L’Europa come campo di battaglia tra USA e Cina

usa cina vignettadi Pasquale Cicalese e Filippo Violi per Marx21.it

“Dal nostro punto di osservazione italiano, disegniamo un perimetro di conflitti incrociati, da ciò che resta della Libia a ciò che resta dell’Ucraina passando per Golfo e Mar Nero, salvo rientrare a Parigi nel cuore dell’Europa. Ne osserveremo interdipendenze ma anche irriducibili specificità locali, proiettandole sullo sfondo  della competizione geopolitica per eccellenza, quella fra Stati Uniti e Cina per il primato mondiale. (…) La cifra della geopolitica planetaria è oggi il  disordine. Come in ogni fase di caos sistemico si forma una domanda di ordine. Stati Uniti e Cina sono i massimi soggetti  in competizione per intercettarla, legittimarsi come cofondatori del nuovo ordine e affermarsi quali egemoni globali.(…) Forse un giorno i due contendenti  stabiliranno che il migliore degli ordini mondiali possibili per entrambi è riscrivere insieme le nuove regole del gioco”. Lucio Caracciolo (direttore Limes), Il foglio 16 novembre 2015

Alle ore 15:00 del 13 novembre, a poche ore dall’attentato a Parigi, i data base finanziari di tutto il mondo pubblicavano le vendite al dettaglio americane dello scorso mese. Nell’anno, esse erano diminuite del 2,8% ma il dato clamoroso fu un altro. Il Dipartimento del Commercio comunicava che il rapporto tra scorte e vendite era ai massimi dal 2009 (in piena crisi mondiale), precisamente 1,38. A fronte di beni in magazzino pari a 1800 miliardi di dollari, le vendite fino ad ottobre erano pari a 1300 miliardi di dollari.

La crisi da sovrapproduzione si affacciava nuovamente in Usa. La mancata valorizzazione del capitale mandava un segnale preciso di un mercato del lavoro americano fatto di mcjob part time e poco remunerati. Il giorno dopo, su Milano-Finanza, l’analista Salerno Aletta, uno dei pochi in Italia a dare un quadro obiettivo della situazione economica internazionale, informava i lettori, attraverso un grafico, che il credito al consumo (vale a dire debito) in Usa era passato da 2400 miliardi di dollari del 2010 a ben 3600 miliardi di dollari del 2015. Da qui si spiega la “ripresa” statunitense e anche le performances di una multinazionale semi italiana quale FCA (ex Fiat) che presenta una produzione di autovetture con sbocco in Usa significativo, il settore grazie al quale la  produzione industriale italiana, dopo un crollo del 25%, è risalita nel 2015 dello…0,9%. Sbocco statunitense, a debito. A tal punto che l’economista di Milano-Finanza dichiarava a proposito di Usa: “la sua economia continua ad essere squilibrata sia sul versante estero, finanziariamente ed economicamente, sia soprattutto per via della crescita interna che continua a dipendere da nuovo debito. (..) Da oltre trent’anni, gli Usa sono prenditori netti di capitali dall’estero: la loro posizione finanziaria netta è passata dal massimo attivo, registrato nel 1980  con 297 miliardi di $, a un passivo crescente, pari a 7.020 miliardi di dollari del 2014. Nei soli 7 anni della crisi , fra il 2007 e il 2014, il peggioramento è stato di 6740 miliardi di dollari”. Il tasso di risparmio statunitense è passato dall’11,5% del 1985 al 4,6% del 2014, a fronte di un tasso di risparmio cinese che arriva al 30%. Pochi giorni prima della pubblicazione del dato delle vendite americane, in Cina si era svolto la Sigles Day con Alibaba protagonista. Le vendite di e-commerce quel giorno sono passate da 51 miliardi di yuan dello scorso anno a 91 miliardi di yuan.

