di Alessandro Pascale (Comitato Politico Nazionale Partito della Rifondazione Comunista)
Riceviamo dal compagno Alessandro Pascale e pubblichiamo come contributo alla discussione sulle elezioni presidenziali francesi.
Chiariamo anzitutto un dato: chi scrive ha la doppia cittadinanza, italiana e francese, e al primo turno delle Presidenziali 2017 ha votato Jean-Luc Mélenchon. Prima di procedere all’analisi del secondo turno è opportuno ragionare complessivamente sulla situazione internazionale attuale.
Le difficoltà della borghesia internazionale
In tutti i paesi occidentali si sta assistendo ad una polarizzazione sempre più spiccata tra chi accetta il sistema liberista vigente e chi invece lo osteggia e combatte. Per sistema liberista vigente si intende il modo di produzione capitalista giunto al suo livello estremo dell’imperialismo, che consiste nel dominio incontrastato della grande finanza e, in subordine ma in collegamento dialettico, della grande industria monopolista o oligopolista.
Questo imperialismo, presente in ogni grande potenza occidentale a capitalismo avanzato (USA, Gran Bretagna, Francia, Italia, Germania), si sviluppa in maniera contraddittoria, da un lato mantenendo accordi politico-militari (incarnati anzitutto dalla NATO) nel tentativo di ricolonizzare il “Terzo Mondo”, dall’altro si dilania al proprio interno, esacerbando le contraddizioni nello scontro d’interessi delle borghesie nazionali europee. Quest’ultimo aspetto emerge nelle difficoltà dell’integrazione europea, una sovrastruttura politico-economica costruita volutamente incompleta al fine di favorire l’attacco frontale al mondo del Lavoro e al Welfare State ottenuto dai movimenti operai nella seconda metà del ‘900.
Lo scontro sempre più evidente all’interno del variegato campo borghese è tra un settore della classe dominante più industriale, nazionale, protezionista, corporativista e antiglobalista, e un settore più finanziario, cosmopolita, liberista, imperialista e globalista. Entrambi i settori sono uniti chiaramente da un’ottica ferocemente anti-operaia, anti-comunista e classista e non mettono minimamente in discussione il modo di produzione capitalistico. Entrambi condividono nei fatti un’ottica più o meno implicitamente razzista, neocolonialista, imperialista e guerrafondaia. La differenza principale è però che il primo settore è stato sempre più indebolito (con alcune eccezioni, come quella tedesca) dalla costruzione liberista dell’Unione Europea e dallo strapotere crescente della finanza internazionale, ossia dall’accentuazione dei processi di concentrazione dei capitali finanziari e dell’estensione di potere delle imprese multinazionali.
Dopo quasi 30 anni di trionfo incontrastato della borghesia finanziaria, da un lato le contraddizioni insite nel sistema capitalistico (con tutto ciò che concerne in termini di accentuazione delle disuguaglianze, povertà diffusa, deindustrializzazione, riduzione dei diritti, ecc.), da un altro lato la perdita progressiva di peso economico e geopolitico del “blocco atlantico” a discapito della crescita dei BRICS (sulla cui natura politica ed economica non c’è qui tempo e luogo di analisi), hanno portato in molti Paesi occidentali ad una situazione di impoverimento progressivo (in certi casi in termini relativi, in altri in termini assoluti) non solo della classe operaia “occidentale”, ma anche di ampi settori della cosiddetta “classe media”, un termine ambiguo che a seconda del paese può includere l’aristocrazia operaia, il “lavoro della conoscenza” e il lavoro nei servizi. È quel processo che Marx descriveva come “proletarizzazione” della piccola e media borghesia. Le classi popolari più svantaggiate hanno negli anni capito, seppur a livello per lo più istintivo e non pienamente cosciente, la natura reazionaria delle politiche dominanti neoliberiste-finanziarie, identificandole talvolta con l’incapacità delle “caste” politiche piuttosto che analizzandone il nucleo economico-sociale di classe. Dopo la caduta dell’URSS per più di 20 anni l’Occidente è stato governato da partiti popolari (centro-destra) e socialdemocratici (centro-sinistra) all’insegna delle stesse politiche neoliberiste, ossia fondate sul primato della finanza cosmopolita. Oggi questo blocco è ancora dominante in Europa, ma emerge sempre più la difficoltà complessiva della borghesia a governare con i metodi e gli apparati politici usati in passato. Non è un caso il fatto che in Francia per la prima volta siano rimasti esclusi dal ballottaggio i due partiti storici (gollisti e socialisti) della Francia repubblicana.
