Trump verso il resto del mondo

trump podio indicadi Prabhat Patnik
peoplesdemocracy.in, Settimanale del Partito Comunista dell’India (Marxista)

Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

L’uscita di Donald Trump dal vertice del G-7 senza muovere una virgola sul protezionismo è indicativo della distanza tra i principali paesi capitalisti sulla strategia per superare la crisi capitalista. Trump ha deciso che gli Stati Uniti andranno per la loro strada, ampliando il deficit – non solo per concedere agevolazioni fiscali alle imprese, che comunque avrebbero un effetto contenuto di stimolo della domanda, ma anche per aumentare la spesa pubblica, che avrebbe proprio questo effetto – e allo stesso tempo proteggendo il mercato interno.

Questi due aspetti della strategia di Trump camminano insieme. Di fatto, in assenza di protezionismo, qualsiasi stimolo fiscale all’interno dell’economia statunitense, come quello derivante da una maggiore spesa pubblica, uscirebbe dal paese creando una maggiore domanda di importazioni di beni da altri paesi: nel qual caso gli Stati Uniti genererebbero occupazione non a casa ma all’estero, oltre a incorrere in un debito verso quei paesi stessi per farlo. Ma un deficit fiscale più ampio combinato con il protezionismo garantisce che i posti di lavoro siano creati a casa e che non vengano sostenuti debiti esterni allo scopo.

Trump può permettersi di intraprendere questa strategia grazie alla posizione degli Stati Uniti nel mondo capitalista. Qualsiasi altro paese che perseguisse tale strategia di allargamento del deficit fiscale insieme al protezionismo registrerebbe una emorragia di finanziamenti in quanto la “fiducia degli investitori” in quel paese sarebbe compromessa. Ma gli Stati Uniti sono un paese diverso: la sua valuta è ancora considerata “buona come l’oro” nonostante non sia ufficialmente così (come sotto il sistema di Bretton Woods); e costituisce per una serie di ragioni la base di partenza su cui poggia la finanza e dalla quale, a meno di forti provocazioni, la finanza non vorrebbe allontanarsi. Trump sta quindi sfruttando questa posizione degli Stati Uniti come il Padrone del mondo capitalista, coniugandola a un aumento del tasso di interesse degli Stati Uniti, per spingere verso una strategia utile all’esclusiva ripresa degli Stati Uniti, senza alcun pensiero per la rinascita del mondo capitalista nel complesso.

Ciò che non va in questa strategia non sta nelle note e infondate affermazioni secondo le quali “il protezionismo è cattivo”, “il libero scambio è buono”, o che questa strategia rappresenta il “nazionalismo” che è reazionario in opposizione all'”internazionalismo” che è progressista. Ciò che è sbagliato in questa strategia è che non può funzionare nemmeno per gli Stati Uniti (anche se potrebbe registrare un momentaneo successo), figuriamoci per il mondo capitalista nel suo insieme.

L’intero discorso sul “nazionalismo” contro l'”internazionalismo” non è sbagliato solo dal punto di vista analitico, perché questi termini non possono essere definiti senza riferimento al loro contenuto di classe (“nazionalismo” per esempio non è una categoria omogenea e il “nazionalismo” di Ho Chi Minh è molto diverso da quello di Hitler); è anche eticamente infondato: se ciascun paese seguendo una strategia “nazionalista” ottenesse livelli più alti di occupazione insieme a livelli più elevati di spesa per i servizi sociali, rispetto a una situazione in cui si cerchi invano di perseguire un “internazionalismo”, allora cavillare su tale “nazionalismo” sarebbe chiaramente indifendibile.

Al momento la strategia Trump, sottolineano molti, sembra funzionare negli Stati Uniti. Il tasso di disoccupazione è ufficialmente sceso a circa il 4%. Anche se il tasso di partecipazione attiva al mercato del lavoro continua ad essere inferiore a quello prima della crisi del 2008, in misura tale che assumendo un tasso invariato di partecipazione al mercato del lavoro, il tasso di disoccupazione sarebbe di poco superiore al 6%, questo tasso in sé, suggeriscono, rappresenta un calo rispetto a qualche anno fa. Allo stesso tempo, anche se Trump ha usato il deficit per compiacere i capitalisti attraverso tagli fiscali, non ha, suggeriscono, lasciato troppo per la spesa sociale. Eppure, nonostante queste presunte condizioni di crescita, il tasso di inflazione è piuttosto basso e il dollaro continua ad essere forte.

Supponiamo, per amor di speculazione intellettuale, che tutte queste affermazioni sul successo della strategia di Trump siano vere, anche se riflettendovi solo un momento comprenderemmo che non tutte possono essere contemporaneamente vere. In altre parole, è impossibile avere una coesistenza, se non transitoria, dei seguenti quattro fattori: un basso tasso di disoccupazione, un ampio deficit fiscale, una politica protezionista e un basso tasso di inflazione. I primi tre fattori causerebbero una pressione in eccesso della domanda che farebbe aumentare il tasso di inflazione, il quale non rimarrebbe più basso. Ma supponiamo che tutte e quattro le caratteristiche siano vere contemporaneamente.

