Nell’ambito del dibattito che abbiamo aperto sull’Europa pubblichiamo l’intervento di Alessandro Pascale
La classe lavoratrice d’Italia, sempre più disastrata dopo 40 anni di riuscita controffensiva padronale, non ha possibilità di migliorare strutturalmente la propria condizione senza un radicale ripensamento del modo di produzione attuale. Il capitalismo liberista è destinato a precipitare verso nuove crisi finanziarie che sconvolgeranno ancora di più il tessuto socio-economico. Il capitalismo “keynesiano” è di fatto impossibilitato a riaffermarsi (salvo attraverso recrudescenze imperialiste) dagli stessi vincoli europei.
Il socialismo non è all’orizzonte, nonostante sia il necessario rimedio alla questione sociale ed ecologico-ambientale, in quanto solo con una completa pianificazione politica è possibile eliminare strutturalmente la disoccupazione, razionalizzare la produzione industriale, appianare le mostruose diseguaglianze attuali e garantire a tutti i lavoratori e le lavoratrici pari dignità e libertà di partenza. D’altronde il socialismo non sarà mai all’orizzonte finché si continuerà ad autocensurarlo, parlando invece genericamente di “antiliberismo”.
La razionalità è difficile a farsi e prevale l’ottica della barbarie, ossia del mantenimento di un ordinamento imperialista. La crisi della Libia, che vede i commentatori internazionali discutere tranquillamente su come si debba intervenire nelle vicende interne di un Paese ricchissimo di petrolio, ne è esempio esplicito. Anche in questo caso l’UE non esiste e si divide in ossequio ai singoli interessi nazionali. L’Unione Europea si unisce solo per compiacere Washington e per fare gli interessi del grande Capitale internazionale, non certo per sostenere gli interessi dei lavoratori. Il paradigma che prevale, al limite, è un implicito social-imperialismo, mascherato da una cortina di fumo umanitarista che fa sfoggio dell’azione delle ONG. Il controllo mediatico e linguistico-culturale della grande crisi in corso, caratteristiche intrinseche al totalitarismo “liberale” che ci governa, riescono ancora a garantire alle classi dominanti l’egemonia politico-sociale sulle classi subalterne, seppur con notevoli scricchiolii riottosi ma ancora confusi.
Credo che le analisi, i saggi, i libri, gli articoli che attestano i danni derivati alla classe lavoratrice da questa Unione Europea siano più che sufficienti. A livello teorico è ormai acquisito e assodato che l’Unione Europea sia una sovrastruttura imperialista che conduce in maniera sempre più evidente e dispotica una guerra aperta contro il mondo del Lavoro. Stante l’impossibilità di riformare questa gabbia costruita dai padroni, si può solo prendere consapevolezza che occorra distruggerla il prima possibile. Il modo migliore per farlo è abbandonarla. Il caso della Brexit, che segue quello della Grecia di Tsipras, mostra che una rottura a convenienza popolare non è possibile. Un’Unione Europea democratica non è possibile. L’UE deve quindi morire, affinché i popoli d’Europa possano rinascere e rifiorire.
L’uscita dell’Italia dalle strutture e sovrastrutture imperialiste è un primo e necessario passo per il progresso del Paese nel suo complesso, garantendo non solo prospettive di sviluppo sul lungo termine, ma anche un terreno più avanzato per il rilancio di una conflittualità di classe da parte della classe lavoratrice. Perché questa possa avvenire occorre, oggi più che mai, l’azione di un’avanguardia politica strutturata e decisa, consapevole delle tecniche egemoniche usate dalla borghesia e decisa a far valere gli interessi della classe lavoratrice prima di un fantomatico e interclassista “popolo europeo”, inesistente peraltro perfino nella stessa coscienza collettiva, con buona pace degli slogan insulsi (“patrioti europei”, “sinistra europea”, “+ Europa”, “Europa Verde”, ecc).
