Il partito comunista cinese e il controllo sui mezzi di produzione: le imprese pubbliche industriali dal mercato alla sfida tecnologica

riceviamo e pubblichiamo

di Giordano Sivini

Introduzione

Il controllo del partito comunista sui mezzi di produzione è uno dei fondamenti della Costituzione materiale della Cina (Sivini 2022), architrave del sistema di potere della Repubblica Popolare dal momento della sua fondazione ad oggi, al di là dei cambiamenti delle sue basi strutturali. Mao Zedong (1949-1976) aveva cercato di realizzare una struttura nella quale i rapporti sociali di produzione improntati al socialismo egalitario avrebbero dovuto condizionare lo sviluppo delle forze produttive. Deng Xiaoping (1978-1992), che gli succedette, operò affinché la costruzione del socialismo si basasse sulla redistribuzione di una ricchezza realizzata da forze produttive mosse dalla competizione tra soggetti attivi nel mercato. Questa dinamica cambiò i rapporti sociali di produzione, aprendo la strada alla generalizzazione di una loro configurazione capitalistica, che Jiang Zemin e Zhu Rongji (1993-2003) contribuirono ad istituzionalizzare, e che tuttora permane. Socializzazione, statizzazione e capitalizzazione sono le modalità che, in queste diverse fasi della storia della Cina, hanno realizzato il controllo sui mezzi di produzione da parte del partito comunista.

In un recente libro pubblicato in Messico, Barry Naughton – statunitense, tra i maggiori studiosi occidentali della Cina – ha sostenuto che da Deng in poi, per una lunga fase, la crescita del paese è stata prodotta dal mercato e non dai governi e dal partito. I piani quinquennali sono rimasti incompiuti o sono falliti, e gli interventi statali hanno mirato, con scarsi risultati, a rendere le imprese pubbliche efficienti in termini di mercato. L’affidamento al mercato ha però intaccato le capacità produttive cinesi rispetto a quelle occidentali, e, per por rimedio al gap tecnologico, sono stati elaborati tardivamente piani, implementati dopo la grande crisi finanziaria. Le riflessioni sulle problematiche tecnologiche hanno finalmente portato a superare l’approccio settoriale, con un piano di politica industriale di lungo periodo incentrata sulle potenzialità trasformative delle nuove tecnologie. Con questo piano – conclude Naughton – “la Cina aspira ad essere la prima economia di mercato guidata governo” (Naughton 2021).

In realtà, nel periodo della dipendenza dal mercato, in un contesto caratterizzato da decine di migliaia di imprese, piccole, medie, grandi, che perseguivano propri obiettivi, il partito e il governo si erano impegnati a costruire un settore industriale pubblico capace di competere sul mercato capitalistico. Avevano sostenuto attivamente le imprese che nei settori strategici coglievano dal mercato gli stimoli ad innalzare la propria competitività attraverso il coordinamento con altre imprese a monte e a valle, fino a formare una squadra di ‘campioni nazionali’, fatta di conglomerati industriali pubblici pronti – con l’ingresso nell’Organizzazione Mondiale del Mercato – per le operazioni globali.

Di questa formazione sono esposti qui i tratti essenziali, mettendo in evidenza che è un presupposto essenziale per l’elaborazione successiva della politica industriale.

Conglomerati e imprese statali

Nel 2022 i 97 conglomerati industriali centrali di Stato, che sono la spina dorsale dell’economia cinese, hanno realizzato un aumento dell’utile operativo del 8,3 per cento e un profitto netto del 5,0 rispetto all’anno precedente. I tassi sono superiori al 3,0 per cento del PIL nazionale, e “questo è, negli anni recenti, il requisito delle imprese centrali per servire da stabilizzatrici della crescita del paese”, ha sottolineato Peng Huagang, segretario generale della SASAC (Commissione per la supervisione e amministrazione dei beni statali), in una conferenza stampa il 20 gennaio 2023. Gli investimenti per ricerca e sviluppo sono aumentati del 9,8 per cento, la produttività del lavoro dell’8,7; il contributo al bilancio pubblico del 19,3. Peng, illustrandone l’attività, ha posto l’enfasi sulla realizzazione di grandi progetti e sul coordinamento con le piccole e medie imprese per una gestione congiunta di crediti e debiti. L’obiettivo generale è stato di rafforzare il benchmarking internazionale delle imprese pubbliche cinesi (Zhihua 2022).

