GUERRA, CRISI E SFIDE PER IL FUTURO

riceviamo e pubblichiamo

di Alessandro Pascale

Relazione sulla politica estera e le ricadute economiche e sociali per il Comitato Scientifico di Democrazia sovrana e popolare, 14 gennaio 2023.

Vorrei iniziare ricordando la particolarità del periodo storico che stiamo vivendo, segnato dalla crisi dell’impero statunitense e dall’ascesa di un mondo multipolare caratterizzato dall’egemonia crescente della Cina comunista. È in questo quadro che dobbiamo situare gli eventi degli ultimi anni, compresa la guerra alla Russia e la pandemia COVID.

Il mantenimento stabile nell’ultimo secolo di un assetto imperialista ha fatto sì che l’Occidente abbia potuto fondare il proprio benessere sullo sfruttamento del “terzo mondo”. Il passaggio alla globalizzazione neoliberista, avvenuto dagli anni ‘70, ha però mostrato tutte le contraddizioni del sistema capitalistico, facendo perdere sul lungo termine competitività all’Occidente. La guerra in corso non è quindi un evento episodico e casuale, ma la risposta delle élite transnazionali occidentali alla perdita del controllo monopolistico dei mercati ricchi di risorse dell’Africa, dell’Asia, dell’America latina.

Che la pace non sia in effetti salutare per l’Occidente era emerso dagli esiti del World Economic Forum, che a partire dalle elaborazioni di Klaus Schwab ha lanciato la necessità di un “great reset” per garantire il rinnovamento del processo di accumulazione capitalistica occidentale: in estrema sintesi mentre non si fa nulla per cancellare gli enormi squilibri dovuti ad un’economia finanziaria ipertrofica, totalmente sganciata dall’economia reale, si lancia l’idea di una conversione economica in senso ecologicamente sostenibile. Questa manovra ideologica serve a legittimare una condizione di austerità sempre maggiore per le classi lavoratrici, chiamate a fare sacrifici: per salvare il pianeta ci dicono, ma in realtà per mantenere gli elevati tassi di profitto di borghesie sempre più parassitarie e incapaci. Inoltre questo piano “ambientalista” è funzionale anche a rinnovare un senso di superiorità etico-politica occidentale che conduce sostanzialmente ad un razzismo moderno e politicamente corretto utilizzabile per giustificare eventuali guerre e conflitti imperialisti. Per quel che riguarda l’applicazione specifica di tali indirizzi dobbiamo ragionare però se non si sia creata una grande contraddizione tra USA ed Europa.

Se è vero infatti che permane una direzione politica di una ristretta élite transnazionale occidentale e bianca, è anche vero che essa al momento rimane nettamente americanocentrica: le élite europee infatti hanno interpretato il great reset con il famoso PNRR (“piano nazionale ripresa e resilienza”), funzionale a rendere più efficienti le multinazionali occidentali nella competizione economica internazionale proseguendo la politica di sottrazione di sovranità ai singoli Stati nazionali, e quindi anche ai loro popoli. La grande contraddizione che si sta creando è con la progettualità statunitense, che intende la competizione globale in maniera più guerrafondaia attraverso lo scontro aperto con Russia, Cina e chiunque metta in discussione il primato di Washington. Il progetto statunitense vede così l’Europa subalterna e sottomessa agli USA, stroncando ogni velleità di un polo europeo autonomo e libero di commerciare con la Russia (vd progetto euroasiatico di Putin) e la Cina (vd il piano della nuova via della Seta).

La guerra in Ucraina ha infatti le sue ricadute soprattutto sull’Europa: il dato di dicembre dell’inflazione nell’area euro è superiore al 9% (8,6% in Germania, 11,6% in Italia, 5,9% in Francia). Ovviamente salgono i prezzi ma non i salari. Philip Lane, capo economista della BCE, ha già avvisato che ci vorranno diversi anni prima che i salari si adeguino completamente ai recenti shock sui prezzi e che l’istituto di Francoforte monitorerà attentamente le retribuzioni (il che sembra quasi una minaccia). Per ora la BCE reagisce al problema dell’inflazione seguendo la ricetta della FED: aumento dei tassi di interesse sul denaro (che negli USA è comunque del 4,5%, due punti in più dell’UE) e blocco dei salari, così da far pagare la crisi alle masse popolari.

