di Spartaco A. Puttini per Marx21.it
“La scimmia del IV Reich ballava la polka sopra il Muro e mentre si arrampicava le abbiamo visto tutti il culo” Fabrizio De André
Il governo Monti può esibire solamente un lungo elenco di fallimenti. Nonostante l’impegno profuso nei forsennati tagli la politica di austerità ha prodotto una tale riduzione del Pil che il rapporto tra questo e il debito è aumentato anziché diminuire. L’attacco al tenore di vita delle classi medio-basse ha impedito di rilanciare la domanda e ha bloccato i consumi interni. L’attacco al mondo del lavoro ha favorito i licenziamenti e non le assunzioni, come era prevedibile. La politica restrittiva del credito e la depressione del mercato interno stanno mietendo sempre più imprese e sollevando aperte critiche anche in settori della Confindustria, che cominciano ad auspicare l’adozione di misure espansive e anticicliche. Non ci vuole molto a capire che Monti lascerà il paese peggio di come lo ha ereditato, il che è tutto dire.
La lista dei fallimenti è talmente imbarazzante e la perversa pertinacia con la quale ottusamente si persevera nel riproporre le ricette di un modello neoliberista fallito ovunque spingono a porre la fatidica e popolaresca domanda: “ma ci è o ci fa?”
Il fatto che le ricette neoliberiste falliscano sistematicamente rispetto agli obiettivi che ufficialmente si propongono di centrare e il fatto che producano sistematicamente un diffuso impoverimento dei paesi che le applicano non deve trarre in inganno. Per le ristrette élites del capitalismo monopolistico finanziario con tentacoli transnazionali queste politiche rappresentano un lucroso affare. La credibilità che Monti può esibire, e per la quale viene tanto lodato, è quella dovuta alla familiarità con gli ambienti della finanza, con gli addentellati del potere statunitense e con i settori della tecnocrazia europea di cui cura gli interessi.
In Italia le politiche liberali di Berlusconi (nella sua versione lassista) e di Monti (nella sua versione rigorista) hanno prodotto un significativo trasferimento di ricchezza dalle tasche del popolo a quelle delle oligarchie. La presente crisi, come sempre avviene nella storia del capitalismo, rappresenta anche l’opportunità per ridisegnare i rapporti di forza tra le classi sociali e le quote di bottino tra i vari gruppi capitalistici e, su scala geopolitica, tra le varie Potenze, anche e soprattutto all’interno della Triade dei paesi capitalistici avanzati (la cui secolare supremazia è messa in discussione dall’ascesa dei paesi emergenti).
Le righe che seguono hanno lo scopo di evidenziare solamente un aspetto particolare della presente crisi. Quello legato alle tensioni divaricanti interne all’eurozona dovute all’ormai riconoscibile tentativo di germanizzazione della Ue; tensioni aggravatesi a seguito dello scoppio della crisi.
L’attacco della speculazione finanziaria ai paesi periferici e semiperiferici dell’eurozona ha evidenziato i limiti strutturali del processo di integrazione che è stato scelto per l’Europa e pone i popoli delle nazioni che hanno aderito a questo progetto di fronte all’ipotesi tutt’altro che remota del deragliamento dell’Unione europea.
– Cessione della sovranità e reazione liberale
La costruzione dell’Unione europea è stata ideata e realizzata sulla base della convinzione che i paesi membri dovessero cedere quote di sovranità in modo crescente alle istituzioni comunitarie (come se la sovranità fosse spacchettabile). L’apoteosi della logica della cessione di sovranità si è avuta quando alcuni paesi dell’Unione si sono trovati coinvolti nell’uragano della crisi. Nei paesi più esposti agli assalti speculativi della finanza (Grecia, Italia) si è assistito all’insediamento di tecnici di provata fede liberista e di sicura commistione con le tecnostrutture europee e con gli istituti finanziari più discussi a causa del loro comportamento disinvolto sul mercato, come Goldman Sachs.
