di Francesco Tirro | da retedeicomunisti.org
Pubblichiamo come contributo al dibattito
La proposta contenuta nel volantone della Rete dei Comunisti (Dentro l’Europa ma fuori dall’Unione Europea. Un’alternativa) ha il merito di costituire un tentativo di smuovere lo stagnante dibattito politico nei movimenti immaginando una possibile via d’uscita alla crisi. Non sembra però che l’ipotesi avanzata possa essere, nel suo complesso, applicabile, né tanto meno auspicabile.
La prima parte è pienamente condivisibile, nel merito e nell’impostazione: definire il governo Monti espressione della borghesia europea è di gran lunga più corretto che parlare di “commissariamento” dell’Italia o di presunte “sudditanze” verso paesi più forti come la Germania; espressioni, queste, ambigue e che aprono nell’immaginario comune spazi per ipotetiche “soluzioni” nazionaliste e reazionarie alla crisi. In generale, il ritratto del gravissimo attacco alla classe proposto nella prima parte è corretto.
I punti salienti della seconda parte (Rovesciare il tavolo, avanzare un’alternativa) sono essenzialmente il rifiuto di pagare il debito pubblico, la nazionalizzazione di banche e imprese strategiche, la creazione di un area di scambio comune con i paesi cosiddetti PIGS, l’uscita coordinata dall’euro e l’adozione di una nuova valuta (di questa idea, nello specifico, parla già Luciano Vasapollo con Rita Martufi e Joaquin Arriola nel libro “Il risveglio dei maiali” Jaca Book 2011).
Sulla realizzabilità tecnica e l’utilità di alcune delle proposte avanzate si è già in parte discusso nei mesi precedenti: Guglielmo Carchedi, ad esempio in un recente contributo (Dalla crisi di plusvalore alla crisi dell’euro), sostiene che “la formazione di un euro-Sud porterebbe (…) ad una nuova moneta intrinsecamente debole e quindi soggetta a svalutazione ed a attacchi speculativi”; una sorta di euro degli sfigati, la cui eventuale ritrovata competitività andrebbe considerata anche alla luce degli effetti devastanti sulla nuova valuta e sul settore produttivo del contestuale rifiuto da parte dei PIGS di pagare il debito (è stata ipotizzata, ad esempio, per la Grecia, una svalutazione di circa il 60% e un tasso d’inflazione a doppia cifra in caso di default).
Non sembra, però, che sia utile discutere della maggiore o minore efficacia di questa o quella soluzione, anzi: entrare nel merito tecnico significherebbe avallare un vizio, sotteso al volantone della Rete come a molti interventi precedenti, quello cioè di ritenere che il Lavoro possa e debba trovare le soluzioni alle crisi del Capitale.
Da marxisti sappiamo che ogni “soluzione” alla crisi interna al sistema capitalistico non è altro che un tampone, più o meno efficace, il cui unico effetto è di rimandare di qualche tempo la deflagrazione totale; perdipiù, ogni volta che la crisi si manifesta di nuovo, è più profonda e vasta della precedente.
Abbiamo il dovere quindi di approcciare alle proposte senza perderci in tecnicismi ma cercando di coglierne il senso politico: del resto la stessa Rete dei Comunisti, in un commento al volantone pubblicato su Contropiano, scrive che “la sostanza è politica e non economica. Perseguire una alternativa come quella indicata presuppone una rottura politica, rovesciare il tavolo, appunto. Senza la quale non esistono proposte economicamente “ragionevoli” nè soluzioni tecniche.”
La proposta di un euro-sud andrebbe letta, quindi, in un contesto in cui i rapporti di forza tra le classi siano già mutati, se non invertiti; in cui i lavoratori dei paesi coinvolti siano riusciti già a dettare la linea politica o, quantomeno, a imporre le proprie esigenze all’agenda politica di chi governa. Ma se è così che senso ha capovolgere il ragionamento? Se è solo la trasformazione politica a dare senso progressivo alla proposta di trasformazione economica, perchè si bypassa completamente il ragionamento politico e ci si concentra sulla proposta economica come se fosse sufficiente di per sé a risolvere i problemi?
