Trump ha abbandonato il TPP per proteggere una fazione dei Super Ricchi

trump bracciaapertedi Vijay Prashad*
da alternet.org

Traduzione di Lorenzo Battisti per Marx21.it

Il presidente americano Trump ha deciso che gli Usa escano ora dai negoziati sul commercio conosciuti come Trans-Pacific Partnership (TPP). Imprevedibilmente, alcuni leader sindacali americani lo hanno sostenuto celebrando questa azione. Questo abbandono del TPP è parte di un piano per incoraggiare l’occupazione negli Usa? No. L’uscita degli Stati Uniti dai negoziati del TPP dovrebbe essere compresa seguendo due assi – uno legato alla politica interna americana e l’altro mirante a una nuova strategia per ravvivare lo stagnante potere americano nel mondo.

Se Trump fosse serio sull’uscita dalla “globalizzazione”, avrebbe contemporaneamente fatto rumore su molti altri accordi commerciali – Trade in Services Agreement (TISA) e il Trattato Bilaterale sugli investimenti tra Usa e Cina. Ma non l’ha fatto. Come non ha licenziato i 500 consiglieri commerciali che, come scrive Lori Wallach di Public Citizen, rappresentano gli interessi delle grandi imprese nella formulazione di questi accordi commerciali. Non vuole rompere la nave della globalizzazione. Non è il suo vero interesse.

Non sono la Cina o il Messico (come sostiene Trump) e nemmeno l’avidità delle grandi imprese (come a volte sostengono i sindacati) che hanno colpito duro sulla forza lavoro americana. Quello che ha intaccato questa forza lavoro è la logica del capitalismo, la spinta delle imprese in competizione tra loro nell’abbassare i salari e nel sostituire gli uomini con le macchine. Le false guerre commerciali e le minacce di prove di forza o di sanzioni non sono la risposta alla dinamica che sostituisce gli uomini in nome del profitto. La sola risposta offerta dall’establishment, incluso Trump, è la demagogia. La crisi endemica del lavoro merita soluzioni serie: il controllo sociale sul surplus per migliorare la qualità di vita del popolo, una giornata lavorativa più corta, migliori servizi sociali, vite culturalmente più ricche. Niente di tutto ciò è parte del discorso.

False speranze

In maniera intelligente, Trump ha condotto la campagna elettorale contro sia il TPP che il NAFTA (il trattato di libero scambio con Messico e Canada). Ha sostenuto che è a causa di questi accordi che i posti di lavoro negli Usa sono spariti, producendo il “massacro americano” del quale ha parlato nel suo discorso inaugurale. Se questi accordi fossero stracciati, ha detto, l’America sarebbe in qualche modo tornata grande (“Make America Great Again).

Trump ha sostenuto che questi tipi di accordo hanno aiutato la Cina e il Messico a danneggiare l’America. Questa è una menzogna. Al contrario questi accordi commerciali hanno danneggiato i lavoratori cinesi, messicani e americani a vantaggio del capitale globale. È questo che ha beneficiato dell’attuale regime della globalizzazione.

Uscire da questi accordi – come pure “mantenere” le fabbriche della Carrier in Indiana – è ottimo per i titoli dei telegiornali, specialmente quando i media falliscono nel compito di educare il pubblico sulla natura del ritiro dal TPP e sulla richiesta di rinegoziare il NAFTA.

Perché i posti di lavoro sono scomparsi non solo negli Stati Uniti o in Occidente, ma anche, secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, a livello mondiale? Due processi hanno indebolito la forza lavoro mondiale, ed entrambi a vantaggio del capitalismo globale:

l’arbitraggio globale del lavoro, cioè avvantaggiarsi dei massicci differenziali salariali quando il FMI obbligò i paesi del Terzo Mondo a rendere disponibili i propri lavoratori per il capitale globale dopo le crisi del debito degli anni ’80. L’aggiunta all’inizio degli anni ’90 della forza lavoro cinese e quella dall’ex- URSS e dall’Europa dell’Est è stata una campana a morto per la più costosa forza lavoro occidentale.