Data la fase attuale ci si può chiedere chi si debba votare alle elezioni Europee del prossimo 26 maggio. La quasi totalità delle forze politiche italiane propone un messaggio europeista, in salsa più o meno riformista. La Lega, che si avvia ad essere stabilmente il primo partito nazionale, afferma la difesa della sovranità italiana, senza però dire una parola sulle basi militari statunitensi presenti nel Paese, né tantomeno sui meccanismi di speculazione derivanti dagli statuti attuali della BCE. Stesso discorso si può fare per Fratelli d’Italia. Si tratta di considerazioni tecniche oggettive, che prescindono dalle ulteriori considerazioni politiche che si dovrebbero fare per tali organizzazioni reazionarie sotto molteplici punti di vista (basti pensare alle politiche sulla “famiglia”). Riguardo all’Europa la posizione di Salvini è di riformarla. Un copione già letto e fallimentare in partenza. Le sinistre sono forse anche peggio: il PD di Zingaretti, dopo una riverniciata di rosa sbiadito, conferma la piena subalternità del partito alla grande finanza europea, riproponendo un social-liberismo che avrebbe trovato il disprezzo perfino del bieco e moderato Andreotti. La Bonino, che incarna l’ideologia “liberal” dell’imperialismo “democratico” statunitense, riesce a ripresentare ancora la sua creatura radical-liberista-padronale a 50 anni dalla sua prima candidatura per Bruxelles. Una bella vita vissuta sulle spalle di minoranze benestanti che se potessero eliminerebbero la categoria stessa dei diritti sociali, ammesso che la conoscano.
Alla sinistra del PD si assommano una serie di formazioni ecologiste e socialdemocratiche tanto insignificanti e deboli nell’analisi e nella proposta politica quanto distanti dal mondo del Lavoro. La loro risposta è quella di costruire un’Europa più giusta ed equa. Niente di nuovo sotto il sole. Niente di più illusorio e stupido è possibile dire dopo anni in cui si è palesata la totale impossibilità di pervenire a tale risultato. L’incompetenza e l’ignoranza dei gruppi dirigenti di tale organizzazioni sono certamente assai elevate ma è lecito chiedersi, visto il tenore di certi nomi proposti nelle liste, se non siamo di fronte piuttosto al tradimento aperto o, finalmente, all’esplicitazione plateale di subdolo anticomunismo, al servizio più o meno diretto della borghesia e dell’imperialismo. Potranno sembrare affermazioni troppo dure solo a chi assecondi una lettura bonaria e facilona del marxismo e della storia dell’ultimo secolo.
Che fare quindi, stante l’inadeguatezza attuale della gran parte delle organizzazioni “di sinistra”? La necessità, da molti sentita e auspicata (e nuovamente delusa), di ricompattamento delle forze comuniste sane, sparse oggi tra molteplici formazioni, porterà migliaia di persone al disimpegno per questa tornata elettorale. Alludo in particolar modo a Potere al Popolo e al Partito Comunista Italiano. I primi hanno “scelto” di saltare il giro dopo aver a lungo tergiversato sul da farsi, sotto la pressione di una base che invitava ad unirsi al PRC e a Dema (a dimostrazione che il problema non sono solo i gruppi dirigenti…); i secondi hanno provato generosamente ma vanamente a raccogliere le firme per candidarsi, sapendo già ampiamente in anticipo che la legge elettorale è fatta in modo tale da rendere quasi impossibile riuscire nell’impresa. Mentre i più, nella constatazione della mancanza di una presenza comunista, annunciavano di volgersi verso l’astensione, l’annullamento della scheda o il voto alla “meno peggio” per il M5S, inaspettatamente si è palesata la possibilità di votare il Partito Comunista.
Le elezioni delle istituzioni borghesi sono uno strumento utile per esporre simili ragionamenti, nella consapevolezza che oggi il livello di coscienza popolare è particolarmente arretrato. Milioni in realtà sono i lavoratori che hanno compreso, magari istintivamente, la natura classista e reazionaria dell’UE. La maggior parte però è convinta che la risposta al problema passi per il “sovranismo” della Lega o del M5S. A distanza di un anno dalla formazione del Governo giallo-verde però non c’è stato nessun distacco significativo da Bruxelles, né tantomeno da Washington. Né Salvini né Di Maio hanno osato ridiscutere davvero i trattati europei o l’appartenenza italiana alla NATO. Le misure prese finora sono state in parte progressive (“quota cento”, reddito di cittadinanza, accordi con la Cina) in parte regressive (politiche sui migranti e più in generale sui diritti civili), ma in generale non c’è stata finora la capacità e la volontà di intervenire sulla questione industriale, perché entrambe le forze di Governo non hanno interesse a mettere in discussione il capitalismo liberista come modo di produzione dominante. Tanto per intenderci: di “patrimoniale” non si osa parlare, anzi si scalpita per rilanciare la classista “flat-tax”. Ne consegue che il debito pubblico continua ad aumentare e la borghesia si prepara ad eliminare prontamente le misure popolari più progressive strillando al fallimento economico.