Lo stesso giorno Li Keqiang, presenziando al Consiglio di Stato, dava direttive per lo  sviluppo del credito al consumo e rimuoveva ostacoli doganali per l’import di beni di consumo, focalizzando la crescita nei prossimi anni su servizi e consumi. L’8 novembre era usciti i dati di import export cinese: a fine ottobre quel paese presentava un surplus commerciale pari a 430 miliardi di dollari e si prevede che a fine anno raggiungerà i 600 miliardi di dollari. Il dato del surplus è causato da un forte rallentamento in valore dell’import, pari a – 15%, per via del crollo del prezzo delle materie prime, sebbene in volume nei primi dieci mesi dell’anno l’import è calato del 4%. Lo stesso giorno Pechino comunicava l’adesione al Piano Juncker per gli investimenti infrastrutturali in Europa e la partecipazione all’aumento di capitale nella Bers (Banca Europea di Ricostruzione e Sviluppo), braccio operativo dell’Ue in Europa Orientale con diramazioni anche nell’Europa Meridionale. Con queste mosse, unite al fatto che da circa un anno la People’s Bank of China non acquista più T-bond americani, ma anzi ne ha venduto per circa 300 miliardi di dollari, la Cina fa sapere che intende investire il suo surplus in Europa. Nello stesso arco di tempo, vale a dire i primi dieci mesi dell’anno, si viene a sapere che il surplus delle partite correnti europee è pari a circa 340 miliardi di euro: vi contribuiscono soprattutto Germania e Olanda, ma da un anno la stessa Italia presenta un surplus  pari al 2,2% del pil. Il surplus europeo continua a crescere da anni, grazie alle politiche deflazionistiche che hanno distrutto il mercato interno dell’eurozona, ma non trova canali di sbocco, se non oltreoceano. Oltretutto, grazie al Qe, ben 4 mila miliardi di euro sono investiti in asset a rendimento negativo (paghi per prestare..), mandando in cortocircuito fondi pensioni e assicurazioni europee (da qui si spiegano gli strali tedeschi contro il Qe). La situazione è tale che migliaia di miliardi di euro di risparmio europeo sono in cerca di un lido sicuro. L’opzione è proprio questa: la mossa della Fed di aumento del tasso di interesse mira ad intercettare il surplus e il risparmio europeo per poter permettere agli americani di continuare a crescere a debito. L’alternativa, anche in termini di economia reale, è quella fornita dalla Cina di colossali investimenti tra Asia ed Europa, di modo che il surplus cinese e quello europeo si incontrino per creare collegamenti marittimi e terrestri che coinvolgono l’Asia centrale, il Medio Oriente e l’Europa (quest’ultima con l’asse Pechino-Duisburg-Rotterdam e con l’asse Tianijn Venezia, passando per il Pireo e per i porti israeliani, siriani e turchi).

Appare ovvio che la strategia di Pechino è quella di spingere verso una progressiva integrazione euroasiatica, principalmente sotto forma della cosiddetta “Nuova via della seta”, denominata anche “One Belt, One Road”: quest’ultima è una colossale iniziativa che include progetti per infrastrutture destinate a favorire, oltre che l’impiego di capitali in cerca di valorizzazione, la creazione di rotte commerciali che colleghino i mercati cinesi a quelli europei passando attraverso l’Asia centrale e il Medio oriente. Questo ambiziosissimo disegno cinese è da sempre osteggiato in maniera ferma dagli Stati uniti, impegnati ad impedire l’integrazione economica del continente europeo con una potenza rivale – come Cina o Russia – che possa esercitare la propria influenza sugli sconfinati e strategicamente cruciali territori centro-asiatici. Da qualche anno, la dottrina della “svolta asiatica” ha determinato un’offensiva economica, diplomatica militare da parte di Washington che si traduce in una concreta minaccia nei confronti delle rotte commerciali marittime vitali del gigante asiatico che attraversano l’Oceano indiano. Questo ha spinto quindi Pechino a guardare con interesse alle rotte terrestri verso occidente e, di conseguenza, a cercare più profondi rapporti con i paesi europei. Per questo negli ultimi anni le relazioni commerciali e finanziarie tra la Cina da una parte e la Francia , la Germania e la Gran Bretagna dall’altra si sono intensificati in modo esponenziale, soprattutto con l’adesione alla nuova banca asiatica di investimenti per le infrastrutture.

Una guerra a pieno titolo, dunque,  tra Stati Uniti e Cina si giocherà nel prossimo venturo sul campo di battaglia europeo, in quel che Rosa Luxemburg, parlando di dialettica dentro e fuori, come fase suprema del capitalismo, definiva l’accumulazione per appropriazione ed espropriazione su scala mondiale.

