
di Francesco Galofaro, Università IULM di Milano
Nel numero del 25 agosto l’Internazionale propone un articolo di Eric Frey, originariamente pubblicato dal quotidiano Der Standard di Vienna. Il titolo è “I limiti del capitalismo cinese”. Lo scritto, fortemente polemico, esemplifica perfettamente la pubblicistica pseudoscientifica che da decenni vorrebbe scoraggiare investimenti e collaborazioni con il Paese del dragone. Ecco una ricetta in cinque passi per scrivere questo genere di articoli:
- In apertura, ricordare che le previsioni negative sull’economia cinese sono state regolarmente smentite dalla storia per decenni
- Concludendo il passo (1), elencare i motivi per cui questa volta la previsione negativa è corretta
- Dichiarare che le minacce e i rischi di cui al passo (2) non possono essere gestiti dalla leadership cinese
- Motivare il passo (3) con la scarsa “apertura” del regime
- Soprattutto: nell’affrontare i passi (1 – 4), evitare di nominare il socialismo; sottolineare che il modello cinese è capitalista; in alternativa, ironizzare sul comunismo cinese
L’argomentazione offerta nell’articolo non sfugge alla struttura retorica di cui sopra. Il motivo per cui questa volta il sistema finanziario cinese fallirà non è la crisi del colosso immobiliare Evergrande, dato che il governo può “rimediare con iniezioni di capitale”. Il problema della Cina è la trappola del medio reddito. L’autore la definisce come una condizione “in cui cadono i paesi emergenti quando raggiungono un certo grado di prosperità ma non arrivano a uguagliare quelli più sviluppati”. Ciò accadrà in futuro perché la leadership cinese ha puntato solo sulle esportazioni e non sul consumo interno. “Questo porterebbe a una società civile più sicura di sé che potrebbe mettere in discussione il monopolio del Partito”. Ma questa volta la Cina non si salverà, perché gli Stati Uniti hanno posto barriere a commercio e investimenti. In conclusione: Il modello del capitalismo autoritario, che ultimamente ha guadagnato molti ammiratori, sta raggiungendo i suoi limiti”. La Cina potrebbe lanciarsi in avventure militari, trovare soluzioni temporanee ai suoi problemi, ma “la sua brutale dittatura è un ostacolo alla scalata ai vertici dell’economia mondiale”. Pentiamoci: non essendoci alternativa al capitalismo, è chiaro che la fine del mondo è prossima.
L’argomento ideologico entra in contraddizione con altri discorsi che circolano nella società sotto forma di relazioni scientifiche e di dati macroeconomici. Infatti, che la Cina abbia avuto tassi di crescita molto positivi per due generazioni è un dato piuttosto attestato e ormai filtrato nel senso comune. Dunque, all’autore non resta che proporre un’interpretazione del successo cinese che eviti di ascriverne il merito al suo sistema politico. Per ottenere questo effetto egli dichiara che gli Stati Uniti sono “il partner che ha reso possibile l’ascesa della Cina negli ultimi 45 anni”. Dunque, la crescita cinese sarebbe avvenuta nonostante il suo sistema politico, grazie al sostegno degli Stati uniti, oggi venuto meno.
Come ho già scritto, l’autore è consapevole del fatto che, grazie a ciò che chiama “capitalismo autoritario”, il governo può intervenire con “iniezioni di capitale” per salvaguardare i diversi settori economici dalle crisi in cui periodicamente possono incappare. Per poter convincere il lettore, dunque, deve sostenere che gli effetti positivi dell’intervento statale in ciascun settore sono solo temporanei, ed evocare un crollo per ragioni sistemiche in un futuro indeterminato. I segni della crisi devono potersi leggere già nel presente e l’autore si dilunga nell’elencarli, come una fattucchiera che legge le carte.
La parola magica che riassume il crollo cinese è “trappola del medio reddito”. Si tratta del fatto che, nelle economie in via di sviluppo, i salari tendono a crescere scoraggiando gli investimenti stranieri. A quel punto, una leadership illuminata favorisce investimenti in settori tecnologicamente avanzati, sostenendola con investimenti nel sistema dell’istruzione e della ricerca. In passato, talvolta questo è accaduto, talvolta no. Qui abbiamo un sottointeso ideologico su cui fa perno l’intero articolo: solo un sistema politico occidentale, liberaldemocratico, è in grado di favorire e gestire la svolta. Il governo cinese non può perché – come si è detto – ha paura della “società civile”.
Contro questa interpretazione si possono richiamare tre argomenti. In primo luogo, secondo il sito https://it.tradingeconomics.com, negli ultimi 10 anni, corrispondenti grossomodo all’ascesa e al consolidamento della generazione di Xi Jinping, i salari cinesi sono più che raddoppiati, crescendo da 50mila a 110mila yuan annui in media (ossia da 6mila a 14mila euro circa). Dunque, non sembra che il governo tema poi così tanto l’ascesa della classe media. In secondo luogo, non è chiaro perché l’autore consideri lo scarso sviluppo del mercato interno cinese come un problema e non come un’opportunità per uno sviluppo economico ulteriore di quel Paese. In terzo luogo, gli allarmi sulla trappola del reddito medio nell’economia cinese si susseguono da ormai molti anni. Consultando la letteratura scientifica, tuttavia, ci si imbatte in uno studio pionieristico sul problema (Growing Beyond the Low-Cost Advantage: How the People’s Republic of China can Avoid the Middle-Income Trap) pubblicato nel 2012 da Juzhong Zhuang, Paul Vandenberg e Yiping Huang, edito dalla National School of Development dell’Università di Pechino e dall’Asian Development Bank (qui: https://www.adb.org/publications/growing-beyond-low-cost-advantage-how-peoples-republic-china-can-avoid-middle-income). Non si direbbe quindi che gli economisti cinesi abbiano sottovalutato il problema della transizione da un’economia low-cost ad un’economia pienamente sviluppata. Al contrario, dal 2012 ad oggi ci si imbatte in svariati articoli scientifici di studiosi cinesi in collaborazione con studiosi occidentali, pubblicati su prestigiose riviste internazionali.
In conclusione, vorrei sottolineare quello che a mio parere è il principale giudizio ideologico contenuto nell’articolo. Il così detto “capitalismo autoritario” non è altro che socialismo con caratteristiche cinesi (https://www.marx21books.com/prodotto/il-socialismo-con-caratteristiche-cinesi/). Lo descriverei come un sistema in cui al mercato è lasciato il compito dell’allocazione delle risorse, per motivi di efficienza, mentre lo Stato mantiene la capacità di imprimere una direzione alla crescita. In tale sistema si danno differenti forme giuridiche di proprietà mista, concepite per adeguarsi alle specificità che caratterizzano i diversi settori economici. Al cuore del sistema, vi è una visione politica che tenta di conciliare le frizioni esistenti tra forze produttive e i rapporti di produzione, nel tentativo di favorire la transizione verso un nuovo modo di produzione in un futuro prossimo,la cui realizzazione passa attraverso la pianificazione. Proprio in questa progettualità mi pare di ravvisare una differenza fondamentale tra il capitalismo contemporaneo e il socialismo cinese: il primo mira a conservare il modo di produzione attuale e rapporti di forza tra capitale e lavoro sbilanciati a favore del primo; il secondo ambisce a trasformare l’economia e la società mondiale. Ciò che l’autore definisce “un fardello per tutto il mondo”, infatti, è il “futuro condiviso” una strategia anti-egemonica, alternativa alla globalizzazione, che la Cina propone per favorire la cooperazione e lo sviluppo della comunità mondiale.
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