
di Pino Arlacchi
da il fatto quotidiano 6 luglio 2023
L’euforia occidentale sul fallito ammutinamento dei mercenari della Wagner sta svanendo, e la ribellione si sta rivelando una resa dei conti interna all’establishment militare russo, che non ha né indebolito né rafforzato Putin. Anche la situazione sul campo di battaglia è rimasta invariata. L’ucraina non è riuscita a capitalizzare gli effetti della hubris del capo della Wagner, e l’obiettivo di rompere le difese russe e raggiungere il Mare di Azov da sud-est, tagliando la via di terra verso la Crimea, appare sempre più distante.
Tornano perciò al centro dell’attenzione i termini di fondo del conflitto, con una domanda che si impone: perché nella guerra in Ucraina l’ultima cosa che conta è il destino di quel Paese e dei suoi abitanti? Lo scontro militare poteva terminare a poche settimane dal suo inizio, perché nel marzo dell’anno scorso Putin e Zelensky si erano quasi accordati sul ritiro delle truppe russe in cambio di un impegno per la neutralità permanente dell’ucraina da inserire nella sua Costituzione. La proposta di pace – redatta e firmata dal capodelegazione di Kiev – fu stracciata da Boris Johnson, arrivato in Turchia per informare Zelensky che il blocco euro-americano non voleva alcuna pace, e che avrebbe proseguito le ostilità contro la Russia. Analoga fine fecero i tentativi di negoziato intrapresi dall’ex primo ministro israeliano
Bennett e dal governo turco. Perché una posizione così estrema, e così cinica, verso la popolazione di un Paese stritolato dallo scontro tra grandi potenze?
L’esercito russo è diventato molto più grande. Sono stati mobilitati più di 300mila uomini e tutti gli osservatori riconoscono che le tattiche di guerra russe sono assai migliorate. La superiorità aerea e di difesa di Mosca è schiacciante: non saranno certo poche decine di F-16 euro-americani a rovesciare le sorti del conflitto. Nessuno parla più di vittoria ucraina. I tentativi di Zelensky di forzare la mano degli
Stati Uniti trascinandoli in un invio di truppe sul suolo vengono respinti con nettezza da un Biden già in campagna elettorale, propenso a un frozen conflict tipo in Corea. Un cessate il fuoco che eviti di perdere la faccia con un negoziato di pace e mantenga vivo lo scontro con la Russia a tempo indefinito, alla faccia di un’ucraina smembrata e disastrata. L’indifferenza verso il destino dell’ucraina nasce dal fatto che qui l’ultima posta in gioco non ha a che fare con quel Paese sfortunato. E non ha neppure che fare, sotto sotto, con la Russia. Questa è stata eletta a diavolo del giorno perché impersona il Nemico
Perfetto. Un’alterità collaudata da Guerra fredda per ritardare il tramonto dell’impero americano. L’élite Usa è ben consapevole che il suo tempo è scaduto e che il mondo è diventato multipolare. Arrivata l’ora del declino, Washington cerca ora di ritardarne la fase terminale usando i mezzi a sua disposizione. E facendolo pagare, per quanto possibile, ai propri sudditi e alleati. A cominciare dagli europei, trascinati in una battaglia autolesionista contro la Russia che dovrebbe rivolgersi presto, nelle intenzioni di Washington, contro il trofeo più ambito, la Cina, ormai potenza globale.
Tornando alla guerra in Ucraina, è evidente che essa trascende le posizioni del campo di battaglia. La posta in gioco in Ucraina è quella dei tempi e dei modi dell’uscita degli Stati Uniti dalla cabina di regia del pianeta. Quando il capo della Cia dichiara che gli Stati Uniti non possono più pretendere di sedersi a capotavola del mondo, significa che sono già in atto strategie di contrasto. La maggioranza dei politici americani accetta la realtà delle cose e si divide in due campi. Al primo appartengono quelli che credono di poter ostacolare a tempo indefinito la caduta coinvolgendo gli europei in una zuffa con Cina, Russia e resto del mondo sulla base della divisione tra democrazie liberali e autocrazie. Parlo dei i cosiddetti liberali internazionalisti – ben rappresentati da Biden – pronti a usare gli strumenti coercitivi della supremazia americana (dollaro, sanzioni e forze armate) in ogni parte della Terra. Ci sono poi i neo-isolazionisti alla Trump, che attribuiscono il declino Usa all’espansionismo estero, alle guerre senza quartiere e all’indebitamento da esse generato. Essi ritengono che l’america debba pensare a se stessa, proteggere i suoi interessi di fondo e ricostruire le sue infrastrutture e il suo apparato produttivo smettendo anche di pagare per la sicurezza di alleati diventati più ricchi di lei. Non stiamo parlando di pacifisti. Questa gente non è contraria per principio agli interventi armati all’estero. Se si tratta di fare un bel colpo a spese di un Paese detentore di risorse strategiche – tipo Venezuela – oppure danneggiare con l’uso della forza gli interessi di una potenza rivale tipo Cina, perché no? Ciò che conta è non sprecare soldi in avventure senza ritorno immediato e concentrarsi sulle minacce più temibili. Che agli occhi di Trump e seguaci non vengono dalla Russia di Putin, ma da una potenza concorrente e in piena ascesa. Se questa visione sarà in grado di prevalere alle Presidenziali del prossimo anno, la domanda cruciale diventerà se il tramonto definitivo dell’impero ci costerà o no altre Ucraine.
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