Il Partito Comunista ha due proposte chiare che mi spingono a votarlo:
1) l’uscita dell’Italia dalla NATO;
2) l’uscita dell’Italia dall’UE e dall’euro.
Qualsiasi tipo di programma politico progressista non può infatti prescindere da queste due istanze, le quali non si trovano in nessun’altra lista. Questa è la ragione principale per cui, con tutte le carenze e le cautele del caso, voterò PC. Il mio sarà un voto progressista, contro l’Unione Europea e contro l’indottrinamento europeista, il quale non coincide con l’internazionalismo. L’europeismo è stato anzi, come mostrato anche in un recente bel libro di Luca Cangemi [1], uno strumento politico-ideologico usato dall’imperialismo nel dopoguerra per attaccare la classe operaia e il movimento comunista internazionale che avevano guidato il processo di Liberazione dal nazifascismo. Non c’è alcuna ragione o necessità di far coincidere un ideale di progresso con l’europeismo. C’è invece molto bisogno di recuperare sovranità nazionale e popolare. Serve un nuovo internazionalismo proletario e un sistema di cooperazione economica pacifica capace di sviluppare nuove relazioni politiche e commerciali con i Paesi indipendenti dall’imperialismo occidentale. La Belt and Road cinese è oggi il progetto più avanzato che si pone come alternativo alla rete di alleanze vigenti.
Non è qui il caso di svolgere una disanima accurata e critica del PC. Occorre però prendere atto che negli ultimi dieci anni il suo gruppo dirigente ha saputo costruire qualcosa di solido e promettente per il futuro, vista la sua maggioritaria componente giovanile. Un partito che non è “perfetto”, come mostra in particolar modo un’analisi internazionale non condivisibile, che si concretizza in una posizione limitata sulla Repubblica Popolare Cinese, un legame di dipendenza avuto finora verso il KKE e una certa rigidità nell’applicazione delle categorie del materialismo storico e dialettico. I compagni più seri sono consapevoli che non sono questioni da poco, che impediscono il superamento di una diaspora ormai decennale dei comunisti italiani, rischiando di vanificare anche quanto di buono fatto in questi anni nella lotta al revisionismo storico. In politica, come nella società, contano i rapporti di forza oltre all’analisi, altrimenti anche le ragioni migliori vengono minimizzate. Qui non si può far altro che accennare alla questione, nella consapevolezza che tali processi richiederanno ancora molti anni per essere risolti, legandosi a molte incognite, tra cui l’esito finale della lotta per l’egemonia nel campo del movimento comunista (e più in generale progressista) che in questi anni è in pieno vigore, e che costituisce un’indispensabile presupposto (necessario ma non sufficiente) per poter tornare a parlare di lotta per l’egemonia nella società.
Un caro compagno mi ha detto che la situazione attuale della sinistra ricorda la lotta per la conquista di un iceberg alla deriva e destinato alla liquefazione. Forse ha ragione, perché se non si risolvono i problemi strutturali di teoria e di prassi non si andrà molto lontano. Tuttavia oggi i nemici da abbattere sono troppi per fare eccessivamente gli schizzinosi. La sinistra arancio-rosé scaduta nel socialismo utopistico e nel riformismo borghese è ancora il primo ostacolo. Se il vecchio non muore il nuovo non può nascere. Se poi vi è ragione a parlare di un “totalitarismo liberale” per descrivere la nostra società, allora diventa indispensabile dare fiducia soprattutto a quelle migliaia di giovani militanti che, piaccia o no, saranno i quadri del futuro e che hanno il compito delicato e gravoso di lottare per il comunismo in un contesto sempre più difficile.
Sarà un piacere tornare a barrare sulla scheda elettorale una falce e martello.
[1] L. Cangemi, Altri confini. Il PCI contro l’europeismo (1941-1957), DeriveApprodi, Roma 2019.