pubblichiamo come contributo alla discussione
di Bruno Steri, Segreteria Nazionale PCI
da https://www.ilpartitocomunistaitaliano.it
Il presidente del Consiglio Conte ha diffusamente manifestato la propria soddisfazione per l’esito della trattativa condotta in sede europea, in particolare concernente le risorse da destinare al nostro Paese attraverso il Recovery Fund.
Nel merito, non intendiamo disconoscere l’impegno profuso dal nostro governo nel corso di una lunga ed estenuante trattativa: rileviamo tuttavia che un tale impegno si è prodotto entro un quadro di compatibilità in cui emblematicamente si conferma la sostanziale inadeguatezza dell’Unione europea. A tale giudizio generale sui limiti strutturali dell’Ue va commisurata l’entità del risultato.
La delegazione italiana ha dovuto contrastare il rigorismo contabile dei cosiddetti Paesi “frugali” (un rigore decisamente malriposto e degno di miglior causa), decisi a limitare l’ammontare complessivo degli “aiuti”, modificandone altresì la composizione a danno dei trasferimenti a fondo perduto e a vantaggio dei prestiti, che com’è noto vanno a pesare sul debito. Conte sottolinea che, nonostante il pressing di olandesi & C., la somma totale messa a disposizione dall’Unione non è calata, restando a 750 miliardi di euro: di cui 390 in termini di sovvenzioni a fondo perduto (la precedente proposta von der Leyen ne proponeva 500) e 360 destinati a prestiti (in salita rispetto alla precedente proposta, ferma a 250 miliardi).
Essendo questa l’entità delle risorse, è stato positivamente evidenziato quanto ottenuto dal nostro Paese: 209 miliardi complessivi (in precedenza non si era andati oltre i 173 miliardi), di cui 81 miliardi in sussidi a fondo perduto (mantenendo sostanzialmente quanto già precedentemente proposto), e 127 miliardi in prestiti (con incremento di 37 miliardi). Queste le cifre, indubbiamente consistenti. Conte parla di “vittoria”; c’è chi, più prosaicamente, parla di “pareggio”. Noi diciamo che non è affatto tutto oro quel che riluce: a cominciare dal fatto che le suddette provvidenze, collegate al bilancio pluriennale Ue, cominceranno concretamente a rifluire a 2021 inoltrato. Troppo tardi, per tamponare l’emergenza: tant’è che resta come una spada di Damocle dislocata sulla compattezza del governo l’idea di ricorrere comunque ai miliardi del Mes, considerato dai 5 Stelle alla stregua di un commissariamento di fatto, e quindi inaccettabile. La discussione che ha prodotto tali risultati è istruttiva quanto i risultati stessi.
E’ bene tener presente che essa ha riguardato l’attivazione urgente di interventi a sostegno di Paesi colpiti da un evento esogeno di portata eccezionale e drammatica. Parliamo di oltre 200.000 (duecentomila!) morti in Europa a seguito di una tragica pandemia, con effetti altrettanto nefasti sul piano economico e sociale: un calo del Pil che per l’Italia si prevede a due cifre, un debito pubblico che potrebbe raggiungere il 170 %, occupazione in drastica caduta.
Il governo ha enfatizzato le cifre viste più sopra, che quantificano le risorse messe a disposizione; assai meno si è soffermato sulle condizionalità ad esse collegate e sugli strumenti previsti al fine di controllare il rispetto delle “raccomandazioni” dell’Ue: in particolare, il cosiddetto “freno d’emergenza”. E’ qui che è tornato a manifestarsi il carattere strutturalmente neoliberista dell’Unione europea. Non deve stupire se nell’Ue vi sono Paesi che restano sordi alla richiesta di solidarietà imposta da una tragedia di carattere epocale, se c’è chi chiede ad altri rigore nel momento stesso in cui trasforma il proprio Paese in paradiso fiscale.
Il fatto è che, in una compagine economica regolata da Trattati che predicano il primato della concorrenza (interna ed esterna), ciascuno finisce per perseguire il proprio tornaconto.
Il “freno d’emergenza” è uno strumento di controllo presentato come mediazione possibile rispetto al potere di veto chiesto dai Paesi “frugali” per bloccare piani di rinascita nazionali che non applichino gli impegni di riforma (leggi: controriforma) sollecitati da Bruxelles: una mediazione che tuttavia conferma i principi di fondo dell’Unione e che evoca la possibilità dei famigerati programmi di aggiustamento strutturale previsti dal Mes in caso di deterioramento dei conti pubblici e di problemi di copertura dei debiti del Paese.
Secondo questa proposta, i piani nazionali di ripresa economica saranno valutati entro due mesi dalla Commissione europea sulla base della coerenza con le “raccomandazioni” Ue; sarà poi Ecofin, l’assemblea dei Ministri delle Finanze, a decidere del piano entro quattro settimane e a maggioranza qualificata. Tuttavia “in via eccezionale” uno o più Stati, qualora riscontrassero deviazioni gravi dagli orientamenti di fondo di Bruxelles, potranno ulteriormente sospendere l’approvazione del piano e rinviarne il giudizio ad una discussione che dovrà avvenire in occasione del successivo Consiglio europeo (l’assemblea dei governi dei Paesi membri). Non è del tutto chiaro se il giudizio definitivo spetti al Consiglio stesso o torni in capo alla Commissione.
Vale la pena ricordare che, in una tale congiuntura, il “patto di stabilità” è solo sospeso per tutto il tempo dell’emergenza sanitaria: quando le regole di bilancio saranno ripristinate e, nel frattempo, i livelli del debito pubblico saranno lievitati a dismisura, c’è da prevedere che quel che rimane della spinta solidale finirà per evaporare, lasciando il campo ai ben più prosaici imperativi ragionieristici di rientro dal debito. Come si vede, l’Unione è ben lungi dal mostrarsi come un complesso integrato e solidale ma, anche nel vivo di un dramma come quello attuale, continua a configurarsi come un aggregato di popoli e interessi diversi (e, soprattutto, di capitali più forti e capitali più deboli). Realismo politico vorrebbe, a nostro parere, che si mettessero da parte progettualità unificanti prive di fondamento storico e, per questo, pericolose, per provare a costruire un’Europa come Confederazione di Stati sovrani e solidali.
In definitiva, esauritosi l’entusiasmo per la valanga di euro che arriverà dall’Europa, resterà come sempre il tradizionale quanto preoccupante interrogativo: Chi paga? Chi sarà effettivamente supportato? Vediamo oggi che l’enfasi è tutta sull’ “Italia che riparte”. Già, ma quale Italia? I grandi imprenditori, i rentiers? I lavoratori, i disoccupati? Si è detto che la pandemia abbia esaltato il ruolo dello Stato: in effetti SACE, società del Gruppo Cassa Depositi e Prestiti specializzata nel sostegno alle imprese, ha già iniziato ad offrire prestiti con garanzia pubblica alle grandi aziende private. E nuove provvidenze alle imprese arriveranno dalle risorse Ue. Che non si debba fare della mera assistenza ma occorra promuovere e incentivare concretamente il mondo produttivo è un fatto.
Che il “mondo produttivo” sia attraversato da interessi di classe contrapposti (comunque, non sovrapponibili) è un altro fatto.
Per questo spetta ai comunisti e, in generale, alla sinistra di classe operare una vigilanza stretta e, se necessario, organizzare lotte all’altezza dell’eccezionalità della fase.