
di Marco Palombi
da il fatto quotidiano 20 agosto 2022
Il giorno è storico, per carità. Come lo fu quello di quattro anni fa in cui formalmente la Grecia uscì dal “programma di aiuti”, cioè prestiti, non prima di essere incatenata all’austerità fino al 2060. Oggi 20 agosto, invece, Atene esce dalla “sorveglianza rafforzata” dell’ue: “La resilienza dell’economia greca è notevolmente migliorata e i rischi di ricadute sull’eurozona sono notevolmente diminuiti”, ha scritto la Commissione. Ora si passa al ciclo di sorveglianza post-programma (PPS): in sostanza, invece di avere i creditori in ufficio ogni tre mesi, li avranno ogni sei (il primo “PPS report” è già fissato per novembre).
Per capire quale abisso morale e intellettuale sia (stato) il laboratorio Grecia bisogna ripartire dall’inizio. È fine aprile del 2010 quando il premier socialista George Papandreou spiega al mondo che il suo Paese è alla canna del gas e ha bisogno di aiuti internazionali. Il piano di salvataggio viene firmato il 2 maggio: si parte con 110 miliardi, alla fine saranno oltre 300 (40 miliardi la quota italiana) in cambio di 800 misure economiche richieste alla Grecia dai tre Memorandum imposti dai creditori.
TORNIAMO AL 2010, per la precisione a ottobre, quando Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, passeggiando sulla spiaggia di Deauville, dicono esplicitamente a tutti com’è fatta la Ue: non esiste alcuna garanzia della Bce per gli Stati, ognuno pagherà per sé, privati compresi.
Bei risultati Il Pil è calato del 35% dal 2008, il debito pubblico è salito dal 109 al 190%, la povertà è esplosa E la Troika sapeva da 10 anni che sarebbe andata così
La successiva e scontata fuga di capitali ha quasi ucciso mezza Europa e trasformato una crisi da qualche decina di miliardi in una tragedia. Intanto la Troika (Ue, Bce e Fmi) imponeva ad Atene un piano di rientro crudele e controproducente, utilmente coadiuvata dalla pubblicistica razzista dei media.
Il problema è che quella greca – come le altre di quegli anni (Irlanda, Spagna, etc) – non era una crisi di debito pubblico, non era dovuta alla natura truffaldina e pigra dei greci, né ai problemi pur esistenti nell’economia di quel Paese. Come spiegò nel lontano 2013 l’allora vicepresidente della Bce, Vítor Constâncio, quella fu una classica crisi da debito privato: “Il principale fattore scatenante è da ricercarsi nel settore finanziario, in particolare in quelle banche che hanno fatto da intermediari per l’immenso flusso di capitali verso i Paesi periferici, che ha creato sbilanciamenti divenuti insostenibili a seguito del sudden stop causato dalla crisi internazionale (quella dei mutui subprime, ndr) e dalla brusca revisione delle valutazioni del rischio”.
E furono proprio le banche a ritrovarsi col cerino in mano, in particolare quelle tedesche e francesi, esposte in Grecia per 95 miliardi di euro sui 140 totali degli istituti europei. Come stabilirono poi una commissione d’inchiesta e diversi studi, furono loro i principali beneficiari dei primi due piani di salvataggio: l’esposizione bancaria Ue da 140 a 20 miliardi nel 2014, quella totale del settore da 290 a 115. Ai cittadini greci? Le briciole: “Solo il 10% del di bail out a finanziare il bilancio pubblico”.
Il danno, com’è noto, viaggia spesso con la beffa. Almeno dal 2013 tutti sanno che il piano di rientro è “assolutamente irrealistico” e lo sanno perché lo scrisse il Fondo monetario, che lo ribadirà nel 2015, quando però lo stesso Fmi – insieme a Ue e Bce – impose al governo Tsipras di firmare un nuovo mepassa morandum fregandosene del risultato di un referendum. Qual è il problema? Detto grossolanamente, un’eccessiva stretta fiscale deprime la crescita e finisce per far aumentare il rapporto debito-pil; allora si chiede una nuova stretta fiscale che deprime di nuovo la crescita e allora (ad libitum).
I risultati del selvaggio esperimento sociale detto “salvaprogramma taggio della Grecia” sono sotto gli occhi di tutti: via diritti del lavoro e presenza dello Stato nell’economia; patrimonio pubblico svenduto al miglior offerente (straniero); un Pil che a fine anno sarà ancora di oltre il 35% più basso di quello del 2008; i disoccupati scesi dal 30% delle forze di lavoro al 12,5% attuale, soprattutto grazie a una massiccia emigrazione; il potere d’acquisto delle famiglie crollato di oltre il 25% (e ora l’inflazione all’11,5% non lo farà certo crescere); il rischio povertà per il 27,5% dei greci; la mortalità infantile salita negli anni bui del 26%; le pensioni tagliate ben 14 volte per il 15% totale del loro valore. In tutto questo il debito pubblico – 350 miliardi, per oltre il 70% in mano alla fu Troika – è passato dal 109% del Pil del 2008 al 190% stimato a fine anno.
ALMENO È FINITA, dirà il lettore. Non proprio. Incassando nel 2018 gli ultimi 15 miliardi, peraltro necessari a pagare una quota dei 110 miliardi del primo bail out, Atene s’è impegnata ad avere un saldo primario (la differenza tra entrate e uscite al netto degli interessi sul debito) positivo per oltre il 2% fino al 2060, cioè a fare austerità per quarant’anni. Ovviamente il Fmi ha scritto che non c’è speranza che questa cosa funzioni, però ha avallato anche quest’ultimo piano. La crisi greca non è finita affatto: basta aspettare.
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