Esse costituirebbero solo i primi risultati della strategia Trump. Altri paesi, quelli colpiti dal protezionismo degli Stati Uniti, non si limiterebbero ad accettare passivamente l’aumento della disoccupazione che la strategia statunitense produrrebbe presso di loro. Presto comincerebbero a prendere misure corrispondenti, ampliando il loro deficit e avviando il protezionismo. Nel loro caso tuttavia tali misure comporterebbero una fuga di finanziamenti, in quanto privi dello status di Padrone di cui godono gli Stati Uniti. Dovrebbero quindi mettere dei controlli sui flussi finanziari, cioè “controlli sui capitali”; o aumentare i loro tassi di interesse per invogliare i finanziatori a non abbandonare le loro sponde.

I controlli sul capitale tuttavia colpirebbero la radice stessa dell’attuale globalizzazione. È interessante notare che anche Trump, con tutte le sue misure protezionistiche contro le importazioni di beni e servizi, non ha posto restrizioni contro i liberi flussi di finanziamento. Allo stesso modo, gli altri paesi capitalisti sarebbero riluttanti a limitare i flussi di capitali attraverso i loro confini. Essi pertanto ricorrerebbero a rialzi dei tassi per prevenire eventuali deflussi dei finanziamenti.

Tali aumenti dei tassi d’interesse annullerebbero in una certa misura i loro sforzi nell’espandere la domanda per ridurre l’aumento della disoccupazione a causa del protezionismo statunitense; e porterebbe anche ad un corrispondente aumento dei tassi di interesse statunitensi. Ciò che appare attualmente come una “guerra commerciale” avviata da Trump, e che viene discussa, e derisa dai suoi detrattori, in quanto tale, prenderebbe presto la forma di aumenti competitivi dei tassi di interesse, di cui l’attuale aumento del tasso di interesse degli Stati Uniti sarebbe il primo sintomo. E tali rialzi annullerebbero in tutti i paesi capitalisti, compresi gli Stati Uniti, qualsiasi aumento dell’occupazione possa esser stato determinato da una politica di ampliamento del debito pubblico o qualsiasi misura protezionista.

Ciò che l’attuale congiuntura mostra chiaramente è che è impossibile superare la crisi capitalista senza impedire la libera circolazione dei flussi finanziari al livello mondiale, il che significa scrollarsi di dosso l’egemonia della finanza globalizzata. La strategia di Trump non mira a scrollarsi di dosso questa egemonia; e a meno che gli altri paesi capitalisti non siano disposti a scrollarsi di dosso questa egemonia, saranno tutti impegnati in una lotta competitiva di aumenti dei tassi d’interesse che complessivamente non comporterebbe alcun miglioramento della situazione dell’economia mondiale capitalista.

Vi sono solo due possibili modi logici in cui l’economia capitalista mondiale può uscire dall’attuale crisi prolungata. Uno consiste in uno stimolo fiscale coordinato da parte di tutti i paesi avanzati, del tipo che Keynes e un gruppo di sindacalisti tedeschi avevano suggerito durante la Grande Depressione degli anni ’30. Ciò naturalmente sarebbe fortemente contrastato dal capitale finanziario internazionale, che si oppone a ogni interventismo statale diretto che non operi attraverso se stesso; ma l’unità tra i principali stati nazionali, che potrebbero, attraverso tale unità, agire come uno stato mondiale surrogato, potrebbe teoricamente superare questa opposizione. Ma nessuno nel G-7 parla di questa strategia, il che significa che non è nell’agenda del mondo capitalista. Qualsiasi tentativo di perseguirla, poiché dovrebbe superare l’opposizione del capitale finanziario internazionale, cosa che il capitalismo non è in grado di fare, dovrebbe necessariamente comportare una transizione oltre il capitalismo, cioè una trascendenza del capitalismo nel processo stesso di superare la sua crisi.

Il secondo modo logico è se alcuni paesi decidessero di andare da soli, come Trump sta cercando di fare. Ma affinché ciò avvenga, dovrebbero essere messi in atto controlli sui capitali perché altrimenti le misure per prevenire i deflussi di capitali come ricaduta dell’agire autonomo (che richiederebbe necessariamente un attivismo fiscale a cui la finanza è sempre contraria) spingerebbe il paese, e i rivali, ad aumenti competitivi dei tassi di interesse, che sovvertirebbero, sia nei singoli paesi che nel mondo capitalista nel suo insieme, le prospettive di ripresa economica.

L’apparente successo economico di Trump di ripresa dell’economia americana, se vi fosse qualche successo, che a sua volta è dubbio, rappresenterebbe quindi solo il primo stadio di questa lotta competitiva; questo successo è destinato a essere negato mentre gli altri paesi reagirebbero alle sue mosse. Dal momento che né Trump né i suoi rivali pensano a restrizioni sui flussi di capitale, che minerebbero l’egemonia del capitale finanziario internazionale ed è escluso per questo motivo, la crisi strutturale del capitalismo è destinata a continuare, nonostante tutte le apparenze in senso contrario.