di Vladimiro Giacché
1. Il ritorno dello “stato stazionario”: la “stagnazione secolare”
La teoria economica ha recentemente riscoperto il concetto di «stato stazionario». È accaduto nel novembre 2013, allorché l’economista statunitense Laurence Summers ha parlato di «stagnazione secolare» (secular stagnation) in un discorso al Fondo Monetario Internazionale, per tornare sul tema pochi mesi dopo, nel febbraio del 2014, davanti agli economisti d’impresa statunitensi. In verità non si tratta di una teoria originale, ma di un revival: perché di «stagnazione secolare» aveva parlato nel 1938 l’economista Alvin Hansen rivolgendosi al presidente degli Stati Uniti1 .
Dopo Summers, l’idea è stata ripresa da altri economisti ed è attualmente al centro di un vivace dibattito, il cui contesto è stato così sintetizzato:
«Sei anni sono passati dallo scoppio della Crisi Globale e la ripresa non è ancora soddisfacente. I livelli di prodotto interno lordo sono stati superati, ma poche economie avanzate sono tornate ai tassi di crescita pre-crisi nonostante anni di tassi d’interesse praticamente a zero. Inoltre, cosa preoccupante, la crescita recente ha un vago sentore di nuove bolle finanziarie. La lunga durata della Grande Recessione, e le misure straordinarie necessarie per combatterla, hanno originato una diffusa sensazione, non meglio definita, che qualcosa sia cambiato. A questa sensazione ha dato un nome a fine 2013 Laurence Summers, reintroducendo il concetto di ‘stagnazione secolare’»2 .
Tale concetto, come ha osservato Paul Krugman, afferma che «periodi come gli ultimi 5 anni, e oltre, in cui anche una politica di tassi d’interesse a zero non è in grado di ricreare una situazione di piena occupazione, sono destinati ad essere molto più frequenti in futuro»3 .
In effetti, come noto, per quanti sforzi le autorità monetarie abbiano fatto negli Stati Uniti e altrove, portando i tassi d’interesse a zero e adottando misure «non convenzionali» di politica monetaria (quali l’acquisto di titoli di Stato e di altri assets finanziari da parte delle banche centrali), il risultato in termini di crescita è stato deludente: negli Stati Uniti, pochi punti percentuali a fronte della quadruplicazione della massa monetaria. Il tasso di crescita sia reale che potenziale è, ovunque nel mondo sviluppato, ben al di sotto dei livelli previsti prima dello scoppio della crisi.
Quanto all’Europa, «in nessun’altra area del mondo sviluppato l’ipotesi di “stagnazione secolare” riceve maggiori conferme che nell’eurozona», ha osservato recentemente Paul De Grauwe4 . Nella zona euro, ricorda Summers, «il pil reale è circa del 15 per cento inferiore a quello stimato nel 2008», e lo stesso prodotto potenziale «è stato rivisto al ribasso di quasi il 10 per cento»5 . Ma il problema è chiaramente di portata più generale: «la crescita economica media negli Stati Uniti è stata appena del 2 per cento negli ultimi 5 anni, a dispetto del fatto di partire da una situazione estremamente depressa» a causa della crisi. «Del pari, gli spread in Europa sono scesi e i timori di una dissoluzione dell’Eurozona sono stati accantonati, ma la crescita negli ultimi anni è stata glaciale e non se ne prevede una rapida accelerazione»6 .
Per quale motivo? Secondo Summers, perché già da ben prima della crisi il modello di crescita era insostenibile, in quanto basato sulla finanza e sul debito: «purtroppo, è chiaro che la difficoltà emersa negli ultimi anni quanto al raggiungimento di una crescita adeguata era già presente da molto tempo, ma era stata occultata da una finanziarizzazione insostenibile». Di più: «è da circa 20 anni che negli Stati Uniti l’economia non cresce più a un ritmo sano e sostenuta da una finanza sostenibile». Per quanto riguarda l’Europa le cose non stanno in modo molto diverso: anche in questo caso «retrospettivamente è chiaro che molta della forza che avevano le economie della periferia prima del 2010 era basata sulla disponibilità di credito eccessivamente a buon prezzo, e che gran parte della forza delle economie del nord Europa derivava da esportazioni [verso i paesi periferici, NdR] finanziate in modo alla lunga insostenibile»7 .
