di Giulio Chinappi
da https://giuliochinappi.wordpress.com
Il Partito Comunista Iracheno osserva dall’esterno lo svolgimento dei colloqui per la formazione del nuovo governo, e si augura che il nuovo esecutivo persegua una politica estera filocinese nell’ambito della Belt and Road Initiative.
Sono oramai passati quasi quattro mesi dalle elezioni legislative che si sono tenute in Iraq lo scorso 10 ottobre. Ad inizio gennaio, si è anche riunito il nuovo parlamento di Baghdad, ma questo non ha portato a passi avanti circa la formazione di un nuovo esecutivo. Questa situazione è dovuta soprattutto alla grande frammentazione dell’emiciclo, con ben 33 partiti presenti, ai quali va aggiunto il corposo gruppo dei deputati indipendenti.
Secondo la logica e la Costituzione irachena, la formazione dell’esecutivo dovrebbe spettare a Muqtada al-Sadr (in foto), leader del Movimento Sadrista (al-Tayyār al-Sadri), il partito con la maggiore rappresentanza parlamentare, ma i sadristi dispongono solamente di 73 seggi su 329. Inoltre, i sadristi hanno perso il loro principale alleato, il Partito Comunista Iracheno (Al-Ḥizb ash-Shiyūʿī al-ʿIrāqī), che ha deciso di boicottare le ultime elezioni legislative per protestare contro un sistema antidemocratico che non ha garantito la governabilità del Paese e non gode più della fiducia del popolo.
La prima sessione del nuovo parlamento, tenutasi domenica 9 gennaio, è risultata molto caotica, con uno dei deputati più anziani che ha addirittura dovuto abbandonare la seduta in ambulanza in seguito ad un malore. Le scene poco edificanti che si sono viste in quella giornata ben rappresentano il momento critico che sta vivendo la politica irachena, con al-Sadr che non riesce a mettere d’accordo gli altri partiti sciiti per permettere la nascita di un governo. Anzi, gli altri partiti sciiti hanno formato una coalizione in grado di raggiungere gli 88 seggi, affermando così di aver formato un gruppo più numeroso rispetto al Movimento Sadrista, ed invocando dunque il diritto di nominare il nuovo primo ministro.
L’unico accordo che è stato raggiunto è stato quello per la rielezione, con 200 voti favorevoli su 329, di Mohamed al-Halbousi come presidente del parlamento, carica che ricopre dal 2018. Al-Halbousi è il leader del Partito del Progresso (Ḥizb Taqadum), formazione sunnita che è arrivata seconda alle elezioni, conquistando 37 seggi.
Secondo la Costituzione, il parlamento dovrebbe ora eleggere il nuovo presidente del Paese (carica attualmente occupata dal curdo Barham Salih), prima che questi chieda al leader del gruppo parlamentare più numeroso di proporre la formazione del nuovo governo. L’elezione dovrebbe arrivare necessariamente nei prossimi giorni, visto che la Costituzione prevede che la nomina venga effettuata entro un massimo di 30 giorni dalla seduta del nuovo emiciclo.
Secondo quanto affermato ad Al Jazeera dall’analista politico iracheno Zeidon Alkinani, “il principale ostacolo alla formazione di un governo è il disaccordo intra-sciita causato dalla spaccatura tra al-Sadr e il quadro di coordinamento sciita composto da gruppi filo-iraniani come quello dell’ex primo ministro Nūrī al-Mālikī”. Al-Mālikī, capo del governo tra il 2016 ed il 2018, è il leader di Stato di Diritto (I’tilāf Dawlat al-Qānūn), il terzo partito più rappresentato in parlamento, con 33 scranni.
Di fronte a questa situazione molto complicata, al-Halbousi sta tentando di mettere d’accordo il maggior numero di forze politiche per la formazione di un governo di unità nazionale che includa componenti sciite, sunnite e curde. Questo accordo dovrebbe includere sia il Movimento Sadrista che il Partito del Progresso dello stesso al-Halbousi, permettendo dunque il raggiungimento di un’ampia maggioranza assoluta. Ricordiamo che, dalla deposizione violenta di Ṣaddām Ḥusayn, l’Iraq non ha più avuto un governo di maggioranza.
Il Partito Comunista Iracheno, pur trovandosi escluso per propria scelta dalle istituzioni ed auspicando una riforma delle stesse, sta osservando con grande attenzione quanto sta accadendo nel parlamento di Baghdad. “È dovere della Camera dei Deputati e dei suoi membri attenersi ai compiti previsti dalla Costituzione”, avvertono i comunisti iracheni, ricordando che i parlamentari dovranno provvedere “all’elezione del Presidente della Repubblica,all’assegnazione al governo del candidato del blocco più grande e alla presentazione al Parlamento del suo gabinetto secondo i contesti costituzionali”.
Inoltre, il Partito Comunista invita i deputati a legiferare secondo gli interessi e le esigenze del popolo, emanando leggi relative “alla sicurezza sociale, ai diritti umani, al diritto di opinione, alla lotta contro le violenze domestiche, alla tutela dei diritti dei bambini” ed evitando “il rinvio e la procrastinazione, cosa che in passato ha portato ripetutamente alla mancata approvazione da parte del Consiglio di leggi importanti”.
Naturalmente, il Partito Comunista vedrebbe di buon occhio un governo guidato da Muqtada al-Sadr, con il quale aveva formato una coalizione nella precedente legislatura. Inoltre, i comunisti si augurano che il nuovo governo persegua una politica estera orientata verso la Cina, dopo la cessazione delle operazioni militari degli Stati Uniti nel Paese alla fine dello scorso anno. Già nel 2021, secondo quanto pubblicato da Reuters, l’Iraq è stato il primo beneficiario della Belt and Road Initiative con ben 10,5 miliardi di dollari di finanziamenti, precedendo in questa classifica Serbia e Indonesia nella lista di 144 Paesi coinvolti nella BRI.
L’Iraq è anche il terzo partner della Cina in ambito energetico, alle spalle solamente di Pakistan e Russia. Come ricordano i comunisti iracheni, Pechino sta collaborando con Baghdad in progetti di primo piano come la costruzione della stazione Al-Khairat nel governatorato di Karbala, mentre la società cinese Sinopec ha ottenuto un contratto per promuovere lo sviluppo del giacimento di gas naturale di Mansouriya, vicino al confine con l’Iran. I due Paesi stanno anche collaborando per costruire un aeroporto e una centrale solare, dimostrando anche un impegno per la promozione delle energie rinnovabili, dopo che il presidente Xi Jinping si è impegnato a non costruire più centrali a carbone in Paesi terzi.