Jean-Luc Mélenchon: un “futuro in comune” sottoposto… alla benevolenza del capitale?

Un delle grandi novità di questa campagna presidenziale francese è la candidatura comunista, che tornano ad essere presenti sulla scheda dopo un’assenza che durava dal 2007. Un anno in cui la segretaria del Pcf Marie George Buffet ottenne il peggiore risultato, non arrivando neanche al 2%. Questa volta i sondaggi danno risultati diversi: il segretario del Pcf Fabien Roussel è partito con sondaggi sotto il 2%, mentre ad oggi alcuni lo danno al 5%.

Tutto questo è però ignorato dalla sinistra italiana, ancora sedotta dai discorsi mirabolanti e radicaleggianti di Mélenchon. Un radicalismo che, come ci hanno insegnato Marx e Lenin, finisce per cadere su politiche molto moderate.

Presentiamo qui una traduzione di un’analisi del programma economico di Mélenchon fatta dal Pcf. Come si vedrà, sotto le parole di radicale rottura, si trovano proposte che non dispiacciono alla Confindustria francese.

Fonte: https://www.economie-et-politique.org

di Denis Durand (Pcf)

Traduzione di Lorenzo Battisti

Dimenticate il ” chiasso ” e il ” furore “! D’ora in poi, Jean-Luc Mélenchon brandisce con orgoglio un brevetto di rispettabilità rilasciato dal presidente del MEDEF (Confindustria francese ndt): “sei pronto a governare”, gli ha detto Geoffroy Roux de Bézieux davanti a due milioni di telespettatori.

Governare, ma per cosa? Il programma del leader degli “Insoumis” contiene un gran numero di proposte sociali ed ecologiche, ma – a differenza del programma di Fabien Roussel La France des jours heureux, che dedica un intero capitolo ai mezzi finanziari per raggiungere sei grandi obiettivi sociali, ecologici e femministi – non è molto esplicito sui mezzi per raggiungerli. In assenza di indicazioni su come verranno prodotte diverse centinaia di miliardi di ricchezza aggiuntiva, la lettura de L’avenir en commun (il programma di Mélenchon e degli Insoumis Ndt) lascia la sensazione che questo programma non sia finanziato, sia in termini di spesa pubblica che di sicurezza sociale o di spesa delle imprese. Per vedere meglio, abbiamo consultato un documento pubblicato il 7 febbraio sul sito melenchon2022.fr e intitolato Comment nous allons atteindre le plein emploi (Come raggiungeremo il pieno impiego Ndt), che ha alimentato il discorso sulle questioni economiche tenuto dal candidato in un incontro a Montpellier il 13 febbraio.

E’ proprio la “piena occupazione” l’obiettivo del programma di Jean-Luc Mélenchon, e non un progetto di sicurezza del lavoro e di formazione per rendere effettivo il diritto universale al lavoro, fino a sradicare la disoccupazione. Il documento è esplicito su questo punto: “la piena occupazione non significa che tutte le forme di disoccupazione scompaiano. Continueranno ad esistere periodi di disoccupazione, tra due contratti” (p. 13). In effetti, la piena occupazione in Francia corrisponde a un tasso di disoccupazione del 7% o più, ovvero diversi milioni di persone.

La strategia economica adottata per raggiungere questo obiettivo è molto chiara: si tratta di uno “shock della domanda” con le sue due componenti tradizionali. La prima di queste è una spinta ai consumi: uno “sblocco” non quantificato del punto di indice per i dipendenti pubblici e “un aumento dello SMIC a 1.400 euro netti, che incide su tutti gli stipendi fino a 2.000 euro, e rappresenterebbe, secondo lo stesso documento, un costo di 1,8 miliardi di euro all’anno per lo Stato”. Quest’ultima indicazione è particolarmente enigmatica. Significa che lo Stato, e non le imprese, sosterrebbe il costo della misura per darla ai datori di lavoro? Ma questo costo, tenendo conto dell’attuale distribuzione dei salari, molti dei quali sarebbero altrimenti al di sotto del nuovo salario minimo, è in realtà molto più alto, dell’ordine di 20 miliardi, cioè dieci volte di più. O dobbiamo intendere che la somma di 1,8 miliardi corrisponde a una riduzione dei contributi sociali, che permetterebbe di aumentare il salario netto senza aumentare il salario lordo, come sostiene per esempio Valérie Pécresse (la candidata della destra Ndt)? Questo sarebbe coerente con l’introduzione di una CSG (i contributi Ndt) progressiva in 14 scaglioni, sostenuta dal programma L’avenir en commun e che apre la strada alla sua fusione con l’imposta sul reddito, anche se, contrariamente alla sua versione del 2017, il programma attuale di Jean-Luc Mélenchon tace cautamente su quest’ultimo punto.

L’altra componente dello shock della domanda sarebbe “un piano di 200 miliardi di euro di investimenti (pubblici) ecologici e socialmente utili, che riempirà per anni i portafogli ordini delle imprese, darà loro visibilità e permetterà loro sia di investire che di assumere”.

Lasciare che i padroni “facciano il loro lavoro”?