Lo stesso salto logico caratterizza il riferimento all’esperienza dell’Alba, citata come esempio, realizzato, di ciò che si vorrebbe e potrebbe realizzare tra i paesi della sponda sud d’Europa. Ci si dimentica, infatti, che l’elemento fondamentale dell’Alba non è la costruzione di un’area di scambio equo, né il percorso di creazione reale del Sucre, valuta per ora solo virtuale: l’elemento centrale di quell’esperienza è la rottura più o meno accentuata del rapporto di dominio imperialista, ottenuta attraverso l’alleanza tra il proletariato e la frazione di borghesia nazionale interessata ad uno sviluppo endogeno delle forze produttive.
Se dunque l’esperienza dell’alleanza bolivariana deve essere oggetto di discussione ed esempio dal quale apprendere, tenuto conto delle dovute differenze, per rilanciare l’agire politico della classe all’interno dei poli imperialisti, essa ci deve servire per capire come effettuare una reale rottura politica con le compatibilità capitaliste, per capire dove sia la linea di frattura e scontro tra borghesia imperialista e proletariato internazionale all’interno del polo imperialista europeo.
In questo senso, l’unica rottura antimperialista possibile sembra essere quella del proletariato continentale contro la borghesia continentale, essendo l’Unione Europea lo spazio politico che la borghesia imperialista si è data per portare avanti l’attacco contro i lavoratori.
Ogni altra divisione non è che lo specchio delle tensioni – continuamente mutevoli – tra le diverse frazioni del capitalismo europeo: da un lato chi ha interesse a premere sull’acceleratore dell’unione politica continentale e dall’altro chi cerca di ritagliarsi residuali spazi di autonomia; da un lato chi sa che trarrà vantaggi dai processi di concentrazione di capitale a danno dei concorrenti più piccoli e dall’altro proprio i pesci piccoli che, privi di visione strategica, più che un’alternativa cercano di non soccombere in fretta. Le semplificazioni che riducono questi scontri a scontri tra paesi “forti” e paesi “deboli”, tra le quali rientra la definizione, tutta borghese, del sottoinsieme dei cosiddetti PIGS, sono, per l’appunto semplificazioni, dal momento che le frizioni tra capitali forti e deboli attraversano trasversalmente tutti i paesi europei; non solo, pienamente trasversale è la lotta che la borghesia europea, unitariamente, conduce contro il proletariato, poiché quali che siano gli interessi di fase delle varie frazioni, tutte insieme traggono vantaggi dalla compressione dei salari, l’aumento dello sfruttamento e dell’estrazione di plusvalore assoluto.
Se dunque la prospettiva nella quale ci vogliamo inserire è quella di costruzione di un’alternativa internazionalista ed emancipatrice, perché pensiamo che possa essere più utile ed efficace farlo in prospettiva “meridionale” piuttosto che pienamente europea? Perché, pensiamo che investire nella costruzione di un’alleanza tattica con le frazioni deboli delle nostre borghesie nazionali – avvantaggiate, loro, da una moneta più svalutata i cui costi ricadrebbero per forza di cose sui lavoratori – sia più utile di lavorare a una prospettiva politica comune per il proletariato continentale nel suo complesso?
Il proletariato tedesco, ad esempio, viene da dieci anni di forte moderazione salariale; la riforma Hartz IV ha ridotto i costi per le imprese, aumentato il numero di ore lavorate ma non il numero di occupati; il 20% degli occupati guadagna meno di 10 euro l’ora; i disoccupati di lungo periodo sono costretti ad accettare lavori pagati un euro all’ora, pena la perdita del sussidio; le pensioni di chi oggi ha uno stipendio lordo non superiore a 2500 euro saranno inferiori a 700 euro.
Che vantaggio abbiamo a perseguire l’ipotesi di un’unione subcontinentale, con una moneta debole e i padroncini forti, piuttosto che a lavorare per la costruzione dell’unità politica e sindacale della classe a livello continentale?
Ciò non significa, sia chiaro, restare a girarsi i pollici aspettando che le condizioni di sfruttamento in Europa diventino così omogenee da consentire “naturalmente” un’azione politica continentale: l’urgenza dell’intervento è reale e in tal senso bene ha fatto e fa la Rete dei Comunisti ad aprire il dibattito; ma piuttosto che avanzare la proposta politica di un’area di scambio sud-europea con valuta comune, fuori dall’Euro – che ha, come si è provato ad argomentare, più di un limite – vanno colte tutte le occasioni, pur parziali, di ricomposizione della classe sul piano europeo.
Lo sciopero contemporaneo indetto in Spagna, Portogallo, Grecia e Cipro per il 14 Novembre potrebbe essere un’interessante banco di prova: perchè non tentare la scommessa anche in Italia?