosi problemi politici, economici e sociali interni al Paese e la narrazione propinata all’estero dall’Amministrazione Biden per rilanciare la retorica dello scontro tra nazioni libere e nazioni autoritarie, intestandosi la leadership del cosiddetto mondo libero. Il rapporto cinese non dice nulla di inedito o di particolarmente sorprendente, limitandosi a prendere spunto dalla stessa stampa statunitense.

“Due anni dopo le rivolte di Capitol Hill del 6 egnnaio 2021, il sistema della democrazia negli Stati Uniti ha ancora difficoltà ad imparare la lezione, mentre il livello della violenza politica continua a crescere e a deteriorarsi”, recita il testo, aggiungendo poco più avanti: “Il Washington Post e il New Yorker rilevano che la democrazia americana è nello stato peggiore di sempre, con i disordini al Congresso che mostrano appieno le spaccature sociali, le divisioni politiche e una rampante disinformazione. I due partiti [principali], sebbene non inconsapevoli delle malattie di vecchia data della democrazia americana, non hanno la soluzione né il coraggio di promuovere cambiamenti, stanti la crescente atmosfera politica polarizzata e l’attenzione che rivolgono ai soli interessi di partito”.

Dalla pesante ombra del lobbismo legalizzato, che per le sole elezioni di medio termine dell’anno scorso ha visto un giro d’affari record superiore a 16,7 miliardi di dollari, al controllo dei social network (es.: liste nere di utenti o argomenti “indesiderati” imposte a Google e Twitter), dall’influenza sui grandi network radiotelevisivi occidentali (es.: oscuramento dell’inchiesta del Pulitzer Seymur Hersh a proposito del sabotaggio dei gasdotti Nord Stream 1 e 2) alla crescente politicizzazione della magistratura (es.: decisioni Corte Suprema sui casi di aborto o di detenzione di armi da fuoco), la decantata democrazia americana sembra ormai entrata in un coma irreversibile di cui sono sempre più consapevoli molti cittadini statunitensi stessi, come mostra un sondaggio condotto congiuntamente dal Washington Post e dall’Università del Maryland, secondo cui la popolazione orgogliosa del proprio sistema democratico è scesa dal 90% al 54% nel corso degli ultimi vent’anni.

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