Ma chi può garantire che le aziende decidano effettivamente di assumere? Questo è precisamente quello che non fanno oggi quando vengono sommersi dagli aiuti pubblici. Nel suo dialogo con Jean-Luc Mélenchon, il presidente del MEDEF si è divertito molto ad annunciare, in nome della “libertà” degli imprenditori, che in caso di vittoria del suo interlocutore “smetteranno di assumere, smetteranno di investire”. E anche se investono, lo faranno per assumere o per tagliare posti di lavoro e abbassare il costo del lavoro? Non solo non ci saranno i posti di lavoro, i salari e le entrate pubbliche promesse dagli “Insoumis”, ma la sinistra sarà screditata per molto tempo, come dopo il fallimento del 1983, dopo quello del 1997 e dopo quello del 2012.

Come pretende Jean-Luc Mélenchon di fargli cambiare idea? Con una “pianificazione ecologica” che “dia visibilità” agli imprenditori e stimoli la loro voglia di produrre e assumere: insomma, il grande ritorno del “Piano di riduzione dell’incertezza” che aveva fatto miracoli per la redditività dei grandi gruppi privati, da Jean Monnet a Georges Pompidou, prima che il capitalismo monopolistico statale entrasse nella crisi in cui si dibatte ancora oggi.

In una parola, il “keynesianesimo” tradizionale e poco rivoluzionario che il programma “insoumis” rivendica esplicitamente ignora una realtà: il capitale, le sue esigenze di redditività e la legge che impone alla gestione delle imprese. Nulla – né poteri di intervento e decisione dei lavoratori sulle scelte di investimento e di produzione, né nazionalizzazione delle grandi banche e dei grandi gruppi strategici, né azioni concrete per riorientare il credito bancario e la creazione monetaria della BCE, né mobilitazione degli attori economici in conferenze per l’occupazione, la formazione e la trasformazione produttiva ed ecologica – è previsto in questo programma per opporre al capitale un’altra logica, concretizzata in altri criteri.

La parola “nazionalizzazione” non appare da nessuna parte in L’avenir en commun, se non in relazione al ramo dell’energia marina di Alstom e a quello dell’energia eolica offshore di Areva. La creazione di un “polo pubblico” per i farmaci non comporterebbe la nazionalizzazione di Sanofi. Il “polo bancario pubblico” non si baserebbe sulla nazionalizzazione delle banche private, ma su una “socializzazione” delle “banche generaliste”, che, come abbiamo letto nel paragrafo precedente, scomparirebbero per effetto di una separazione tra banche d’affari e banche al dettaglio. Al massimo, la “modulazione dell’imposta sulle società per incoraggiare gli investimenti in Francia e penalizzare il pagamento dei dividendi” conserva una traccia dell’alleanza di Jean-Luc Mélenchon con il PCF nei giorni lontani del Fronte della sinistra. Quando si tratta di “fissare un quadro per le imprese in termini di salario minimo, differenziali salariali massimi, l’imperativo di proteggere i lavoratori”, si tratta solo di “condividere meglio la ricchezza che già esiste” (p. 23 del documento citato). Questo non potrebbe essere più chiaro.

“Garanzia di occupazione: dopo lo “stato sociale”, uno stato ambulanza?

Una volta che si rinuncia ad agire sia sulla domanda che sull’offerta, con il pretesto che “non possiamo contare sull’arbitrarietà del CAC 40 per essere utili al bene comune e creare i milioni di posti di lavoro di cui abbiamo bisogno”, non resta che offrire a 1,8 milioni di disoccupati di lunga durata una “garanzia di lavoro” che consiste nell’assumerli a spese dello Stato e degli enti locali, non come dipendenti pubblici con la formazione necessaria per lavori reali (in particolare per il pre-impiego di giovani badanti o insegnanti), ma in uno status che non è né pubblico né privato, per un orario settimanale “tra le 20 e le 35 ore” e con un budget di 18 miliardi di euro, che corrisponde a un salario medio di 833 euro lordi al mese.

In una parola, rinviando tutta l’applicazione del programma allo Stato e alle finanze pubbliche, mentre fa affidamento, secondo la sua costante dottrina, sulle scelte dei padroni, e quindi del capitale, per l’approvvigionamento e la creazione di ricchezza, Jean-Luc Mélenchon non prevede nulla per sfuggire allo scenario che abbiamo già conosciuto sotto Jospin e Hollande: una denuncia infuocata della “finanza” e delle disuguaglianze sociali, i tentativi di aumentare le tasse all’inizio del mandato, rapidamente spazzati via dalla resistenza di un padronato troppo felice di portare, su questo argomento, la popolazione dalla sua parte, e infine uno schieramento poco glamour a favore delle politiche di austerità e di riduzione del costo del lavoro.

Evitare il ripetersi di queste catene di eventi disastrosi per la sinistra dando forza a un’altra logica economica, a una presa di potere dei lavoratori e dei cittadini sull’uso del denaro delle imprese e delle banche: questa è precisamente l’utilità della campagna di Fabien Roussel, del programma di cui è portatore, e dell’influenza che i milioni di elettori che ora mostrano interesse per la sua candidatura potranno dargli.