I 97 conglomerati fanno capo alla SASAC, ente che per conto del governo sovrintende a tutte le imprese statali centrali, e supervisiona quelle locali. Nel complesso si tratta di 130 mila unità produttive non finanziarie con un patrimonio di circa 30 mila miliardi di dollari, dei quali il 40 per cento è controllato dal governo centrale e il resto dai governi locali. La costituzione della SASAC, nel 2003, ha segnato una svolta nella storia delle modalità di gestione del partito comunista sulle imprese industriali pubbliche. Nel passato Deng Xiaoping aveva cercato di migliorarne l’efficienza; Jiang Zemin e Zhu Rongji ne avevano chiuse o privatizzate quelle deficitarie; con le altre erano state gettate le basi per lo sviluppo dei conglomerati, la cui forza competitiva complessiva è diventata obiettivo del nuovo ente.

Le imprese nel mercato

Il movimento rivoluzionario guidato da Mao Zedong aveva liberato la Cina dall’occupazione giapponese. Aveva spinto i contadini ad appropriarsi della terra e ad accrescerne con il lavoro collettivo la produttività necessaria per il loro sostentamento e per quello degli operai dell’industria. Le fabbriche impiantate dai giapponesi e da altri capitali esteri erano state occupate e rimesse in produzione sotto la guida di tecnici sovietici, che avevano anche contribuito ad impiantarne delle altre. Secondo Mao la Cina avrebbe dovuto crescere facendo leva sulle risorse interne e sul rapporto diretto tra produttori e mezzi di produzione, sotto la guida del partito comunista. Le Comuni erano la forma più avanzata della socializzazione in agricoltura. Nell’industria questo obiettivo fu affrontato solo dopo l’abbandono dei tecnici sovietici, “poiché – spiegò Mao – non capivamo queste cose, non ne avevamo assolutamente esperienza, e, nella nostra ignoranza, ciò che potevamo fare era importare metodi stranieri”. Mao stesso preparò un documento approvato dal partito, che puntava sull’autogestione della produzione. Avrebbe dovuto basarsi su una condivisione egalitaria di informazioni, conoscenze e ruoli tra lavoratori, tecnici e dirigenti all’interno di piccoli gruppi, nel quadro di una attività pianificata dalle assemblee di fabbrica, con l’obiettivo di lungo periodo di arrivare ad una struttura di produttori associati che controllava i mezzi di produzione e condivideva il plusprodotto. La rivoluzione culturale, alla quale peraltro non erano estranee queste prospettive, impedì che fosse avviata la trasformazione della struttura industriale.

Dopo la morte di Mao, il terzo plenum del partito comunista, nel 1978, operò una profonda riforma dell’agricoltura distribuendo la terra in usufrutto alle famiglie contadine; non toccò invece il settore industriale. Deng Xiaoping, succeduto a Mao nella leadership del partito, si trovò con un patrimonio pubblico di 25 mila grandi imprese per lo più controllate dal governo centrale, 40 mila medie e piccole dai governi provinciali, e 50 mila da governi di livello inferiore. Erano insediate in spazi urbani e continuavano a mantenere la configurazione del periodo maoista. Quelle più grandi comprendevano, oltre alla fabbrica, alloggi per dipendenti e famiglie, asili nido, scuole, servizi amministrativi, medici e ricreativi; i figli potevano subentrare ai genitori, che rimanevano nell’unità di lavoro fino alla fine della vita.

Queste imprese, che nel periodo di Mao erano inserite in un sistema pianificato, vennero statizzate e poste sotto la responsabilità del governo centrale e dei governi locali. Nel 1984 la loro gestione venne attribuita ai rispettivi direttori sulla base di contratti di responsabilità; potevano trattenere gli utili ma dovevano contare sul credito bancario anziché sui sussidi governativi, e farsi carico degli oneri di riproduzione dei lavoratori (solo le nuove assunzioni erano regolate da contratti individuali). Non riuscirono ad essere competitive con le imprese collettive e individuali fiorenti nell’ambiente rurale riformato, che utilizzavano invece la forza lavoro dei migranti dalle campagne. La sua crescente disponibilità attrasse in misura crescente anche capitali stranieri produttivamente più avanzati, selettivamente accolti in Cina purché apportassero nuove tecnologie e fossero orientati alla produzione per l’esportazione.