Tra i paesi europei è ormai noto che le conseguenze economiche più gravi del conflitto riguardano in particolar modo Germania e Italia, i paesi più poveri di risorse energetiche e più dipendenti dalle esportazioni russe. L’imposizione della rottura delle relazioni politiche ed economiche con la Russia, avvenuta anche con il famoso danneggiamento del North Stream 2 – per inciso realizzato palesemente dagli anglosassoni – ha rimesso in riga una Germania che ha continuato comunque a mostrarsi riottosa ad armare intensivamente l’Ucraina, anche se la socialdemocrazia tedesca non ha tardato a farci rimpiangere perfino la Merkel, vista la sua sudditanza a Washington. La guerra in generale ha obbligato l’UE a spingere l’acceleratore nella corsa al famigerato GNL (Gas liquefatto). Si parla di finanziare 41 nuove infrastrutture (11 in Germania, 6 in Italia) con contratti di 15-20 anni che costerebbero più di 60 miliardi di euro e che rischiano di vanificare gli obiettivi climatici europei. In questa corsa ai contratti con paesi terzi produttori di gas molti sono costretti nell’emergenza a firmare accordi svantaggiosi. L’Italia, per mezzo di ENI, ha siglato nel 2022 10 contratti con paesi diversi; il problema è che tra 10 anni la domanda di gas dovrebbe ridursi notevolmente ma noi avremo ancora in essere questi contratti con le compagnie di GNL.

Questa situazione rafforza la dipendenza di tutti i paesi europei dagli USA, i quali sono oggi assieme al Qatar il principale produttore mondiale di gas liquefatto. È interessante notare che gli USA sono entrati nel business in tempi molto recenti, cioè dal 2016, e il loro gas è rimasto per molto tempo “fuori mercato” dati i prezzi elevati e poco competitivi. Oggi gli USA hanno aumentato del 148% le esportazioni di GNL nell’UE rispetto a un anno fa (inizio guerra), raggiungendo il record di 81 milioni di tonnellate. Praticamente esportano il 15% della propria produzione facendo affari d’oro. Il Sole 24 ore fa notare come il gas liquido sia diventato il pilastro di una nuova leadership globale statunitense nell’energia “oggi rafforzata dalle ripercussioni della guerra”. Fino ad ora l’Europa è stata dipendente dagli USA soprattutto dal punto di vista militare e potremmo aggiungere una certa interdipendenza nel settore finanziario. Ora si crea una terza fondamentale dipendenza, molto concreta e pericolosa: quella energetica, con l’aggravante per noi che il gas americano è di gran lunga più caro di quello russo.

Traendo un bilancio per quel che riguarda l’Europa, basti citare un noto giornale nostrano: “l’UE ha preteso di sostituire in pochi mesi i 150 miliardi di metri cubi di gas che importava dalla Russia con altro gas da altri fornitori. Questa ristrutturazione ha comportato costi esorbitanti e ha avuto impatti devastanti sull’inflazione, sulla crescita economica e sui debiti pubblici dei paesi core e periferici dell’eurozona”.

CONSEGUENZE SULL’ECONOMIA ITALIANA

Per il Financial Times l’Italia è l’anello debole dell’Europa a causa del suo ingente debito pubblico, destinato ad aumentare notevolmente a seguito del rialzo dei tassi di cui parlavamo prima. Aggiungiamoci che i tempi del “whatever it takes” del governatore Draghi sono finiti, e la BCE non intende continuare la politica di acquisto dei titoli di stato italiani. Il ministro Crosetto se ne è lamentato aspramente sui giornali: “il cambio repentino di politiche della BCE rischia di avere un effetto particolarmente negativo su di noi”, dice. In effetti si prevede un aumento vorticoso dei rendimenti dei BTP (il famoso spread), già oggi ai massimi dal 2013, e per lo Stato italiano questo significa una maggiore spesa per i prossimi anni. Se il Def dello scorso aprile calcolava le spese per i soli interessi finanziari in 186 miliardi per il triennio 2023-25, oggi le stime aggiornate parlano di 270 miliardi, cioè un aumento di 84 miliardi, ossia mediamente 28 miliardi all’anno da trovare – per inciso praticamente l’entità dell’ultima manovra finanziaria. Si ricordi che solo quest’anno andranno collocati 510 miliardi. In questo contesto qualsiasi governo che rimanga all’interno delle istituzioni vigenti che ne annullano la sovranità economica è in balìa di possibili attacchi speculativi provenienti dall’estero, come quelli che hanno portato alla caduta di Berlusconi e all’avvento di Monti una decina di anni fa.

