
di Paolo Bricco
da https://lab24.ilsole24ore.com
la guerra sta accelerando i cambiamenti in atto a livello mondiale. Come si afferma in questo articolo ‘il conflitto in Ucraina può accelerare i meccanismi di evoluzione della globalizzazione che si sono attivati venti anni fa, quando la Cina ha smesso di accettare una posizione “servile” nei confronti dell’Occidente manifatturiero e ha iniziato a sviluppare una strategia di politica industriale autonoma e aggressiva’. In conseguenza di ciò il rapporto fra Russia e Cina potrebbe farsi ancora più stretto e potrebbe compensare un’eventuale rottura delle relazioni fra Mosca e l’Europa.
La guerra in Ucraina è un potente focolaio di instabilità geo-politica ed energetica, tecno-manifatturiera e finanziaria. La pandemia ha già provocato nel codice genetico della globalizzazione alcune mutazioni che, adesso, potrebbero sperimentare evoluzioni più marcate e meno reversibili.
Negli ultimi due anni le catene globali del valore sono già diventate più sfilacciate e meno compatte. Le reti di fornitura e di approvvigionamento sono già state rese più corte e meno efficienti perché più onerose. I mercati finali hanno già sperimentato un ridimensionamento con una loro calibratura più regionale. Nella gerarchia geo-economica si è già verificata l’avanzata di una Cina che – se ha bisogno di stabilità per sviluppare il suo mercato interno e per raggiungere il suo breakeven naturale al 7% del GDP – ha comunque una strutturale posizione di ascesa nelle Global Value Chains, delle cui componenti più nobili e redditizie controlla quote crescenti.
La base manifatturiera e la fornitura
La guerra ha obbligato Volkswagen e Bmw ad interrompere i loro cicli di produzione e di fornitura in Ucraina, dove si realizzavano i cablaggi di diversi modelli (ogni auto ha, in media, cinque chilometri di cavi al suo interno). Audi sta premendo sui suoi fornitori che, a loro volta lavorano con fornitori di secondo livello, perché ne trovino altri nell’Europa dell’Est e nel Nord Africa.
L’invasione in Ucraina potrebbe, intanto, rendere ancora più acuta la crisi dei chip, sorta appunto in piena pandemia. Il neon, sottoprodotto della lavorazione dell’acciaio, è il gas che viene utilizzato per i laser che “scrivono” sui wafer di silicio da cui vengono prodotti i microprocessori: la metà del neon mondiale per semiconduttori arriva dall’Ucraina e dalla Russia.
Non è soltanto un tema di auto e di microprocessori. In ogni settore le imprese della manifattura europea e italiana seguono il dettato del trauma della guerra. Ma le loro scelte particolari di oggi si inseriscono in un generale quadro di riassetto delle basi produttive dirette e degli approvvigionamenti che ha introdotto, nelle loro strategie, il tema del re-shoring, ovvero la rilocalizzazione in Europa o nel paese di origine.
Il quale, finora, è stato però più astratto e teorico che non reale e concreto: secondo la Fondazione Ergo, che ha appena pubblicato il saggio curato da Rachele Sessa “Perché le fabbriche fanno bene all’Italia” (Rubettino), dal 2014 soltanto una quarantina di imprese italiane ha effettuato un re-shoring completo e sostanziale (quasi tutte del settore tessile), poco più di duecento considerando tutta l’Europa.
Le catene globali del valore e le strategie
Il problema, dunque, è rappresentato dalle strategie generali delle imprese europee ed italiane.
Negli ultimi tre anni, secondo un lavoro citato nel saggio uscito da Rubettino “L’Italia nelle catene globali del valore” curato da Giorgia Giovannetti e da Enrico Marvasi, la grande maggioranza delle imprese non ha ridotto e non intende ridurre né la propria presenza internazionale (62% del totale delle imprese con impianti all’estero) né il numero di fornitori esteri (78% del totale delle imprese con fornitori esteri).
I costi generali dell’energia e delle commodity, dei semilavorati e della logistica sembrano variabili impazzite. Il problema è che cosa faranno adesso queste aziende. Soprattutto se ci saranno degli effetti prorompenti in grado di trasformare in punti di rottura alcune linee che si intravvedono nei loro comportamenti.
