Jihad islamica, così in 10 anni Parigi è riuscita a rafforzarla

di Mediapart*

da il fatto quotidiano 23 gennaio 2022

Da dieci anni i militari francesi vengono inviati nel Sahel per combattere i gruppi armati jihadisti. Hanno ucciso migliaia di persone (circa 3mila, secondo dati ufficiali) e 59 di loro sono morti. Per portare avanti questa guerra, i leader politici e militari francesi si sono alleati con le milizie locali, correndo il rischio di sconvolgere i fragili equilibri regionali e di sostenere gli autocrati, e quindi di alimentare il sentimento di rifiuto della classe politica che a sua volta rafforza gli stessi movimenti jihadisti che la Francia combatte. Di tutto questo, in Francia non è consuetudine discutere pubblicamente.

I DIBATTITI PUBBLICI sulle grandi scelte di politica estera sono rari, anche quando si tratta di operazioni militari, come Serval, lanciata nel 2013, e Barkhane, dal 2014 al 2022, che hanno mobilitato fino a 5mila soldati, causato migliaia di morti e sono costate centinaia di milioni di euro ogni anno. È di queste zone d’ombra della nostra democrazia che Rémi Carayol si occupa in Le Mirage sahélien, uscito a gennaio in Francia. Il giornalista conosce bene il Sahel, dove ha lavorato per più di dieci anni: “Serval prima, Barkhane poi, hanno permesso in un primo tempo di respingere i jihadisti e di limitarne l’espansione – scrive Carayol nella prefazione –. Ma questa presenza militare ha anche rappresentato un freno alla ricerca di soluzioni alternative, in grado di riportare la pace. Ha permesso inoltre ai dirigenti locali di mascherare le loro negligenze e talvolta li ha confortati in scelte discutibili. La presenza militare francese, progressivamente vissuta come ingerenza neo-coloniale, ha fatto emergere il paternalismo e la condiscendenza dei dirigenti francesi nei confronti degli africani e alimentato il crescente rifiuto dell’ex potenza coloniale”.

In un capitolo del suo libro, Carayol racconta anche come la Francia, dopo aver utilizzato alcuni interlocutori locali per raccogliere informazioni o per farli combattere al fianco dei suoi soldati, sembra poi averli abbandonati. “Bamako, dicembre 2019. Tramite un’organizzazione di difesa dei diritti umani – scrive Carayol –, incontro un vecchio Tuareg che ha partecipato a diverse ribellioni e ora è considerato un saggio nella sua comunità. È vicino all’ala politica della Coordinazione dei movimenti dell’azawad (Cma), una coalizione di gruppi armati, alcuni dei quali si sono battuti per l’indipendenza nel 2012. Quest’uomo – che chiameremo Mohamed –, trascorre il suo tempo tra Kidal, la sua città natale, e Bamako, dove cerca di aiutare i tanti Tuareg che marciscono nelle prigioni. Ha una lista di diverse decine di nomi di uomini che, secondo lui, sono accusati di “terrorismo”, ma che non hanno nulla a che fare con i gruppi jihadisti.

Questi uomini sono ammucchiati nelle celle per mesi, alcuni da anni, senza aver mai visto un giudice. “Sono più di settanta – dice – . Quasi tutti arrestati da Barkhane e consegnati alle autorità maliane” […]. È il caso di uno dei suoi nipoti, che chiameremo Walid, arrestato dai francesi nell’ottobre 2017 e interrogato prima di essere consegnato alle autorità maliane. Walid ha trascorso tre mesi in una cella del campo 1 della gendarmeria, a Bamako, senza materasso né coperta, e senza poter parlare né con un giudice, né con un avvocato o un membro della sua famiglia (che lo credeva morto). È stato poi trasferito nel carcere giudi

Il ribelle Tuareg Walid ha lottato contro gli estremisti ma è stato arrestato: “Che senso ha allearsi con i più forti se non ci proteggono?

ziario centrale, dove ha potuto finalmente vedere un giudice, che lo ha interrogato brevemente. È stato accusato di terrorismo. Per quasi due anni non ha rivisto il magistrato.

