di Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli
Una parte consistente della sinistra “antagonista” ha ripetuto per decenni che l’Unione Sovietica, come del resto Cuba, Cina, Vietnam ecc. costituiva solo una forma di capitalismo di stato: fingendo di non sapere che quest’ultimo trova il suo nucleo fondamentale nel processo di privatizzazione dei profitti-risorse produttive e nella socializzazione delle perdite subite via via dai capitalisti.
Crollata l’Unione Sovietica al termine del tragico triennio 1989-91, gli “antagonisti” di cui sopra si sono non a caso dimenticati di analizzare la sua fondamentale ricaduta sul livello dei rapporti sociali di produzione in Russia: ossia quell’epocale e gigantesco processo di svendita-privatizzazione dei mezzi di produzione e delle risorse materiali che, dal 1992 in poi, ha reso la struttura socioeconomico russa un reale capitalismo di stato, come in Occidente.
Si tratta di un dato di fatto sicuro e che subito smentisce i finti tonti sostenitori dell’equazione Unione Sovietica (e Cina, e Cuba ecc) = capitalismo di stato.
Se infatti proprio quella fosse risultata la natura socioproduttiva delle nazioni di matrice sovietica dal 1917 al 1990, per quale arcano motivo i nuovi e ipercapitalisti dirigenti post – 1990 della Russia e degli altri stati del Patto di Varsavia avrebbero privatizzato, con ostinazione e su enorme scala, le forze produttive e le fonti di materie prime del presunto capitalismo di stato di matrice bolscevica?
Forse per sport?
Seconda questione: visto che larga parte delle risorse produttive nella Russia sono state svendute e privatizzate, come definire allora il regime socioproduttivo post sovietico nella zona geopolitica in oggetto?
Forse qualificandolo come un capitalismo di stato molto simile a quello del passato?
Dando una tale risposta, tuttavia, i furbetti “antagonisti ” si suiciderebbero perché simultaneamente sarebbero costretti ad ammettere che non era successo niente di importante riguardo al piano dei rapporti sociali di produzione all’interno della Russia, dal 1991 in poi. “La Russia era una formazione economico-sociale contraddistinta dal capitalismo di stato prima del 1991, ed è rimasta un capitalismo di stato anche in seguito”.
Tutte le assurdità di questi gnorri in malafede spariscono tuttavia se si esamina cosa realmente è successo in Russia, dal 1992 al 1997.
Boris Eltsin, assieme alla nuova leadership politico-sociale della Russia, il 14 agosto 1992 “firmò un decreto sulla distribuzione dei buoni alla popolazione. In teoria, qualsiasi cittadino sarebbe potuto diventare proprietario di una parte di una grande impresa. Per 25 rubli (una cifra molto ridotta all’epoca) ogni russo poteva ricevere un “check di privatizzazione” (comunemente detto voucher) del valore nominale di 10.000 rubli.
Il valore delle proprietà statali soggette a privatizzazione all’epoca era di 1.400 miliardi di rubli. Il Paese iniziò a emettere 140 milioni di voucher. Ogni cittadino del Paese aveva diritto a un buono, “dai neonati ai più anziani”.
Le grandi imprese industriali e agricole (aziende agricole collettive e statali; kolkhoz e sovchoz), i terreni e gli alloggi dovevano essere privatizzati. Venne attuata una trasformazione da società statali a società per azioni. La privatizzazione fu vietata solo in alcuni settori (estrazione delle materie prime, abbattimento delle foreste, sfruttamento economico della piattaforma continentale, oleodotti e strade pubbliche). Nel tempo, l’elenco delle imprese e dei settori privatizzati si è poi ampliato.
In realtà, era difficile valutare il valore reale delle proprietà statali. Vennero utilizzati come base i dati di valutazione dell’economia pianificata, anche se era poi necessario mettere quelle proprietà sul mercato azionario per garantire una formazione del prezzo obiettiva.
“In condizioni di alta inflazione e instabilità macroeconomica, il prezzo degli asset privatizzati fu sottostimato, le entrate per il Bilancio statale derivanti dalla privatizzazione sono state insignificanti, e questo ha ridotto la legittimità della privatizzazione”, ha dichiarato l’economista Sergej Guriev.
Voucher: un’opportunità di far soldi.
A tutti coloro che ricevevano i voucher era consegnato anche un promemoria: “Il check di privatizzazione è un’opportunità di successo economico che viene data a tutti. Ricordate: chi compra check ha più possibilità, chi li vende si priva di una prospettiva di guadagno!”.