Secondo l’analisi di Met, compiuta su un panel di 24mila imprese da Emanuele e Raffaele Brancati, esiste un primo slittamento fra quelle più internazionalizzate. Nel 2019, prima della pandemia, l’11,2% delle aziende era pienamente inserito nelle catene globali del valore. A gennaio di quest’anno – dunque poco prima della crisi ucraina – è sceso al 9,4 per cento.
L’ascesa della Cina, il problema della Russia e il mito del decoupling
Il conflitto in Ucraina può accelerare i meccanismi di evoluzione della globalizzazione che si sono attivati venti anni fa, quando la Cina ha smesso di accettare una posizione “servile” nei confronti dell’Occidente manifatturiero e ha iniziato a sviluppare una strategia di politica industriale autonoma e aggressiva, baricentrata sul dirigismo estremo dell’autoritarismo e munita di manager, finanzieri e banchieri formatisi alla doppia scuola del Partito Comunista Cinese e delle università della Ivy League americana.
Secondo le elaborazioni di Gianluca Santoni, economista di Cepii, su dati Cepii-Baci, la Cina nel 2000 sviluppava il 5,5% del commercio mondiale dei beni manifatturieri: nel 2018 è salita al 16,2 per cento. L’Asia, nello stesso periodo, è rimasta stabile al 22,8 per cento, l’America è scesa dal 23,2% al 15,7% e l’Europa dal 45% al 41,3 per cento.
Dunque, la dinamica strategica della nuova globalizzazione degli ultimi venti anni è a favore della Cina, che per esempio ha elaborato e attuato una politica di controllo delle terre rare, essenziali in ogni snodo critico della manifattura mondiale
Il punto è quello che potrebbe capitare se, nella nuova geografia della guerra, la Russia allacciasse legami politici e militari economici, finanziari e monetari con, di nuovo, la Cina. Soprattutto per via delle sue riserve energetiche e minerarie.
La Cina ha una significativa compattezza interna: sempre secondo Santoni, che ha elaborato i dati Oecd, il 75% del valore aggiunto generato dalla Cina ha origine nella Cina stessa. Questa quota è costante. Negli ultimi vent’anni non è mutata. E, questo, è il primo punto. Il secondo punto riguarda invece il legame fra Russia ed Europa.
Troncando ogni rapporto con la Russia, l’Europa perderebbe l’1,35% del suo Pil generato da quest’ultima. Viceversa, senza l’Europa la Russia perderebbe oltre il 15% del suo Pil. Nonostante la dipendenza energetica europea, l’asimmetria appare dunque drammatica soprattutto per la Russia.
Il problema, però, sarebbe che cosa potrebbe accedere se – durante e dopo il conflitto fra la Russia e l’Occidente – la prima fosse incorporata strategicamente, nella geo-economia che discende dalla geo-politica, dalla Cina. E, incorporandosi in quest’ultima, apportasse appunto il suo gas, il suo petrolio e le sue terre rare.
Oggi soltanto il 4,4% del valore aggiunto russo è prodotto da valore aggiunto di matrice cinese. E soltanto lo 0,6% del valore aggiunto cinese è prodotto da valore aggiunto di matrice russa. Un intrecciarsi più robusto e profondo delle due economie genererebbe però una nuova dinamica.
Nella storia nulla è mai lineare. Soprattutto con scelte ultra-verticistiche come quelle di un Paese autoritario. Oggi il potere della Cina è generato, anche e soprattutto, dal controllo delle terre rare, fra Asia e Africa. Anche per questo, prende corpo – almeno nelle profezie che, qualche volta, si autoavverano – il mito del decoupling, lo sdoppiamento delle catene globali del valore.
Una a controllo occidentale. L’altra a controllo cinese. E, a quel punto, cambierebbe, se non tutto, tanto. Con un nuovo “Imperium” delle materie prime, dell’energia e delle terre rare. E un nuovo assetto della manifattura e dei commerci prossimi venturi.
Unisciti al nostro canale telegram