In particolare per la forza lavoro americana in questo periodo si sono rinsecchiti i benefit sociali poiché i ricchi sono scesi in sciopero e hanno rifiutato di pagare le tasse per finanziare questi programmi. I lavoratori devono ora sopportare molti costi sociali (educazione, salute, pensioni), che avevano parzialmente conquistato attraverso i sindacati e le politiche socialdemocratiche. Senza sussidi sociali, i lavoratori americani sono molto più costosi che gli altri lavoratori. In questo contesto compagnie di investimento come Goldman Sachs e Morgan Stanley hanno perseguito un progetto di spoliazione patrimoniale, abbattendo stabilimenti industriali negli Usa e vendendoli ad altri paesi, mentre permettevano ai paesi e alle aree rurali di arrugginire nella disperazione degli oppioidi e di altre malattie sociali. Non ci sono incentivi – nemmeno la distruzione ambientale e la regolazione del lavoro di Trump – che possano fare rientrare il capitale globale negli Stati Uniti in maniera sostanziale.

La politica fiscale di Obama ha fornito capitale poco costoso alle banche, che si sono sedute su questo patrimonio e non hanno fornito investimenti sufficienti. Non c’erano incentivi a fare in una misura che avrebbe sollevato quegli “americani dimenticati” per cui Tump ha fatto campagna. La retorica di Trump sulla tassa sui confini non cambierà nulla.  Queste misure saranno bloccate o diluite dal suo stesso gabinetto, in particolare dal Segretario al Commercio Wilbur Ross (il Re della Bancarotta) e dal Segretario al Tesoro Steve Mnuchin (Goldman Sachs).

L’economista John Maynard Keynes scrisse della “disoccupazione tecnologica”, in cui le macchine rimpiazzano i lavoratori umani e li rendono degli esuberi. Questo processo era visibile a Karl Marx nel 19° secolo, e questi suggerì che la logica dell’accumulazione capitalistica si sarebbe rivolta verso la sostituzione degli uomini da parte delle macchine.

È esattamente quello che è già successo in molti settori chiave ad alta tecnologia, non solo nella manifattura di automobili ma anche nella produzione di computer. Gli Usa, dal 1979, hanno perso oltre sette milioni di posti di lavoro industriali sebbene la produzione manifatturiera sia raddoppiata nello stesso periodo. Michael Hicks e Srikant Devaraj del Center for Business and Economic Research mostrano che l’88% dei posti di lavoro persi negli Usa “può essere attribuito alla crescita della produttività e ai cambiamenti di lungo periodo dell’occupazione manifatturiera”, cioè alla meccanizzazione. Né il Messico né la Cina sono colpevoli. La colpa deve essere attribuita interamente al sistema – il capitalismo – che cerca di sostituire macchine ai lavoratori umani. Il processo è inarrestabile. Uno studio di McKinsey mostra che più della metà delle attività nell’economia americana nella manifattura, nell’ospitalità, nei servizi alimentari e nel commercio al dettaglio potrebbero essere automatizzati agli attuali livelli di tecnologia. Questi cambiamenti, sostengono gli analisti di McKinsey, “non avverranno nottetempo”. Ma avverranno. Già oggi nelle banche, negli aeroporti, come nei ristoranti fast food le macchine distribuiscono denaro, controllano il tuo arrivo e ti aiutano nell’effettuare gli ordini – questo è il destino del settore dei servizi.

Nessuna di queste condizioni sociali sarebbe una sorpresa per i giovani. Il rapporto 2016 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro sulla disoccupazione giovanile mostra come i giovani non siano solo sovrarappresentati tra i disoccupati, ma che sono sovrarappresentati anche tra la forza lavoro dei lavori part time e temporanei involontari. Questo condanni i giovani alla povertà estrema e alla migrazione. Trump demonizzerà i migranti, ma non prenderà in considerazione le cause della migrazione, che è la stessa causa del “massacro americano”.

Nessuna di queste cause sarà affrontata da Trump o dai Democratici o dalla classe politica occidentale. Non ne parleranno e non faranno nulla per migliorare le condizioni dei lavoratori. Slogan quali “la giornata di 4 ore” o “una distribuzione più giusta dei guadagni di produttività” o “maggiore salario sociale” (sanità gratuita, educazione gratuita, trasporti pubblici gratuiti) molto semplicemente non sono nel mazzo. Sarebbero una risposta razionale all’attuale crisi sociale del mondo. Ma sono idee irrazionali per il sistema capitalistico.