Riguardo al governo Meloni per adesso sembra volare nei sondaggi, grazie soprattutto all’inconsistenza delle attuali opposizioni parlamentari di centro-sinistra, ma è molto probabile che questo consenso sia destinato a calare nei prossimi mesi: si ricordi che i provvedimenti dell’ultima manovra prevedono aiuti alle famiglie riguardo al caro-bollette energetiche per la quantità di 21 miliardi sui 30 messi a disposizione, ma scadranno a marzo. Nel frattempo anche se il prezzo del gas sembra in discesa, si prevede che l’inflazione continui a crescere a causa delle tensioni economiche internazionali. La fine dell’emergenza pandemica e il ritorno alla contabilità ordinaria impongono al governo la necessità di tornare ad avere un avanzo primario nel bilancio dello Stato per pagare almeno una parte degli interessi sul debito, portando tale avanzo all’1,1% del PIL per il 2025, anno in cui si prevede comunque lo sfondamento dei 3000 miliardi di euro di debito (oggi è a 2772 miliardi).

Per il Sole 24 ore, “in questa gabbia non sarà facile trovare il modo di far spazio alle misure per abbassare l’età pensionabile con quota 41, tagliare le tasse con la riforma fiscale e dare gambe alle altre promesse del programma di governo”.

Mancano in effetti i fondi per andare a tamponare i danni sugli aumenti di benzina e gasolio. Ulteriore problema è che tali rincari dipendono quasi totalmente dalla struttura liberista del mercato capitalistico, che consente quella che il ministro dell’ambiente e della sicurezza energetica Fratin chiama “speculazione”. Il Governo Meloni minaccia futuri interventi senza però precisare niente di concreto in proposito. Un altro elemento che mostra l’inefficienza dell’economia capitalistica riguarda il petrolio greggio, il cui prezzo non è più in legame diretto con quello dei prodotti raffinati: oggi solo l’82% dei 98 milioni di barili prodotti in un giorno è raffinato, e una domanda di circa 18 milioni non è soddisfatta: insomma il petrolio c’è, ma mancano gli impianti di raffinazione perché in passato erano poco convenienti e molte aziende, tra cui la ESSO, li hanno smantellati. In questo scenario ci sono ampi sprechi e chi raffina oggi in Italia può guadagnare fino a 20-30 dollari di profitto per barile (quando fino a pochi anni fa i margini erano invece quasi a zero). Insomma se in Slovenia la benzina verde costa 1,24 al litro e da noi 1,80 è evidente che ci sia un problema enorme.

Anche riguardo al gas la speculazione capitalistica è evidente: i “future” riguardanti il prezzo del gas sono calati in meno di un mese del 50% ma la tariffa del mercato tutelato, cioè le bollette ricevute dagli italiani, registra nel mese di dicembre un aumento spropositato del 27%. Nel frattempo si va avanti con la costruzione di nuovi rigassificatori come quelli di Piombino e Ravenna, e il governo assicura demagogicamente che “nessuna nuova autorizzazione concessa provocherà alcun danno all’ambiente”. Se la situazione non è ancora precipitata tutto sommato il governo deve ringraziare proprio l’inverno molto mite, quasi caldo, ma occorre mettere in rilievo che il calo relativo dei prezzi dipende anche dal crollo della domanda di gas industriale, che nel 2022 in Italia è calata del 15% che diventa -30% nel solo mese di dicembre: un calo dovuto ai prezzi alti che hanno costretto le imprese a diminuire i consumi, riducendo l’offerta produttiva per non andare in perdita. “Al momento è difficile capire se e in quale misura i consumi energetici dell’industria riprenderanno, anche per l’aria di recessioni che spira a settimane alterne”.