Il processo di cessione di sovranità non è stato in alcun modo compensato dalla costituzione di istituzioni democratiche rappresentative dei popoli della Ue a livello comunitario. In effetti non è l’europarlamento il centro del potere ma la Commissione e la Banca centrale appaiono come i veri centri decisionali. Centri slegati da qualsiasi vincolo elettivo. L’Unione non è partita con la gamba politica ma con la gamba dell’integrazione tra mercati e per i mercati. Surrogare questo dato di fatto con il ricorso alla retorica dei tanto desiderati Stati Uniti d’Europa non serve a risolvere il problema.
Ora, per quanto possa apparire paradossale, invocare un ulteriore cessione di sovranità (come se non avessimo già abbastanza le mani legate) per supplire sul piano politico ai difetti del processo unitario comporterebbe solo un ulteriore rischio di stringere la camicia di forza neoliberista ed impedire che a livello degli Stati nazionali (naturali ambiti dell’esercizio della sovranità e della partecipazione) si possano attuare, sotto la spinta popolare, delle misure in grado di fronteggiare la crisi. Saremmo di fronte all’ennesima torsione autoritaria.
E’ opportuno notare che i trattati che hanno forgiato l’Unione sono stati partoriti durante l’infausto periodo del Washington Consensus, quando nei tre quarti dello spettro politico si tessevano sperticate lodi alle fallimentari credenze neoliberiste e all’utopia della virtuosa capacità dei mercati di autoregolarsi provocando benefici alla collettività. Pertanto i trattati, quantomeno da Maastricht in poi, pongono seri limiti all’esplicarsi di politiche espansive basate su un deciso intervento pubblico in economia e esaltano dogmaticamente l’indipendenza delle banche centrali dai governi. Cioè tendono a scongiurare l’applicazione di quelle politiche che potrebbero portarci fuori dalla crisi. Ad esempio contrastano l’idea che le banche centrali nazionali e che la Banca centrale europea possano svolgere il ruolo di prestatore di ultima istanza. Questo lascia gli Stati in balìa dei mercati, perché costretti ad indebitarsi per finanziarsi, con grande profitto della finanza privata e delle Potenze più avvezze a questo gioco usuraio. Oppure dietro il paravento delle politiche antitrust e delle autorities possono cercare di ostacolare una politica industriale pubblica. Su un piano più generale i trattati vengono considerati come superiori alle leggi nazionali dei paesi membri che sono chiamati ad adeguarsi alla normativa europea. E’ evidente il conflitto che si viene a creare tra la nostra Costituzione, ispirata ad idee e propositi socialmente avanzati, e il retrivo carattere liberista dei trattati europei. Attualmente il tentativo di iscrizione del vincolo del pareggio di bilancio nella Costituzione mira ad introdurre un corpo estraneo nel patto nazionale che ha lo scopo di sabotare la politica sociale (oltre che la logica stessa degli investimenti in ambito macroeconomico)1 aprendo il welfare alla penetrazione ancor più pervasiva dei capitali privati e alla mercificazione dei servizi.
Secondo alcuni analisti vi sono nei trattati sparuti articoli che, impugnati, consentono di derogare dagli aspetti più ottusamente draconiani e i paesi membri possono ricorrere al diritto di veto qualora ritengano che i loro vitali interessi siano in gioco. Ma ciò non toglie che questo concreto processo di costruzione dell’Unione europea abbia rappresentato in questi decenni e rappresenti tuttora un ariete reazionario grazie al quale vengono espugnate tutte le casematte che il movimento operaio aveva pazientemente costruito dal secondo dopoguerra in poi per migliorare le proprie condizioni di vita e lo stesso livello della civiltà europea. Oggi si può vedere che il modello sociale europeo tanto magnificato non era un dato naturale che stava in piedi da solo e che addirittura l’incedere di questo processo di integrazione ha rappresentato lo strumento e l’alibi con cui le oligarchie europee lo hanno ferito a morte. Alla faccia di quanto spacciato ai rispettivi popoli in merito alla costruzione degli Stati Uniti d’Europa ciò a cui stiamo assistendo è un sabba sanguinario attorno ad un totem sul quale si proiettano da più parti speranze destinate ad andare in frantumi.
Alla faccia della solidarietà tra popoli europei, che dovrebbe rappresentare il cemento per la costruzione di qualsiasi processo unitario, assistiamo all’esplodere di tensioni ed egoismi di ogni tipo all’interno di una logica di competizione distruttiva tra i paesi membri basata sulla corsa al ribasso dei salari e delle condizioni di vita.