Il decentramento legislativo e finanziario ai governi locali voluto da Deng contribuì all’effervescenza economica, ma creò problemi. Vennero affrontati da Zhu Rongji con un riassetto istituzionale complessivo che tenne conto della necessità di allentare il peso delle imprese di Stato sul bilancio pubblico, e, sul lungo periodo, dalla volontà di accedere all’Organizzazione Mondiale del Commercio. Le imprese statali deficitarie piccole e medie vennero privatizzate o chiuse; tra il 1993 e la fine degli anni ’90 almeno 45 milioni di persone persero il lavoro. Per poter intervenire sulle imprese maggiori il governo eliminò diversi ministeri centrali che opponevano resistenza. Applicò la legge generale sulle società del 1993, che imponeva loro di darsi una configurazione preferibilmente azionaria, e la legge sul lavoro del 1995, che legava tutta l’occupazione a rapporti contrattuali individuali. Fece chiudere o privatizzare le imprese deficitarie; le altre dovettero licenziare i dipendenti per riassumere solo quelli ritenuti non in esubero rispetto agli obiettivi produttivi. Tra il 1998 e il 2000 queste imprese di Stato passarono da 65 mila a 42 mila, con 13 milioni di persone rimaste senza lavoro.

Al riassetto istituzionale aveva contribuito la Banca Mondiale, la quale aveva puntato sulla completa privatizzazione delle imprese pubbliche. Con rammarico non c’era riuscita: “la Banca ha lasciato il governo ‘al posto di guida’, con tutto ciò che implica per le proprietà e le prestazioni del paese”, si legge nell’autovalutazione dell’intervento. “La spiacevole conseguenza è che quando gli attori chiave del governo non sono disposti a collaborare con la Banca, questioni importanti non vengono affrontate (World Bank 2005).

Capitalizzate tutte quanto a forma azionaria, in gran parte risanate e rese più competitive rispetto ai capitali esteri, restava da definire l’assetto proprietario delle imprese superstiti. Il problema venne posto nel 2002 al sedicesimo congresso del partito, dove fu prospettato un sistema di compartecipazione azionaria dei governi locali e di quello centrale. L’anno successivo Zhu Rongji costituì invece la SASAC con il ruolo di azionista generale per conto del governo centrale, mentre i governi locali provvedevano in modo analogo per le proprie imprese.

La formazione del settore strategico

La selezione delle grandi imprese voluta da Rongji e la soluzione SASAC concludono il processo di formazione del settore industriale pubblico strategico. Nel corso degli anni ’80, come risultato della crescente autonomia imprenditoriale e delle pressioni competitive interne, si erano moltiplicati gli accordi di cooperazione tra imprese di Stato, che, raccolte attorno a quelle più grandi, davano vita a gruppi di interesse, oggetto di trattamenti governativi privilegiati. La strada era stata indicata alla fine del 1987 dalla commissione per la pianificazione. Nel 1991 una direttiva governativa aveva preso atto della attività sperimentale di 57 gruppi economicamente rilevanti, e aveva indicato le condizioni e gli obiettivi per realizzarne altri: superare la dispersione geografica, abbattere le barriere provinciali, favorire le incorporazioni e le fusioni, sviluppare la capacità di attrazione degli investimenti; puntare al miglioramento della qualità.

Una seconda direttiva governativa arrivò nel 1997. Considerava sostanzialmente raggiunti gli obiettivi relativi ai 57 gruppi definiti dal primo documento, e dava indicazioni per continuare, sempre sostenuta dal governo, la sperimentazione in corso da parte di altri 67 gruppi. Puntava ad una crescita concentrata sui settori chiave dell’economia e poneva l’enfasi sulla competitività internazionale. Ne definiva l’articolazione; raccomandava di evitare ‘matrimoni forzati’ indotti da fattori extraeconomici; ampliava la funzione delle società capogruppo nella formulazione delle strategie, nell’allocazione delle risorse finanziarie e tecnologiche, nell’utilizzazione di capitali per progetti al di sotto di 30 milioni di dollari, nella quotazione delle partecipate sui mercati nazionali ed esteri, nell’emissione di obbligazioni societarie, nella creazione di centri tecnologici e di ricerca all’interno dei gruppi. Il documento, infine, aumentava il numero di settori e di provincie su cui sviluppare l’intervento, e apriva alla partecipazione di imprese private. Sottolineava la necessità che i gruppi e le imprese componenti fossero entità giuridiche definite secondo le norme del 1993.

