
di Maria Morigi
A giochi ormai conclusi con la vittoria del cosiddetto “fronte riformista” e il 53% dei voti di Masoud Pezeshkyan (cardiochirurgo ed ex-ministro della Salute del governo Khatami), desidero fare qualche precisazione, un tanto per contraddire inutili entusiasmi e il diffuso scetticismo che trova spazio nei media. Visto che assai poco conosciamo percorsi e metodi della pratica democratica nel Paese persiano di antica cultura e recente rivoluzione (1979) è fuorviante giudicare l’esito elettorale in base a nostri principi e pregiudizi. Eppure la pessima propaganda internazionale occidentale continua a giudicare la politica iraniana servendosi di parametri bipolari e contrapposti (destra e sinistra / conservatori e progressisti) che appartengono alle democrazie occidentali.
Innanzitutto in Iran non esistono Partiti, nel senso che noi diamo al concetto di Partito politico, cioè associazione di persone che hanno una medesima visione, identità, finalità politica di interesse pubblico su gestione dello Stato e della società e su temi specifici (potremmo aggiungere – in base all’osservazione delle risse quotidiane nel nostro Parlamento e delle dichiarazioni dei leader – che neppure da noi i Partiti esistono o hanno legittimità… ma questa è altra questione!) .
In seguito alle riforme costituzionali che, dopo la morte dell’Ayatollah Ruhollah Khomeyni (1989), hanno limitato il potere della Guida suprema e ampliato le prerogative del Presidente della Repubblica, si può parlare per l’Iran di un “pluralismo controllato”. Le istituzioni elettive, pur operanti in un sistema poco flessibile, di fatto garantiscono al Presidente una libertà nell’attività politica, sia in accordo sia in contrasto con il Parlamento. Benché non ci siano veri e propri Partiti, anche in Iran esistono fazioni politiche che somigliano più a organizzazioni o movimenti: oggi sonocirca duecento molto attivi, di cui solo una ventina partecipano alla vita politica del Paese, riuniti in coalizioni in prossimità delle tornate elettorali. Gli schieramenti sono essenzialmente tre: conservatori pragmatici (o moderati), conservatori tradizionalisti, radicali. Non si tratta di fazioni rigide perché spesso si è visto che un conservatore tradizionalista può diventare moderato e pragmatico. Un solo presupposto accomuna tutte le fazioni: la fedeltà al fondamentale principio affermato dalla Rivoluzione khomeinista, cioè il Velayat-e-faqih o ‟supremazia del giureconsulto”, per cui Stato e Religione si identificano in un solo potere.
La fazione dei “radicali” è la più ideologizzata manifestando posizioni anti-occidentali in difesa del codice morale islamico e della necessità di realizzare la giustizia sociale al fine di evitare quella rilassatezza dei costumi considerata tipica del liberalismo occidentale. I radicali sostengono un’economia centralizzata nelle salde mani dello Stato. Tali istanze trovano maggiore seguito tra le classi povere, tra gli studenti delle Università e tra i Pasdaran.
I conservatori tradizionali o principalisti sono fedelissimi dell’ideologia rivoluzionaria khomeinista, con la differenza che appoggiano l’iniziativa economica privata vicina agli interessi della classe mercantile, quella dei cosiddetti bazarì che sono sempre stati – come forza liberale – accanto al clero e alla Velayat-e-faqih, base dottrinale della Repubblica islamica. Il fronte principalista – rivoluzionario in politica estera dà la priorità ai legami con i Paesi della regione mediorientale e vuole un Iran forte e indipendente in vista della transizione verso un nuovo ordine globale multipolare.
I conservatori pragmatici o “moderati” e riformisti preferiscono strumenti diplomatici in politica estera, evitando proclami e contrapposizioni accese, e praticando un approccio moderato verso l’Occidente; in politica interna sono a favore di privatizzazioni, libera iniziativa ed aperture sociali con concessioni di libertà nell’applicazione del codice morale islamico.
E comunque è interessante osservare che TUTTI i Presidenti, da Hashemi Rafsanjani (1989-1997) a Mohammad Khatami (1997-2005) a Mahmoud Ahmadinejad (2005-2013) a Hassan Rouhani (2013-2021) fino a Ebrahim Raisi morto in un incidente di elicottero nel nordovest dell’Iran in maggio scorso, sono catalogati come “conservatori pragmatici e riformisti”. Le differenze che provocano il giudizio occidentale (e le critiche)sono relative ad argomenti quali il programma nucleare iraniano, le posizioni assunte nei confronti degli Stati Uniti e di Israele e infine le questioni ingigantite dalla propaganda occidentale dei diritti umani, in primis la questione del velo muliebre. In realtà tutti i presidenti hanno avuto l’obiettivo di ricostruire economia e consenso sociale negoziando accordi su reciproche concessioni e intese con vicini regionali ed Europa. Persino Ahmadinejad, rappresentato come un demonio dall’Occidente per le sue uscite nazionaliste e giustizialiste, andava democraticamente in tram al suo ufficio di Presidente, era iscritto ad Abadgaran, il gruppo conservatore ‟Costruttori dell’Iran islamico”, non assolutamente catalogabile come di sinistra, poiché in Iran esiste una sola fedeltà, quella alla Rivoluzione del 1979.
Anche l’elezione nel 2021 di Ebrahim Raisi quale 8º Presidente della Repubblica Islamica dell’Iran, fu criticata dalla propaganda occidentale che gli ha affibbiato il nome di “macellaio di Teheran” perché fedelissimo dell’ Ayatollah Khamenei e, neanche a dirlo, catalogato come “pessimo conservatore” (mentre ci sarebbe da chiedersi se in Iran esistano i “progressisti”!). Raisi infatti, alla fine della guerra con l’Iraq, fece parte del comitato voluto da Khomeyni per processare gli oppositori politici, tra cui i membri dei Mujaheddin del popolo iraniano (MEK) gruppo terrorista e jihaedista cui è imputato l’assassinio di circa 12.000 iraniani negli ultimi 40 anni e che ancora oggi – foraggiato e sostenuto dall’Occidente – continua dall’estero a predicare il crollo della Repubblica islamica dell’Iran.
Quanto alla questione femminile e a tutte le polemiche seguite alla morte di Mahsa Amini, faccio osservare che in Iran le donne laureate, indifferentemente dalla materia, sono il 49% del totale di laureati, ma questa cifra sale al 70% nelle discipline STEM (Science, Technology, Engineering e Mathematics), come anche rileva la sociologa Saadia Zahidi, nel suo libro Fifty million rising: The New Generation of Working Women Transforming the Muslim World.
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