– La favola dei porcellini e la realtà del lupo tedesco
Una delle numerose favole che ci vengono quotidianamente propinate è quella dei “porcellini” (i PIGS) che hanno vissuto al di sopra delle proprie possibilità e hanno fatto i furbetti con le regole stabilite in sede europea mettendo a rischio non solo se stessi ma anche la Ue e chiamando i paesi virtuosi, come la Germania, in eroico soccorso. La realtà è ben diversa. In questa storia non ci sono virtuosi e viziosi ma soltanto interessi. E quelli che lucra la Germania ingrassando i “porcellini” e il loro debito sono di gran lunga i più corposi. I paesi periferici e semiperiferici dell’eurozona non dovrebbero essere troppo orgogliosi della disponibilità dell’algida e difficile, ma pur sempre “munifica”, Germania a erogare capitali e prestiti perché, in genere, si ingrassano i maialini per mangiarli. Fuor di metafora chi ha problemi di debito e si trova sempre più provato dai tassi di interesse sul debito che ha accumulato dovrebbe evitare di indebitarsi ulteriormente solo per tirare a campare. (Come succede alla Grecia, dove le politiche di austerità deprimono la domanda, e aumentano la percentuale di debito in rapporto al Pil mentre l’economia collassa impedendo di uscire dalla crisi e aggravandola. Ma in Grecia l’unica cosa che è stata salvata sono le banche, verso le quali sono esposti gli istituti di credito tedeschi).
Sin dall’inizio era noto che vi fossero delle disparità tra i paesi che hanno adottato la moneta unica. Non a caso il progetto fu criticato da molti economisti di primo piano in tempi non sospetti2. Per quanto riguarda più specificamente l’Italia la competitività italiana nei confronti della Germania era data, tra le altre cose, dalla possibilità di svalutare la propria moneta in modo da facilitare la riduzione delle importazioni (anche dalla Germania) e di aumentare le esportazioni (anche verso la Germania). Il cambio fisso e la moneta unica hanno tolto all’Italia queste armi e hanno favorito gli investimenti di capitali tedeschi nei paesi periferici e semiperiferici dell’eurozona. Ai capitali sono seguite le merci, mentre il panorama industriale italiano veniva fiaccato dalle privatizzazioni e dalla politica di deregolamentazione attuata in questi 20 anni.
L’Italia è storicamente stata un paese affetto da carenza di capitali di comando e dopo la sua tardiva unificazione politica era naturale che un impulso importante allo sviluppo venisse dall’intervento necessario dello Stato in economia con funzioni di tutela e orientamento. Questo intervento si è caratterizzato in modo diverso a seconda delle diverse fasi vissute dal paese, ma questa è un’altra storia. Ai fini del presente contributo ci preme sottolineare che è stato grazie all’intervento pubblico nei settori strategici che è stato possibile trasformare l’Italia in una moderna potenza industriale che ha garantito, nonostante tutto, un maggiore benessere ed una maggiore promozione sociale per i suoi cittadini. L’abbandono di questa politica ha azzoppato la competitività del sistema paese e ha dimostrato l’assoluta gracilità di molti dei “grandi” imprenditori italiani rispetto ai loro concorrenti europei come anche l’inadeguatezza di parte rilevante delle microimprese a stare in campo senza una vigorosa corazzata pubblica alle proprie spalle.
Il fluire dei capitali e delle merci del centro tedesco verso i partner europei ha reso sempre più drammatica l’esposizione della loro bilancia dei pagamenti nei confronti della Germania. Da cui la riconosciuta debolezza della loro posizione. Da cui la loro vulnerabilità alla speculazione finanziaria internazionale. Da cui la disparità del tasso di interesse pagato da questi paesi rispetto alla Germania.
La Germania ha chiaramente le sue responsabilità in questa vicenda. Ha sistematicamente speculato sulla inferiore competitività strutturale dei PIGS ingolosendoli e impiccandoli ai prestiti mentre la sua industria li inondava sfruttando il mercato comune e la parità di cambio. Ancora oggi la Germania guadagna dalla situazione, che che ne dicano gli austeri politici tedeschi e il loro circo mediatico: non a caso una delle condizioni poste alla Grecia per lo sblocco di ulteriori prestiti è consistito nell’impegno di Atene a comprare ancora prodotti tedeschi (tra cui costosi, e per la Grecia inutili, sistemi d’arma).