Al momento dell’ingresso della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio, nel 2001, questi gruppi erano considerati ‘campioni nazionali’. Coprivano i settori dell’economia considerati strategici, e costituivano la spina dorsale della struttura produttiva del paese. In molti settori coesistevano più gruppi nazionali – tre in quello petrolifero, altrettanti nelle telecomunicazioni, cinque nel settore energetico, tre nel trasporto aereo, e così via. All’interno di ciascun settore, i gruppi erano in competizione sul mercato interno, ma erano incoraggiati dal governo a collaborare quando operavano su quelli esteri.

Ogni gruppo faceva capo ad una grande impresa ‘madre’ con un capitale superiore a 100 milioni di yuan, che deteneva una quota di controllo di almeno cinque altre imprese. Nella terminologia locale questo era il livello ‘vicino’ del gruppo. Le imprese in cui la madre aveva una partecipazione di minoranza erano definite ‘semi-vicine’. A loro volta quelle vicine o semi vicine potevano possedere partecipazioni in altre imprese, ed alcuni gruppi ne avevano a centinaia. Almeno una impresa del gruppo doveva essere quotata in borsa, ed era questa che in genere si interfacciava con l’estero. A dare consistenza ad un gruppo erano le sinergie tecnico-produttive, e al suo interno venivano creati istituti di ricerca e imprese commerciali e finanziarie con funzioni di servizio. In Cina, alle banche era vietato detenere partecipazioni in società industriali, e i gruppi erano scoraggiati (sebbene fosse legalmente consentito) dall’avere partecipazioni di controllo nelle banche.

Alla SASAC venne affidata, al momento della costituzione, la direzione di 196 gruppi, conglomerati non finanziari facenti capo al governo centrale, comprendenti 34.280 imprese. Per altri gruppi operanti nelle provincie, vennero creati dai governi locali organismi analoghi. La SASAC iniziò con un programma mirante a migliorare il governo societario delle imprese, ad aumentare l’efficienza economica del sistema attraverso il coordinamento settoriale delle attività, e a sostenere la partecipazione agli appalti del governo per la infrastrutturazione del paese e per le iniziative all’estero. Proseguì su questa linea nel primo decennio, recependo i segnali del mercato interno e internazionale. Continuò a stimolare la centralizzazione e la concentrazione delle imprese, approvando numerose acquisizioni e fusioni, con l’obiettivo di migliorare la competitività ed incidere sulla sovracapacità produttiva. Nel 2010 i conglomerati erano ridotti a 121 a cui facevano capo 23.738 imprese.

Il governo utilizzava varie misure per sostenere le imprese statali: barriere amministrative, tecniche e regolamentari, accesso preferenziale al credito bancario, facilitazioni per l’utilizzazione dei terreni e per le quotazioni pubbliche su borse valori nazionali, appalti, sostegno a fusioni e acquisizioni anche internazionali. Queste ultime erano parte della strategia ‘go global’ di espansione all’estero, avviata dal governo fin dai primi anni 2000, che in pochi anni aveva fatto della Cina il secondo paese per flussi di investimenti esteri in uscita, per l’80 per cento realizzati da imprese di Stato. La prosecuzione nell’ambito del programma transcontinentale ‘One Belt One Road’ lanciato nel 2013 da Xi Jinping, mise ordine ad una situazione caratterizzata da interessi burocratici sovrapposti e da obiettivi commerciali e strategici concorrenti, costringendo i conglomerati a partecipare finanziariamente alla realizzazione dei progetti.

Le riforme di Xi Jinping

A partire dal 2003 il prodotto interno lordo era cresciuto per un quinquennio: 10,0, 10,11, 11,4, 12,7, 14,2. Dopo la grande crisi finanziaria, tra il 2008 e il 2011 si era aggirato sopra il 9 per cento: 9,7, 9,4, 10,6, 9,6. In questi anni la Cina fungeva da fabbrica del mondo. La gestione del paese era in mano al governo. Con Jiang Zemin presidente, Zhu Rongji aveva realizzato le riforme istituzionali definendo la linea di politica economica, e, dopo di lui, con Hu Jintao presidente, Wen Jiabao aveva avuto un ruolo altrettanto rilevante; entrambi si erano mossi nel quadro degli orientamenti di fondo del partito comunista, che invece, secondo alcuni, sembrava vivesse in uno stato di atrofia (Blanchette 2019). Con XI Jinping il rapporto tra governo e partito cambiarono. Con la sua presidenza, fu il terzo plenum del 2013 a mettere a fuoco una batteria di problemi che soprattutto il partito avrebbe affrontato negli anni successivi.