L’Europa diventa così il campo di battaglia naturale per una contesa globale forte, perché ci sono ingenti capitali freschi che non trovano valorizzazione. Quattromila miliardi di euro sono lì buttati con rendite negative. I tedeschi, e con essi anche gli altri paesi europei in primis l’Italia, con la loro politica mercantilistica orientata all’export, accumulano risparmio europeo che diventa a buon ragione oggetto del contendere e terreno di scontro tra Stati Uniti e Cina. Il fatto che gli Usa voraci di risparmi altrui trascinano il blocco di ferro franco-tedesco in guerra contro la Russia facendo dell’Europa – dall’Ucraina a Parigi – il campo di battaglia, sembra condannare i governi europei alla complicità e alla subalternità: o continuano a tenere inalterate le sanzioni nei confronti dei russi e quando chiamati si adoperano in guerra o esplodono le bombe e il terrore nelle strade e nel centro delle città. L’unica guerra concessa all’Europa resta quella contro la Siria di Assad.

In questo frangente, la questione russa diviene perno dello scontro. Anche questo Paese offre all’Europa occidentale una via di fuga dalla crisi. Il 28 ottobre su Il Sole 24 Ore si informava di uno studio di Ernst e Young secondo il quale nei prossimi 15 anni la Russia prevede investimenti infrastrutturali per 965 miliardi di dollari, roba da far impallidire il Piano Juncker, che è di appena 350 miliardi di euro. Dunque Russia e Cina, assieme ai paesi dell’Asia Centrale, offrono uno sbocco alla crisi in termini di economia reale, gli Usa invece offrono l’alternativa dell’asset inflation per succhiare risparmio altrui, per poi evaporare come nella crisi di Lehman Brother del 2007. L’Europa è dunque ad un bivio, al centro di una contesa mondiale. In questo schema la Gran Bretagna si inserisce come attore di mezzo, pronta per diventare la piattaforma finanziaria dello yuan in Europa. I mega accordi intercorsi lo scorso mese con la Cina fanno pensare ad un asse sino-britannico. La Gb attende le mosse americane ed europee ed intanto si offre come canale privilegiato con Pechino. Non a caso nell’agosto scorso il Cancelliere dello Scacchiere Osborne ha messo sul piatto un accordo tra la Borsa di Shanghai e Londra per la connessione finanziaria. Se venisse realizzata, coinvolgerebbe anche Milano, giacché Piazzaffari è controllata dal London Stock Exchange. Le mosse britanniche sembrano confermare le analisi di G. Bellini (La bolla del dollaro, Odradek 2013), il quale sottolineava, tra le altre cose, che “sarebbe la media stazza della potenza britannica la migliore garanzia di equilibrio e saggezza nel gestire un complesso mondo monetario multipolare. Come la proposta cinese prevede”. (pag. 178).

In questo contesto, come si pone l’Italia? Avendo come via di sbocco il mediterraneo e quale obiettivo di approdo l’Europa, il gigante asiatico rappresenta per l’Italia una grande opportunità di crescita produttiva ed economica e, di conseguenza, rappresenterebbe l’uscita dal blocco dei vincoli di bilancio imposti dai trattati europei. L’Italia si muove sui diversi tavoli e, seguendo le direttive del Vaticano, cerca canali multipli, con Usa, ma anche con Russia e Cina. D’altronde, gli accordi commerciali firmati tra il governo italiano  e quello di Pechino nell’ultimo biennio, gli investimenti in asset finanziari e strategici di reti e telecomunicazioni pari a 21 miliardi di euro, sembrano muoversi su questa direzione. L’Europa sembra aver già scelto il proprio interlocutore, per questo si trova sotto assedio e sotto bombardamento (vedi Charlie Hebdo, Bataclan, affaire Volkswagen), l’inflazione è ferma ad un palo, il QE e la deflazione sembrano non portare ad alcun sbocco. La Francia e la Germania caldeggiano l’uscita dal blocco economico imposto dagli Stati Uniti nei confronti della Russia, l’Italia dal canto suo per bocca del presidente del’ABI, Antonio Patuelli, in un articolo apparso sul Resto del Carlino il 16 novembre, sembra voler dire che per uscire dall’impasse del conflitto mondiale servirebbe un trattato di pace e un partenariato strategico con la Russia. Il mondo ancora una volta sembra trovarsi al bivio tra accordo o barbarie. O i due paesi egemoni trovano un accordo o sarà guerra mondiale. A decidere sarà la prossima tornata elettorale presidenziale americana. Che non promette niente di buono.