Questa situazione ha portato ad una crescita esponenziale di percorsi alternativi antiglobalisti: da un lato il ritorno in grande stile di proposte politiche fondate sul ripristino di economie industriali nazionali; dall’altro il tentativo di uscire dal neoliberismo da sinistra, attraverso la riproposizione di ricette keynesiane, con tendenze radical-populiste, riformiste, ma in ultima istanza non rivoluzionarie. Se la prima strada rimane nel solco del capitalismo ed è stata quella tracciata da fenomeni come Trump e Brexit, la seconda è quella tracciata, in varietà diverse, dalle sinistre radicali europee (Tsipras, Iglesias, Mélenchon) e dal tentativo di rilancio classista del labourismo inglese da parte di Corbyn. Entrambi i percorsi mettono apparentemente in crisi il sistema vigente, se spinti alle estreme conseguenze, tant’è che sono bollati come forze “anti-sistema”, “estremiste”, “populiste” dai media e dall’intellighenzia controllati dall’imperialismo finanziario. In realtà solo il secondo rischia potenzialmente di mettere in discussione o di ridimensionare i rapporti di potere capitalistici, anche se il dato non è scontato, e si è visto bene nel caso greco.
Uno dei nodi fondamentali è la posizione sull’Unione Europea: la posizione morbida e riformista di Tsipras si è rivelata fallimentare. Sempre più emerge la consapevolezza, sia a destra che a sinistra, seppur per progetti politici opposti, della necessità di rompere con questa struttura imperialista, ma ancora manca la consapevolezza totale e radicata, mentre rimangono arretramenti, opportunismi, incertezze, dovuti in primo luogo ad una inadeguatezza ideologica e programmatica di fondo delle organizzazioni di sinistra.
La buona notizia: il crollo dei socialisti di Hamon e Hollande
Il partito socialista francese è stato “pasokizzato”, ossia quasi distrutto. Questo per noi comunisti è il dato politico più rilevante delle Presidenziali francesi: il sorpasso netto della sinistra antiliberista guidata da Jean-Luc Mélenchon (e sostenuta dal Partito Comunista Francese) di contro al fallimentare partito social-liberista (solo nominalmente di sinistra) incarnato da Hamon che prende un terzo dei consensi rispetto ad una Sinistra formata da forze socialdemocratiche, antiliberiste, anticapitaliste e comuniste. Mélenchon non è Lenin e il suo movimento non è il partito bolscevico, né è esente da contraddizioni, ma il segnale è storicamente significativo, specie perché si aggiunge alle tendenze già viste in Spagna e Grecia, dove ugualmente sinistre antiliberiste hanno ormai ridotto le vecchie forze socialdemocratiche organiche al PSE e quindi alla finanza internazionale ad un ruolo minoritario nel campo della “sinistra”. La tendenza in atto è quindi storica e rimette al centro la possibilità di sviluppare un discorso politico di sinistra non minoritario ma di massa, fondato su ricette economiche che propongono un percorso di effettiva progressività e di miglioramento delle condizioni dei lavoratori. Le contraddizioni però rimangono nel campo di queste formazioni: lo sbandamento ideologico subito dopo il 1991 ha portato in molti casi al ripudio o alla messa in minoranza di posizioni teoriche marxiste-leniniste le quali rimangono in ultima istanza le più avanzate mai elaborate dal movimento operaio per poter risolvere alcuni nodi decisivi quali: la capacità di svolgere un’analisi adeguata della realtà, l’elaborazione di un programma politico all’altezza della fase, la costruzione di un’organizzazione proletaria efficace, ecc.
Le società occidentali sono ormai sempre più colpite dall’americanizzazione (ossia spettacolarizzazione, de-ideologizzazione e personalizzazione) della politica, e in tal senso il ricorso ad una strategia comunicativa “populista di sinistra” può senz’altro essere utile per ampliare i propri consensi popolari. In questo senso Jean-Luc Mélenchon è stato certamente maestro di oratoria e di tattica. Rimane il problema della necessità di chiarirsi sull’obiettivo strategico e sulle modalità adeguate per giungervi. Nel momento in cui si avvicina storicamente la prospettiva di un ritorno al potere di forze di sinistra che si presentano come “antisistema”, occorre domandarsi cosa si voglia fare e come realizzarlo. L’obiettivo è riformare il capitalismo recuperando sovranità nazionale e popolare oppure l’obiettivo è rivoluzionare i rapporti di produzione? È possibile pensare di ottenere uno qualsiasi di tali obiettivi senza avere un’organizzazione di massa radicata sul territorio e capace di sostenere attivamente un processo politico rappresentato mediaticamente da un leader? Non bisogna infatti dimenticare che se Mélenchon ha potuto raggiungere il consenso di un francese su cinque, ciò è dovuto anche in buona misura al sostegno attivo del Partito Comunista Francese (PCF), presente sul territorio nazionale con più di 100 mila iscritti. Su tali questioni devono ragionare coloro che si dichiarano di sinistra e i comunisti.