Le imprese di Stato erano tra i problemi più rilevanti. Riguardavano le loro funzioni rispetto alle esigenze economiche del paese e il ruolo della SASAC; il loro rapporto con i capitali privati, e la presenza del partito comunista al loro interno. Passi sostanziali per affrontarli operativamente vennero compiuti con la presentazione congiunta del partito e del governo delle Guiding Opinions on Deepening the Reform of State-Owned Enterprises nel 2015, lo stesso anno in cui fu lanciato dal governo il piano di politica industriale Made in China 2025.

Le imprese statali furono classificate in tre categorie al fine di definire i rapporti con i capitali privati e con lo Stato, nonché i criteri generali per la loro valutazione. Quelle ‘commerciali’ operanti in settori competitivi avrebbero potuto aprirsi all’azionariato privato; quelle ‘commerciali speciali’ dei settori strategici sarebbero rimaste sotto controllo statale; quelle che svolgono funzioni sociali e forniscono beni e servizi pubblici avrebbero potuto decidere se diversificare la proprietà o rimanere sotto la protezione dello Stato. Il governo avrebbe potuto ridurre il sostegno alle prime, facendole competere con il settore privato, aumentando le risorse per le altre. La performance sarebbe stata valutata sulla base della competenza e profittabilità per le imprese competitive, e di indicatori di qualità per quelle sociali. Il processo sarebbe stato implementato dalla SASAC centrale e da quelle locali.

La SASAC, d’altra parte, venne riorganizzata per passare da una ‘gestione delle imprese’ ad una ‘gestione del capitale’. Diventarono State Capital Investment and Operating Companies (SCIO) le imprese di primo livello con grandi capitali, alle quali fu attribuita la responsabilità per le altre attraverso una diretta partecipazione azionaria. La SASAC si riconfigurò come organizzazione piramidale a tre livelli di intensità di capitale; e furono gli azionisti – non più i manager – a decidere. “La ‘gestione delle imprese’ prestava maggiore attenzione agli indicatori di funzionamento e di produzione, che potevano facilmente portare alla cieca ricerca di rendere le imprese più grandi. La ‘gestione del capitale’ (…) impone modalità di sviluppo in termini di qualità, efficienza e potere” (Peng 2019). Con questa nuova configurazione, la SASAC attraverso le SCIO è in grado di mobilitare le risorse finanziarie per investimenti funzionali allo sviluppo industriale nel quadro dei piani nazionali. Un sistema simile funziona per le imprese gestite dai governi locali. Nel 2016 la direttiva è di concentrarsi sul rafforzamento dei settori strategici definiti prioritari nel 13° piano quinquennale 2016-2020 (apparecchiature di fascia alta, tecnologia dell’informazione, biotecnologia, aviazione e aerospaziale, nuove energie, nuovi materiali, risparmio energetico, protezione ambientale).

L’apertura della proprietà statale alla partecipazione di capitali privati era uno degli obiettivi del terzo plenum del 2013. Le difficoltà nell’implementazione erano emerse subito con la contrapposizione tra le proposte del Ministro delle Finanze e della SASAC (Naughton 2014), così che l’apertura venne decisa nel 2016, incontrando quasi subito un nuovo inciampo. La China Securities Regulatory Commission impose un limite di partecipazione azionaria del 20 per cento, considerando eccezionale e non ripetibile il 37 per cento sottoscritto dai colossi privati Alibaba, Tencent, Baidu, China Life Insurance, per entrare in China Unicom, terzo operatore cinese di telecomunicazioni, scelto dal governo per sperimentare la riforma (Wang 2018).