NELL’OTTOBRE 2019, UN AVVOCATO gli fa capire che può aiutarlo, ma che bisognerà pagare: “Con 3 milioni esci tra qualche mese – gli spiega – con 10 milioni esci subito”. È così che Walid viene liberato. Quando lo incontro, il giovane si sta ancora riprendendo dalla lunga prigionia. Suo zio Mohamed non capisce perché la Francia si renda complice di tali condotte: “Quando sono arrivati, nel 2013, i francesi erano i benvenuti. Ma oggi, nel Nord, tutti diffidano di loro. Si comportano come i jihadisti: pensano che se non sei con loro, sei contro di loro” […]. Quasi sette anni dopo l’inizio dell’operazione Serval, è finito il tempo in cui si celebrava l’esercito “liberatore”. I soldati francesi sono contestati e persino accusati di essere complici dei jihadisti che stanno combattendo. A Bamako, ma anche a Ouagadougou e Niamey, la bandiera bianca, rossa e blu, brandita con gioia nel 2013, viene strappata e bruciata dai manifestanti […]. “Arrivano in un campo armati fino ai denti, fanno uscire tutti, anche donne e bambini, a volte di notte, a volte alla luce del sole – mi ha spiegato nel 2020 un attivista della regione di Kidal –. Perquisiscono le case e arrestano gli uomini, senza dare spiegazioni”. Alcuni avevano combattuto al fianco dei francesi. Walid è uno di loro. Non ha nemmeno quarant’anni, ma è già un veterano della ribellione Tuareg, alla quale si è unito nel 2006. Entrato nell’esercito dopo gli accordi di pace firmati ad Algeri nel luglio di quell’anno, Walid ha disertato nel 2011 per unirsi ai ranghi del Movimento nazionale di liberazione dell’azawad (Mnla). Si è battuto contro l’esercito maliano in nome dell’autodeterminazione dell’azawad, poi contro i jihadisti di Aqmi e Ansar Dine. Quando i francesi sono arrivati all’inizio del 2013, è entrato nella famosa “unità antiterrorismo” dell’mnla, guidata da Sidi Mohamed Ag Saïd, all’interno della quale Walid era in contatto diretto con gli agenti della Direzione generale della Sicurezza esterna (Dgse) francese. Insieme, hanno dato la caccia ai jihadisti. Poi un giorno, dopo che dei membri della sua unità erano stati uccisi dai jihadisti e ricevendo lui stesso minacce dirette, Walid ha detto “stop” […]. Tre mesi dopo, è stato arrestato dai soldati di Barkhane, nel cuore della notte, interrogato per giorni e consegnato alle forze maliane, che lo hanno accusato di complicità con i jihadisti […]. Il capo di Walid, Sidi Mohamed Ag Saïd ha partecipato alla lotta contro i jihadisti. Alla testa dell’“unità antiterrorismo” dell’mnla, ha combattuto molte battaglie contro le milizie di Ansar Dine e di Aqmi tra il 2014 e il 2016, in collaborazione con l’esercito francese. Nel 2017 ha perso quasi trenta uomini durante l’attacco del suo campo ed è rimasto ferito: “Quel giorno avrebbe avuto bisogno dell’aiuto dei francesi, lo ha chiesto, ma sono arrivati cinque giorni dopo – spiega Mohamed, lo zio di Walid – La Francia usa i nostri figli senza preoccuparsi delle conseguenze. Che senso ha allearsi con i più forti se non ci proteggono?”. È la domanda che si sono posti anche l’msa e il Gatia, due milizie al fianco delle quali le forze francesi hanno combattuto nel 2017-2018 al confine tra Mali e Niger […]. Anche i civili che hanno aiutato come informatori si sono trovati in difficoltà dopo aver collaborato con Serval e Barkhane nel 2013 […]. I jihadisti hanno cominciato a dar loro la caccia. Quando ne scovavano uno, facevano irruzione nella sua casa e lo uccidevano sul posto o lo portavano via prima di ucciderlo. Nel 2016 una fonte Onu mi disse che la Minusma aveva contato almeno venti informatori che avrebbero perso la vita dal 2013 […]. In un video del novembre 2016, intitolato Traîtres 2, Aqmi ha messo in scena una di queste esecuzioni: si vedono due uomini che raccontano come sono stati reclutati dai francesi. Il primo,

Mohamed Ould Boyhi, spiega di essere stato avvicinato da un ufficiale francese, un certo “Guillaume”, e dal suo interprete, “Redouane”, all’inizio dell’operazione Serval, e di essere stato remunerato per reclutare informatori […]. Il secondo, Houssein Ould Bady, ammette di aver fornito informazioni ai francesi che avrebbero permesso loro di trovare depositi di armi e di uccidere i jihadisti. In un atto di pentimento che immaginiamo forzato, i due scoraggiano chi vedrà il film dal commettere gli stessi “errori”. Quindi cade la sentenza: i due vengono condannati a morte per tradimento e spionaggio […]. “Le persone reclutate dalla Francia o dalla Minusma non hanno protezione quando sono in missione sul campo – diceva nel 2016 un parente di Mohamed Ould Boyhi –. E, se muoiono, la loro famiglia non riceve alcun aiuto. Oggi orfani e vedove sono abbandonati a se stessi”.

*Brani del libro di Rémi Carayol, “Le Mirage sahélien. La France en guerre en Afrique. Serval, Barkhane et après?” Éditions La Découverte, 5 gennaio 2023 Traduzione di Luana De Micco

Unisciti al nostro canale telegram