Macron o Le Pen
Per ora però l’attenzione è concentrata sul ballottaggio del secondo turno, che vedrà opposti Macron e Le Pen. Pierre Laurent, segretario del PCF, ha già chiamato al voto repubblicano e antifascista a favore di Macron. Mélenchon invece ha lasciato libertà di coscienza, unico tra i big a non essersi schierato con Macron. La posizione più adeguata è quella di Mélenchon, mentre Laurent conferma che anche nel PCF rimangono problemi di cultura politica notevole (in Italia diremmo “togliattismo deteriore”), che fanno ben capire come mai negli anni sia nato alla sinistra e dentro il PCF il Pôle de renaissance communiste en France (PRCF), che si richiama da un ritorno al marxismo-leninismo e che non a caso ha espresso una posizione in linea con quella di Mélenchon, fin qui sostenuto criticamente.
Perché Laurent sbaglia? Perché dall’analisi fatta inizialmente risulta evidente come lo scontro tra Macron e Le Pen sia uno scorso tutto interno alla borghesia: Macron è il tipico sostenitore della borghesia finanziaria, cosmopolita, liberista, imperialista e globalista, tant’è che è stato il cocco della Banca Rothschild, nonché membro del Club Bilderberg e accanito sostenitore dell’Unione Europea. Le Pen, sulla scia di Trump, propone un programma teso a fare gli interessi della borghesia industriale, nazionale, attraverso un programma protezionista, corporativista, sociale (ma antisindacale) e antiglobalista, con l’aggravante che in questo caso siamo di fronte alla leader di un’organizzazione neofascista, razzista, militarista e guerrafondaia-imperialista: nonostante la richiesta di uscire dalla NATO (“Quitter le commandement militaire intégré de l’OTAN pour que la France ne soit pas entraînée dans des guerres qui ne sont pas les siennes”, tradotto: “lasciare il comando militare integrato della NATO perché la Francia non sia trascinata in guerre che non siano le proprie”) nel programma si propone infatti un aumento delle spese militari e non si esclude certo il ricorso a proprie guerre nazionali offensive di conquista (le quali peraltro non hanno cessato di esserci neanche sotto la Presidenza Hollande).
Macron e Le Pen sono due facce della stessa medaglia: quella del capitalismo.
Qualche marxista sostiene la necessità di votare la Le Pen perché questa nel suo programma “euroscettico” propone un referendum sulla permanenza nell’Unione Europea, ed un’uscita della Francia porterebbe ad una crisi irreversibile di tale struttura imperialistica, con la possibilità anche per l’Italia di recuperare sovranità nazionale e popolare. Il ragionamento è sofistico e peregrino: ammesso che sia vero che la Le Pen possa portare ad una caduta dell’UE, possiamo davvero pensare che i comunisti debbano contribuire attivamente a tale esito sostenendo un’organizzazione fascista e un processo guidato da politiche economiche di destra, e quindi perfettamente in linea con il capitalismo? Bisogna sempre ricordare infatti che la pur necessaria rottura dall’UE può avvenire in diverse maniere, ma che solo quando segua un percorso “da sinistra” possa avere conseguenze benefiche nel medio-lungo termine per le classi lavoratrici. I marxisti sanno che l’UE o troverà il modo di completarsi attraverso degli “Stati Uniti d’Europa”, oppure sarà prima o poi inevitabilmente destinata allo smembramento, più o meno pacifico. Pensare di poter accelerare il primo processo è stata per anni (e lo è tuttora per molti purtroppo) la richiesta fallimentare della sinistra (sia socialdemocratica, sia radicale) europea, coi ringraziamenti della borghesia cosmopolita finanziaria. Pensare di poter accelerare il secondo processo sostenendo una progettualità di uscita tra le più reazionarie e classiste possibili sarebbe un vero e proprio suicidio. I sedicenti marxisti che sostengono queste posizioni ricordano quei socialisti della Prima Internazionale che affermavano la necessità di sostenere il colonialismo europeo nel mondo in quanto civilizzatore e portatore dello sviluppo dei mezzi di produzione capitalistici in società feudali. Siamo insomma al dogmatismo, al determinismo storico, non certo ad una corretta applicazione del materialismo storico e dialettico, unica guida adeguata di un buon comunista.
Ai comunisti non rimane quindi che denunciare sia Macron che Le Pen come reazionari al servizio delle classi dominanti, lasciare certamente libertà di coscienza nel voto ma suggerendo l’astensione o un segnale forte attraverso la scheda nulla. Dare indicazioni per l’uno o per l’altra potrebbe rivelarsi negli anni a venire un fattore di scarsa coerenza politica, se non un errore da pagare carissimo, come afferma giustamente anche Emiliano Brancaccio. Per queste ragioni io il 7 maggio annullerò la scheda o diserterò le urne, sperando che da subito il PCF e Jean-Luc Mélenchon possano sfruttare queste elezioni per ragionare su sé stessi, sui propri obiettivi strategici e su come rafforzare un’organizzazione rivoluzionaria di classe che si ponga all’opposizione netta di qualsiasi restyling escogitato dalla borghesia francese. Solo con un percorso di questo genere sarà possibile pensare di prendere il potere nel 2022.