Nonostante queste difficoltà, le ragioni dell’apertura sono spiegate da Hao Peng presidente della SASAC: “Indipendentemente dal fatto che siano imprese statali o private, sono tutte imprese cinesi. Promuoveremo fermamente l’integrazione da monte a valle di imprese grandi medie e piccole con varie strutture proprietarie, e lo sviluppo coordinato e innovativo di varie entità di mercato per costruire congiuntamente un gruppo di imprese di livello mondiale” (Xi 2020). La rassicurazione è stata interpretata da alcuni come superamento della dicotomia pubblico-privato (Blanchette 2020), ma Peng sembrava piuttosto riferirsi a forme di convergenza operativa nell’interesse nazionale. Non a caso le dichiarazioni di apertura erano state accompagnate nel 2020-21 da una stretta (indagini antimonopolio, pesanti multe e nuove norme sulla privacy) che aveva riguardato le grandi piattaforme internet come Alibaba, Tencent, Didi e Meituan. “Il governo ha chiaramente segnalato di preferire che le aziende tecnologiche cinesi si impegnino nell’innovazione industriale, piuttosto che abusare del potere tecnologico per arricchirsi” (Feng 2022).

Un altro obiettivo realizzato è l’istituzionalizzazione dei comitati del partito comunista all’interno delle imprese di Stato e, di seguito, la presenza in quelle private. Il partito è sempre stato presente nella governance delle imprese pubbliche attraverso il sistema di reclutamento e valutazione dei manager del dipartimento di organizzazione. Ora la responsabilità della governance diventa collettiva, e gli statuti delle imprese devono definire le posizioni dei comitati rispetto ai manager, dal momento che partecipano al processo decisionale, e nelle questioni importanti hanno un potere di veto. Xiao Yaqing, direttore della SASAC rileva che “in un’impresa statale il capo del comitato di partito tende a presiedere il consiglio di amministrazione”. Aggiunge che nei comitati sono coinvolti 800 mila iscritti al partito e che nelle imprese pubbliche ci sono dieci milioni di iscritti su 40 milioni di lavoratori, così che questo è “il fondamento di classe più solido e affidabile del partito comunista per governare il paese” (Wu 2017).

La China Securities Regulatory Commission nel 2018 ha pubblicato il codice di governo per le società quotate pubbliche e private. Prevede che al loro interno debba esserci un’organizzazione di partito. Già in molte esistevano cellule di partito che per lo più svolgevano funzioni sociali per i lavoratori. Ora le linee guida puntano, con la presenza dei comitati, a rafforzare la fiducia degli imprenditori verso il partito comunista per migliorare la loro di corporate governance finalizzandola alla costituzione di un moderno sistema imprenditoriale con caratteristiche cinesi” (Doyon 2021).

La politica industriale dal mercato al governo

Dopo l’ingresso nell’Organizzazione Mondiale del Commercio la Cina ottenne risultati strepitosi in termini di prodotto interno lordo, realizzati soprattutto con le esportazioni. Tuttavia la nuova leadership di Hu Jintao e Wen Jiabao (2003-2013) dovette constatare che il perseguimento della crescita della produttività attraverso le tecnologie importate da un mercato dominato dalle multinazionali creava alle imprese cinesi crescenti problemi di competitività. Con il piano quinquennale 2006-10 Jiabao impostò una strategia rivolta a spostare il modello economico dalle esportazioni alle innovazioni produttive e ai consumi, e predispose piani di intervento in sette settori strategici che dovevano essere tenuti sotto ‘assoluto controllo’ (difesa, elettricità, petrolio e prodotti petrolchimici, telecomunicazioni, carbone, aviazione civile, e navigazione), e in altri in cui si sarebbe dovuto mantenere una ‘influenza piuttosto forte’ (metalli di base, acciaio, prodotti chimici, costruzioni). Nel contempo affrontò specificatamente il problema generale della competitività industriale con un approccio inedito mirante ad individuare scientificamente gli elementi più rilevanti del gap tecnologico, e le possibili soluzioni in termini di ‘indigenous innovation’. Occorreva mirare all’innovazione che, secondo la definizione del governo, si ottiene “attraverso la co-innovazione e la re-innovazione basata sull’assimilazione di tecnologie importate”(McGregor 2010). Nel 2006 fu varato un programma scientifico-tecnologico quindicennale (Medium-to Long-Term Plan for Science and Technology, MLP) articolato in sedici megaprogetti.