La Germania ha condotto sistematicamente un gioco al massacro che i paesi periferici e semiperiferici dell’eurozona non potevano reggere. Ha attuato una brutale politica di deflazione salariale che ha inaridito le possibilità del mercato interno di assorbire prodotti provenienti dal Sud innescando una competizione al ribasso tra i salari europei. Ha potuto farlo nella assoluta mancanza di una comune cornice di armonizzazione delle politiche del lavoro e delle politiche fiscali tra i paesi dell’eurozona. Limite grosso cui il futuro governo italiano dovrebbe porsi seriamente il compito di porre rimedio.
Il prezzo che il popolo tedesco paga è una quota rilevante di working poor, lavoratori poveri, tenuti in piedi grazie a un surrogato di welfare che la Germania può sostenere perché, a fronte di questa macelleria sociale, batte economicamente i rivali europei trasformandoli in propri mercati di sbocco, in proprie semicolonie commerciali. Un classico dell’imperialismo.
– La Ue come grande spazio aggregato del IV Reich
Ovviamente, nonostante le politiche di Monti, l’Italia non può competere con la Germania nella rincorsa verso il basso dei salari. Perderebbe comunque. Anziché farsi dettare i compiti a casa dalla Merkel dovrebbe avviare un serio negoziato in sede europea al fine di rivedere radicalmente i trattati, giungere ad una armonizzazione delle politiche fiscali e arrivare a siglare uno standard salariale a tutela delle politiche del lavoro che costringa la Germania e reflazionare i salari e ad assumersi davvero oneri proporzionali ai vantaggi che per ora ha ottenuto farcendo i PIGS di debiti fino a soffocarli.
La politica della Germania unita non ha rappresentato in questi anni un elemento di stabilità e crescita per l’integrazione ma un problema che diviene sempre più acuto. L’orientamento della politica tedesca è sempre più in rotta di collisione con lo spirito di una costruzione comunitaria e, per l’ennesima volta nella storia, sembra ambire a trasformare l’Europa in un grande spazio aggregato egemonizzato dal grande capitale teutonico. Questa volta non tramite gli elmi chiodati o le Panzerdivisionen ma grazie alla Bundesbank. Persino la Francia perde il confronto con la Germania in quasi tutti i campi (dalle quote di commercio mondiale al rapporto tra ricerca scientifica e Pil) ad eccezione dell’aerospaziale3. Nel 2010 per l’FMI il Pil tedesco ha superato quello francese del 28%!4
In relazione all’Italia, l’andamento del nostro interscambio con la Germania è allarmante. Nel 2011 il nostro paese risultava in passivo in molti settori tecnologicamente di punta (autoveicoli, elettronica, chimica) e persino nell’alimentare5.
La Germania ha senza dubbio svolto una politica più lungimirante e ambiziosa dei suoi concorrenti capitalisti europei. Ha, ad esempio, eseguito una delocalizzazione che ha riguardato solo le fasi a basso valore aggiunto della produzione, salvaguardando il personale tecnico specializzato anziché inseguire il miraggio della competitività slegata da investimenti nella innovazione tecnologica. Ha assunto una politica di rinascita imperialista; riqualificando il settore manifatturiero, imponendo il punto di vista della Bundesbank in sede europea ben prima della nascita dell’euro, svolgendo un’aggressiva politica commerciale mercantilista.
Tale capacità non deve però ottenebrare la vista. Tali risultati sono stati raggiunti sulle spalle dei lavoratori tedeschi e dei partner comunitari, ora trattati alla stregua di “maiali”.
Occorre tenere presente che l’adozione della “Agenda 2010” ha esteso il precariato, colpito il potere contrattuale dei sindacati e moltiplicato i lavoratori poveri. L’Agenda 2010 è stata l’opzione strategica della socialdemocrazia tedesca nell’era Schroeder. Come tutte le socialdemocrazie europee anche l’SPD si è appiattita sul neoliberismo e ha pagato questa politica antipopolare con la scissione della sua ala sinistra che, guidata da Lafontaine, ha dato vita alla Linke (con gli eredi della Sed della DDR). Chi nutre aspettative sugli effetti di una possibile, ancor che improbabile, vittoria socialdemocratica alle prossime elezioni tedesche tenga conto che l’SPD ha deciso di candidare un esponente della destra del partito, già ministro delle Finanze nel primo governo Merkel di Grosse Koalition.