Il voucher poteva essere utilizzato per acquistare azioni di qualsiasi impresa russa in via di privatizzazione. Il prezzo delle azioni era determinato mediante aste. Inoltre, i dipendenti delle imprese potevano acquistare le loro azioni a prezzi scontati. Dal dicembre del 1992 al febbraio del 1994 si tennero 9.342 aste, in cui vennero utilizzati 52 milioni di voucher.
I russi che acquistarono azioni di grandi aziende orientate all’esportazione hanno avuto più successo degli altri. Le aziende che lavoravano per il mercato nazionale ebbero vita molto più difficile. La popolazione, infatti, non aveva denaro per acquistare i loro prodotti e molte imprese fallirono entro poco tempo.
Uno degli investimenti più redditizi è stato Gazprom, ma anche in questo caso non fu facile per i semplici cittadini avere successo. Le azioni vennero quotate in modo diverso a seconda della regione. Nella regione di Perm si potevano acquistare 6.000 azioni Gazprom per 1 buono, a Mosca solo 30 e nella vicina Regione di Mosca 300. (Al prezzo di 317 rubli per azione nel giugno 2022 e a un tasso di cambio di 57 rubli per dollaro, 6.000 azioni di Gazprom equivalgono oggi a 33.368 dollari).
Ma mentre alcuni usarono il voucher per acquistare azioni del gigante dell’energia, altri li cedettero a terzi per pochi soldi o li scambiarono con cibo, vodka ed elettrodomestici.
Come sono nati gli oligarchi.
All’inizio della privatizzazione, i capi delle fabbriche e degli impianti, i cosiddetti “direttori rossi” che avevano acquisito potere durante l’era sovietica, presero il sopravvento. Inducevano i lavoratori a vendere le loro azioni e potevano trattenere i loro salari, costringendoli ad accettare. Di conseguenza, i “direttori rossi” divennero proprietari unici di grandi imprese. Ma poiché non avevano le competenze per operare in un ambiente di mercato, molti di loro hanno poi perso il loro potere. Le imprese sono state rilevate da gruppi finanziari, non senza il sostegno di ambienti criminali.
Inoltre, in tutto il Paese cominciarono a comparire i “fondi dei check”, dove i cittadini potevano depositare i voucher e ricevere i dividendi. Ma molti non li hanno mai ricevuti. Su 646 fondi, solo 136 società hanno pagato dividendi. Il resto ha miseramente cessato di esistere.
Di conseguenza, alla fine del 1994, il 60-70% delle aziende del commercio, della ristorazione pubblica e dei servizi al consumo erano state privatizzate. Il destino dei voucher fu il seguente: il 50% dei proprietari di voucher li investì nelle aziende per cui lavorava, circa il 25% finì nei fondi e il 25% fu ceduto a terzi.
Il colpo più duro alla legittimità della privatizzazione venne inferto dalle aste collaterali tenutesi a partire dal 1995. Il governo aveva contratto prestiti garantiti da partecipazioni statali in grandi aziende (Yukos, Norilsk Nickel, ecc.), ma non riuscì a ripagarli. Le partecipazioni in pegno vennero rilevate dai creditori. In questo modo divennero proprietari delle azioni delle società a prezzi inferiori a quelli di mercato.
“L’unico strato sociale allora pronto a sostenere Eltsin era il grande capitale”, ha scritto Evgenij Jasin, ministro dell’Economia russo (dal 1994 al 1997). E per i loro servigi pretendevano in cambio pezzi di proprietà dello Stato. Inoltre, volevano influenzare direttamente la politica. È così che sono nati gli oligarchi”. (“Democratici, fuori!”, da Moskovskie Novosti, 2003. N° 44, 18 novembre).
Come hanno calcolato gli estensori della celebre lista di Forbes, i 2/3 dei miliardari russi in dollari (nel 2012) hanno accumulato il grosso della loro fortuna durante le privatizzazioni.”[1]
Anche le concretissime esperienze post-sovietiche del 1991-1997 mostrano quindi, per l’ennesima volta, che il fulcro e il centro di gravità del capitalismo di stato consiste nella dinamica continua di privatizzazione dei profitti/delle forze produttive sociali e nella socializzazione delle perdite della borghesia: solo la finta ignoranza degli gnorri di matrice “antagonista” cerca di far dimenticare questa realtà evidente, innegabile ma distruttiva per loro sul piano teorico e politico.
Note:
[1] M. Bunina, “Come nel 1992 la privatizzazione trasformò l’economia russa e fece emergere i primi oligarchi”, 22 giugno 2022 in it.rbth.com
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