Quasi subito il governo dovette fare i conti con il rallentamento dell’economia a causa della crisi finanziaria globale. Dalla crisi si rafforzò nella leadership cinese la convinzione che il partito e il governo dovevano guidare le dinamiche economiche del mercato. Venne rifinanziato il MLP, varato un pacchetto di ‘rivitalizzazione industriale’ per dieci settori per lo più tradizionali, e nel novembre 2009 venne anche annunciata un’iniziativa sulle industrie strategiche emergenti (Strategic Emerging Industries, SEI), avviata l’anno successivo. “Nel 2000, il principio guida del governo era stato che le forze di mercato avrebbero guidato il processo decisionale e che queste forze avrebbero determinato in ultima analisi lo sviluppo settoriale dell’economia. Nel il 2010 principio guida era che le priorità settoriali delineate nel SEI avrebbero orientato a tutti i livelli il processo decisionale del governo, il quale avrebbe guidato le imprese a seguire queste direzioni” (Naughton 2021). In quei settori, secondo il governo, non c’erano forti interessi da contrastare a livello globale, e sarebbe stato possibile occupare posizioni dominanti.

A differenza dei megaprogetti, concepiti entro una ‘strategia di recupero’ (Naughton), il programma SEI, di durata quindicennale, puntava sullo sviluppo di attività produttive ad alta intensità tecnologica, basso consumo di risorse materiali, alto potenziale di crescita e spiccati vantaggi sociali; il governo centrale avrebbe contribuito ad incentivarlo con il 5-15 per cento dei costi, e le imprese e i governi locali avrebbero dovuto realizzarlo. Ad un anno dall’avvio, 31 province e comuni erano concentrati sullo sviluppo di nuovi materiali e nuova industria energetica; 30 sull’industria biologica; 29 sulle apparecchiature di fascia alta per l’industria manifatturiera; altrettanti sull’industria ambientale a risparmio energetico; 28 sulla tecnologia dell’informazione; 18 sulla nuova energia per l’industria automobilistica (Jiang 2013).

La sfida tecnologica di Xi Jinping

“Tuttavia mancava ancora una logica che legasse insieme i singoli settori” (Naughton). Questo imponeva una svolta nella concezione della politica industriale, che superasse il condizionamento che il mercato continuava ad esercitare. Venne realizzata sotto la leadership di Xi Jinping, preceduta tuttavia nel 2015 dal piano Made in China 2025, presentato dal governo per segnare la volontà di passare dalla produzione ad alta intensità di lavoro a quella ad alta capacità tecnologica. Indicava i settori nei quali la Cina si prefiggeva di diventare leader tecnologico mondiale: aerospaziale, biotecnologico, informazione e comunicazione, produzione intelligente, ingegneria marittima, ferrovia avanzata, veicoli elettrici, apparecchiature elettriche, nuovi materiali, biomedicina, macchine e attrezzature agricole, prodotti farmaceutici, e produzione di robotica. Molti di questi settori erano dominati da società occidentali, e il piano, pur simile per certi versi all’Industria 4.0 della Germania, e pur con una tempistica di lungo periodo, fu interpretato all’estero come una sfida, inducendo i governi occidentali, in difesa degli interessi costituiti, a considerare la Cina rivale sistemico.

La svolta rispetto al mercato avvenne l’anno dopo con Innovation-Driven Development Strategy (IDDS), piano di lungo periodo articolato in tre tappe, presentato assieme da partito e governo. Lo sviluppo industriale non veniva più concepito a partire dalla struttura settoriale del mercato, bensì dalle potenzialità tecnologiche di innalzamento della produttività fino a trasformare l’economia e la società. “Si sta accelerando – rilevano partito e governo – un nuovo ciclo di rivoluzione tecnologica globale, di cambiamento settoriale e di cambiamento militare. L’esplorazione scientifica si sta dispiegando ad ogni scala, dal microscopico al cosmologico. Un gruppo di nuove tecnologie rivoluzionarie, che sono intelligenti, ecologiche e onnipresenti innescheranno importanti aggiustamenti nella divisione internazionale del lavoro, rimodellando il panorama competitivo globale e cambiando la forza relativa delle nazioni (…). I driver di sviluppo tradizionali si stanno progressivamente indebolendo e la modalità di crescita espansiva è difficile da sostenere” (Xinhua 2016).