L’aspetto più rapace della politica assunta dalla Germania è forse evidenziato dalla trasformazione della Deutsche Bank in banca d’investimento attratta da operazioni speculative, particolarmente a proprio agio nel mondo della libera circolazione dei capitali. In prospettiva Francoforte vuole diventare una piccola Wall Street competendo con l’AngloAmerica sul suo stesso terreno ma tenendo ferma la barra sull’importanza dell’industria manifatturiera. Detto questo la propensione del grande capitale tedesco a rischiare in attività speculative è crescente e guarda oltre l’Europa da colonizzare. L’euro serviva in prospettiva a preparare una moneta di scambio internazionale concorrenziale con il dollaro e nel frattempo a facilitare la germanizzazione dell’Europa trasformando i paesi periferici e semiperiferici nei propri mercati di sbocco prima e di shopping a buon mercato di risorse (umane e materiali) poi.
– Verso un suicidio annunciato
Non esistono soluzioni migliori, nel senso neutrale del termine. In un sistema le forze che occupano il centro cercano di imporre a chi è alla periferia misure che volgono a loro esclusivo vantaggio. Occorre averne coscienza.
E’ evidente che le attuali politiche di austerità facciano il gioco della Germania e del processo di centralizzazione dei capitali a guida tedesca. Seguendole i “porcellini” vanno dritti al mattatoio.
Ma cosa accadrà quando la depressione del loro mercato ridurrà in modo significativo il flusso di importazioni del Sud dei prodotti tedeschi? Subendo l’onda riflessa delle sue politiche Berlino si ricrederà e scenderà a più miti consigli? E’ quanto sperano in molti in Europa, anche a sinistra (da Bersani a Syriza). L’idea è che la Germania non potrà continuare a tirare la corda e prima o poi dovrà trattare, minacciata dalla sua stessa ingordigia.
Personalmente non sono affatto sicuro che finirà così. La Germania sia sta già preparando al secondo round. La quota di export tedesco rivolto all’interno dell’eurozona è già in leggero calo a fronte di un incremento verso i paesi emergenti6. Nel terzo trimestre del 2012 le esportazioni tedesche verso paesi extraeuropei sono cresciute fino al 44,4% (in un anno sono aumentate di quasi 10 punti percentuali) mentre quelle rivolte all’interno della Ue hanno subito una flessione.
Il processo non sarà breve, ma dopo aver desertificato l’Europa la Germania punterà più in alto disponendo di una manodopera a basso costo, noi. Dopo aver costretto i paesi indebitati a cedere quote sempre più rilevanti di sovranità fino a divenire dei satelliti in cambio di ulteriori prestiti, che sono ulteriori debiti, arriverà il punto in cui la centralizzazione dei capitali attorno alla Germania sarà rodata per fare shopping a buon mercato di strutture produttive e infrastrutture nei PIGS.
Saremo così una semicolonia politica statunitense e una semicolonia commerciale tedesca. Vanno poi messi in conto i danni prodotti dal veleno della reciproca sfiducia che viene istillata irresponsabilmente da media e politici dei vari paesi nei confronti degli altri partner comunitari. Un veleno che pare destinato a lasciare strascichi e per il quale non sarà facile trovare un antidoto.
– Questione nazionale e questione europea
Occorre aprire gli occhi e vedere che questa politica non sta affatto salvando l’integrazione europea ma la sta mandando a fondo. Mentre i popoli europei vivono condizioni di drammatico impoverimento il sentimento euroscettico e antitedesco cresce. I greci hanno già dipinto la Merkel come una novella nazista e in Spagna “El Pais” parla di “assalto tedesco” e chiama in causa il presunto ruolo avuto dalla Deutsche Bank nell’attacco speculativo ai paesi periferici e semiperiferici dell’eurozona7.