C’è un ultimo aspetto da tenere in considerazione: per ora l’economia italiana non è ancora improntata su un assetto emergenziale per la guerra. Non c’è cioè alcun tipo di mobilitazione totale in senso bellico e si cerca di conciliare gli impegni della NATO con i vincoli di bilancio dell’UE tamponando per quel che si riesce i danni per il popolo italiano. La coperta però è corta e ben presto il governo si troverà a fare scelte difficili: i costi per sostenere militarmente l’Ucraina sono stati fino ad ora tutto sommato ridotti al minimo, dato che come il resto dei paesi della NATO stiamo dando fondo alle scorte di armamenti inutilizzati prodotti negli anni passati. Queste scorte però stanno terminando e si stanno già ponendo questioni scottanti che riguardano l’opportunità di privarsi di armamenti hi-tech quantitativamente molto limitati e che necessiterebbero molto tempo e cospicue risorse per essere sostituiti. Ne è un esempio il sistema di difesa anti-aerea Samp-T: l’Italia ne ha solo 5 e sono l’unico significativo sistema difensivo che ci rimane dopo aver ceduto all’Ucraina buona parte dei 112 missili stinger di cui disponevamo. Prima di poter sostituire un solo sistema di difesa Samp-t occorrono circa 7 anni e una spesa di 700 milioni di euro. Si prevede quindi, nel caso la guerra vada avanti, il rischio che non solo l’Italia, ma l’intera Europa si ritrovi parzialmente disarmata e incapace di far fronte ad una guerra convenzionale, il che condurrebbe molto probabilmente ad un improvviso aumento delle spese militari, come peraltro richiesto da anni da Washington, ed in ultima istanza all’accentuazione della dipendenza dagli USA.

IN CONCLUSIONE

Tutti i dati e le evidenze ci mostrano che la permanenza del nostro paese nella NATO e nell’UE non soltanto ci impediscono di esercitare un’effettiva sovranità nazionale e popolare, rendendo vano parlare di democrazia, ma ci spingono verso un futuro di sacrifici economici che colpiranno in particolar modo le fasce sociali più deboli. La nostra strada deve ripartire dai 9 punti della campagna elettorale di ISP, tra cui rimangono centrali la fine dello stato di belligenza in atto contro la Russia (che viola l’articolo 11 della Costituzione) e l’avvio di ricette economiche di stampo antiliberista che rilanci una politica industriale pubblica e una cooperazione internazionale pacifica rivolta a tutti i paesi del globo interessati a mantenere relazioni paritarie fondate sul reciproco vantaggio. È chiaro che tutto questo comporta ribadire la necessità dell’uscita immediata dell’Italia dalla NATO e dall’UE, e la cacciata immediata di tutte le basi americane dal nostro suolo.

Mi permetto di aggiungere che sarebbe ormai opportuno precisare che l’indirizzo verso cui dobbiamo tendere è un’economia di tipo socialista, concetto da intendere in maniera aperta e non dogmatica, analizzando con attenzione le esperienze passate e presenti più significative, comprese quelle che mantengono in essere forme controllate di mercato.

Sarebbe inoltre utile che al nostro programma massimo affiancassimo una misura simbolica forte, una proposta-bandiera, nell’ambito di un programma minimo capace di reggere nel tempo. Credo che in tal senso, a fronte di un’inflazione a due cifre, il ripristino dell’indicizzazione dei salari all’inflazione, ossia la vecchia scala mobile, sia l’unica proposta sensata e facilmente comprensibile per le masse popolari: il messaggio semplice da comunicare è che questa guerra è sbagliata e che i suoi costi non li debba pagare il popolo ma i responsabili che hanno precipitato il nostro paese in questo conflitto. Gli ultimi mesi dell’anno passato hanno ormai evidenziato come tra questi responsabili ci sia anche la Meloni, che ha mostrato nei fatti, con la sua volontà di mantenerci subalterni all’interno della NATO e dell’UE, di essere una sovranista di cartone incapace di colpire gli interessi di una ristretta cerchia di avvoltoi e vampiri.

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