Accerchiare l’Eurasia

Il TPP delle 12 nazioni che si affacciano sull’Oceano Pacifico ha poco a che fare con il commercio. La maggior parte di questi paesi ha stretti legami economici con gli altri e ha relazioni commerciali molto libere. La spinta principale verso il TPP era quella di isolare la Cina. Il 5 Ottobre 2015, l’ex Presidente Obama rispose alle critiche verso il TPP dicendo “ non possiamo lasciare che paesi come la Cina scrivano le regole dell’economia globale”. Questo era il succo. Le basi militari americane dal Giappone all’Australia come lo stesso TPP miravano a inviare un messaggio a Pechino: accettate le regole decise dagli Stati Uniti o sarete buttati fuori da mercati cruciali nell’Est e nel Sud-Est asiatici. Queste sono le tecniche mafiose per proteggere l’egemonia degli Usa.

Allo stesso tempo, in Europa, l’amministrazione Obama ha spinto il TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership, l’Accordo Tranatlantico per il commercio e gli investimenti). Nel numero del 17 Novembre 2016 del WirschaftsWoche Obama e la Cancelliera tedesca Merkel scrivevano che la Germania e gli Usa avrebbero dovuto “forgiare assieme la globalizzazione basata sui nostri valori e sulle nostre idee”. Chi non avrebbe dovuto modellare le regole della globalizzazione? Non la Grecia e gli altri paesi del Sud Europa, sicuramente, e non – ovviamente – la Russia. L’espansione della Nato nell’Europa dell’Est – fino al confine Russo in Polonia – è parente delle basi americane ad Okinawa e di Subic Bay contro la Cina. Il TTIP, come il TPP, miravano ad assicurare che i paesi europei non venissero intrappolati dall’emergente potere russo. I russi hanno chiamato il TTIP una “Nato economica”. La Casa Bianca di Trump ha rimosso la pagina del TTIP dal suo sito internet. È quanto di più vicino ad un annullamento.

Queste non sono tanto regimi commerciali quanto armi per isolare la Cina e la Russia ai due capi dell’Eurasia. Nel 2010, il Presidente russo Vladimir Putin aveva parlato di alleanze commerciali che sarebbero andate da Vladivostok a Lisbona. Questo era inaccettabile per gli europei e per gli Stati Uniti. I russi hanno sviluppato il proprio regime commerciale – l’Unione Economica Eurasiatica – e i cinesi hanno il proprio – l’Alleanza comprensiva economica regionale. Questo blocchi cooperano anche tra loro attraverso il progetto cinese di nuova via della seta e verso un’integrazione economica russo-cinese. Più l’occidente ha cercato di tagliare fuori Russia e Cina dai suoi mercati, più questi hanno scoperto interessi comuni tra loro. Difficilmente l’amministrazione Trump sarà capace di inserire un cuneo tra Pechino e Mosca.

Trump può aver addolcito il linguaggio americano verso la Russia, ma non lo ha fatto verso la Cina. Il ritiro dal Tpp non cambierà la spinta strategica essenziale di quella politica – isolare e minacciare la Cina. “Pace attraverso la forza” è lo schema di Trump per la politica bellicosa contro la Cina. Questo è identico al progetto obamiano di “Pivot to Asia”. A Davos il Presidente cinese Xi Jinping ha detto precisamente che le guerre commerciali non avrebbero portato beneficio a nessuno. Non è del tutto vero. Solo il 4% della manifattura cinese arriva negli Usa. I dazi non sarebbero devastanti per gli interessi cinesi. Un dazio del 45% sull’import cinese distruggerebbe lo standard di vita del consumatore americano – molti dei quali languono con salari stagnanti. La rappresaglia da parte della Cina potrebbe indebolire il potere delle banche di offrire linee di credito a una forza lavoro incredibilmente indebitata. Una guerra commerciale – addirittura una guerra – tra Cina e Usa, se colpisce qualcuno, colpirà molto duramente la classe lavoratrice americana. Questo è qualcosa di cui Trump non ha parlato ai suoi elettori. Il suo è un populismo incoerente – avanza quella che sembra una critica della globalizzazione e allo stesso tempo porta avanti le stesse politiche.

*marxista indiano e professore al Trinity College di Londra