Correggere gli squilibri delle bilance dei pagamenti, cessare le politiche di austerità e riformare radicalmente i trattati europei mondandoli dalle impurità neoliberiste dovrebbe figurare come obiettivo prioritario di un governo che voglia porre le basi per trascinare il paese fuori dalla crisi. Stare nel solco delle politiche sin qui seguite è controproducente e contrario agli interessi nazionali. Non serve nascondersi dietro gli slogan della religione europeista perché è proprio la strada che stiamo seguendo quella che rischia di far deflagrare l’euro e l’unione.
E’ lecito attendersi che la Germania non rinuncerà facilmente al vantaggio accumulato e che il grande capitale tedesco non cambierà i suoi propositi se Berlino non verrà sottoposta a una forte pressione. Per questo non è credibile presentarsi ai vertici europei con il cappello in mano ed è credibile invece picchiare i pugni sul tavolo. L’Italia può giocare un ruolo in questo senso perché se minacciasse una sua uscita non solo dall’euro ma anche dal mercato comune ne potrebbe provocare la deflagrazione e infliggere dei danni alla politica tedesca molto più alti di quelli riceverebbe dal restare nell’euro al prezzo imposto dalla Germania. Molti economisti tedeschi ne sono già coscienti, come dimostra un articolo di Walter Münchau apparso recentemente su “Der Spiegel”.
Certamente simili misure vanno considerate quale ultima ratio, ma siamo in corsa contro il tempo: o si prepara un’uscita dalla crisi da sinistra o per l’Italia rischia di iniziare un nuovo medio evo. E’ ora che il paese faccia sentire la sua voce in sede europea, dove tace da troppo tempo.
Per attuare queste politiche occorre certamente una chiara visione dell’interesse nazionale, il coraggio di fare scelte strategiche adeguate come reintrodurre il controllo sui capitali, nazionalizzare il settore creditizio, riscoprire la programmazione e avviare una qualificata politica industriale. Ripristinare ed estendere i diritti sociali e riportare al centro del discorso pubblico il lavoro è necessario, ma slegato da un impianto più ampio rischia di non essere sufficiente.
Puntare sulla revisione dell’architettura europea al fine di rilanciare su basi diverse l’integrazione europea resta un passaggio necessario. Al contrario rifugiarsi in una sterile retorica europeista e lasciare a demagoghi liberali appena camuffati la possibilità di mimetizzarsi dietro la battaglia vitale della difesa della sovranità nazionale sarebbe un errore imperdonabile foriero di aprire le porte alle peggiori catastrofi.
La battaglia per la difesa della sovranità nazionale, per il rilancio economico e sociale del paese e per un’altra Europa diversa dalla Ue, dalle ambizioni e dai confini più ampi e che sia rispettosa dei vari popoli e delle varie nazioni che la compongono, deve essere patrimonio irrinunciabile di una sinistra patriottica e di classe.
NOTE
1 Di veda l’intervista di Daniele Nalbone a Vladimiro Giacché: Approvato il vincolo di bilancio, Vladimiro Giacché: “Da oggi Keynes è fuorilegge. Impossibile investire”: http://temi.repubblica.it/micromega-online/approvato-il-vincolo-di-bilancio-vladimiro-giacche-da-oggi-keynes-e-fuorilegge-impossibile-investire/
2 Si veda in proposito lo scritto di Nicholas Kaldor, Effetti dinamici del Mercato comune, del 1971 di cui alcuni passaggi sono disponibili online: http://keynesblog.com/2012/10/08/i-difetti-delleuro-spiegati-30-anni-prima-che-nascesse-dalleconomista-keynesiano-nicholas-kaldor/
3 M. D’Angelillo, L. Paggi, Deutschland, Deutschland…über Alles; in: AA.VV. (a cura di S. Cesaratto e M. Pivetti), Oltre l’austerità; Roma Micromega 2012, p.63
4 Ibidem, p.64
5 Ibidem, pp.66-67
6 Tra il 2008 e il 2010 l’export verso l’eurozona diminuisce dal 43 al 41% del totale e quello verso i Brics aumenta dal 12 al 16%. Si veda: M. D’Angelillo, L. Paggi, op. cit., p.75
7 M. Ballbé, Y. Cabedo, L’assalto tedesco alla Spagna; www.comedonchisciotte.org 5/12/12