Il nuovo orizzonte è quello di tecnologie che si basano sul triangolo ‘comunicazione – dati – intelligenza artificiale’. Interagendo, si rinforzano, creando un’unica tecnologia general purpose che riguarda ogni area della società e dell’economia. Naughton esemplifica: “5 G consente la perfetta integrazione di reti globali e locali. Crea opportunità per numerose reti locali con una latenza prossima allo zero, che consentono cose come la chirurgia remota in tempo reale. Sono fondamentali anche per lo sviluppo di veicoli senza conducente e di controllo del traffico realmente intelligente. I dati vengono sempre più generati da enormi reti di sensori di ogni tipo, dai satelliti alle telecamere stradali. Man mano che i sensori proliferano, i dati proliferano a una velocità esponenzialmente maggiore, poiché ogni sensore crea un flusso continuo di dati. Le tecniche per elaborare i dati stanno migliorando a passi da gigante e l’intelligenza artificiale offre l’opportunità non solo di gestire i dati, ma anche di trarre conclusioni e interazioni di livello superiore” (Naughton 2021).

Naughton proietta in un tempo ravvicinato l’adozione di questo insieme di tecnologie, ma Innovation-Driven Development Strategy è un piano che si pone obiettivi strategici di lungo periodo temporalmente scanditi, nel quale la combinazione di questo insieme di tecnologie deve accompagnarsi alla trasformazione dei rapporti produttivi e sociali nella prospettiva del ‘socialismo con caratteristiche cinesi’. La prima tappa è il 2020, entro cui bisogna “entrare nei ranghi dei paesi orientati all’innovazione”, collegando imprese che possiedono la forza competitiva per entrare nella fascia alta della catena del valore globale, e, nel contempo, realizzare adeguamenti istituzionali a sostegno dell’imprenditorialità innovativa, impegnando una spesa per R&S fino al 2,5 per cento del PIL. La seconda tappa è il 2030, entro cui deve essere posta “una solida base per costruire una superpotenza economica”, con le principali industrie posizionate nella fascia alta della catena del valore, occupazione di qualità superiore, redditi più elevati, e vita migliore, con una spesa che dovrà raggiungere il 2,8 per cento del PIL. La terza tappa è il 2050, quando “la Cina si sarà affermata come superpotenza mondiale dell’innovazione R&S (…), potente sostegno per costruire una nazione socialista modernizzata ricca, forte, democratica, civile, armoniosa”.

Nella prospettiva del nuovo piano vengono aggiustati i programmi in atto, dal SEI al Made in China 2025, e soprattutto vengono predisposte attività che preparano una governance scientifico-tecnologica adeguata all’IDDS: Artificial Intelligence nel 2017; Intelligent Photovoltaic, Intelligent Shipbuilding, Cloud Computing, Information Consumption nel 2018; Internet Services nel 2019. Vi sono coinvolti anche i capitali privati. Per le competenze acquisite e quelle potenziali Alibaba, Baidu, Tencent e Huawei “fanno parte della squadra dei campioni nazionali assieme alle grandi imprese di Stato” (Naughton).

Un obiettivo rilevante riguarda l’espansione della domanda ad alto contenuto tecnologico, dalle Smart Cities ai sistemi di controllo dei movimenti, delle informazioni, delle comunicazioni. Dal 2020 si lavora sull’integrazione delle infrastrutture esistenti, e sulla creazione di nuove, in particolare per trasporti, energia e innovazione scientifico-tecnologica. La creazione della domanda interna trova posto nella elaborazione del 14° piano quinquennale 2021-25, approvato nel 2020 dal plenum del XIX congresso, che pone la ‘doppia circolazione’ come elemento della strategia di sviluppo: potenziare le catene del valore interne per ridurre la dipendenza dai mercati esteri, senza rinunciare a perseguire la competizione a livello globale. Nel dicembre 2022 è stato presentato, con questo obiettivo, lo Strategic Plan for Expanding Domestic Demand 2022-2035.

Questo è il quadro in cui l’IDDS può svilupparsi dopo i rallentamenti dei tre anni di covid, sotto la diretta guida del comitato centrale del partito comunista mediante la Commissione centrale per la scienza e la tecnologia costituita nel quadro delle riforme decise dall’Assemblea del popolo del 2023. “L’esperienza passata indica che le nuove tecnologie general purpose impiegano decenni per diffondersi nell’economia e il loro impatto spesso arriva in modi che all’inizio erano poco previsti. Qualunque cosa accadrà in futuro, l’attuale orientamento politico della Cina sarà estremamente difficile da cambiare, poiché è sostenuto da un forte consenso vincolato. L’IDDS è a lungo termine inserito in una vasta panoplia di piani. È stato elaborato in molte arene, intrecciato con vari obiettivi economici, militari e di altro tipo” (Naughton 2021).

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