Di fatto, la crescita pre-crisi, negli Stati Uniti come in Europa, è stata pagata con gli squilibri finanziari che hanno poi fatto da detonatore alla crisi. Dopo la crisi, le cose non sono cambiate: «se negli anni a venire si vorrà mantenere la piena occupazione, i tassi d’interesse reali nel mondo industrializzato dovranno probabilmente essere mantenuti più bassi di quanto lo siano stati storicamente», e tutto questo «può avere implicazioni importanti per la stabilità finanziaria»8 .
Ma a cosa si deve questa maledizione della bassa crescita, che ha bisogno di essere drogata finanziariamente, con la certezza di alimentare bolle speculative? L’insieme dei contributi sulla “stagnazione secolare” raccolti da Teulings e Baldwin non offre un punto di vista non diremo unico, ma neppure convergente circa le cause di questa situazione. In tal modo la «secular stagnation» finisce per essere più una descrizione di quanto sta accadendo alle nostre economie che una sua spiegazione.
2. La caduta tendenziale del saggio di profitto: la legge
L’attuale revival dello stato stazionario può consentirci di guardare con qualche maggiore attenzione a una delle sue declinazioni passate, quella offerta da Marx con la sua teoria della caduta tendenziale del saggio di profitto.
Secondo Marx la società capitalistica è caratterizzata da una tendenza di lungo periodo alla diminuzione della profittabilità del capitale, ossia alla caduta del saggio di profitto. Tale tendenza è basata sulla teoria del valore-lavoro. Per Marx il valore di una merce è dato dal lavoro in essa incorporato. Soltanto il lavoro umano può creare valore e al tempo stesso conservare e sfruttare il valore già incluso nei macchinari (che altrimenti, se nessun lavoratore li facesse funzionare, non soltanto non creerebbero nuovo valore, ma perderebbero anche il valore che possiedono). È il lavoro umano in atto (il lavoro vivo) a procurare al capitalista i suoi profitti, fornendogli lavoro non pagato (pluslavoro), cioè ossia lavoro supplementare rispetto a quello necessario per riprodurre la forza lavoro (lavoro necessario): questo pluslavoro produce infatti un valore supplementare, un plusvalore, rispetto al valore della forza-lavoro affittata dal capitalista all’inizio del processo di produzione.
Proprio a motivo di questa peculiarità del lavoro umano di creare nuovo valore, Marx definisce il capitale impiegato per comprare l’uso della forza lavoro capitale variabile e quello adoperato per acquistare macchinari e mezzi di lavoro capitale costante. Ora, il problema è che con lo sviluppo del modo di produzione capitalistico aumenta la proporzione del capitale investito in macchinari rispetto a quello investito in forza-lavoro: si verifica, in altri termini, «una diminuzione relativa del capitale variabile in rapporto al capitale costante e quindi in rapporto al capitale complessivo messo in movimento»9 . Marx definisce questo processo anche come una progressiva crescita della «composizione organica del capitale». Si tratta di «un’altra espressione dello sviluppo progressivo della forza produttiva sociale del lavoro, che si manifesta proprio in ciò, che in generale, per mezzo del crescente uso di macchinari, capitale fisso, più materie prime e ausiliarie vengono trasformate in prodotti nello stesso tempo, ossia con meno lavoro»10 . La diminuzione relativa del capitale variabile in rapporto al capitale costante fa sì che a parità di condizioni il saggio di profitto – ossia il rapporto tra il plusvalore e il capitale complessivo investito nella produzione (la somma di capitale variabile e capitale costante) – diminuisca11 . Questa la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto. È quindi la crescente produttività del lavoro sociale a far calare il saggio di profitto. E questo calo per Marx ostacola a sua volta lo sviluppo del processo capitalistico di produzione e favorisce il prodursi delle crisi:
«nella misura in cui il saggio di profitto, il saggio di valorizzazione del capitale complessivo è il pungolo della produzione capitalistica, così come la valorizzazione del capitale è il suo unico scopo, la sua caduta rallenta la formazione di nuovi capitali indipendenti e appare come una minaccia per lo sviluppo del processo di produzione capitalistico. (Questa stessa caduta favorisce sovrapproduzione, speculazione, crisi, capitale in eccesso accanto alla forza-lavoro in eccesso o sovrappopolazione relativa)»12 .
3. La legge alla prova degli ultimi decenni
Se esaminiamo i dati economici degli ultimi decenni, questa tendenza è senz’altro riscontrabile. Nel periodo che va dal 1973 al 2008, il saggio di crescita del prodotto interno lordo pro capite (un proxy del saggio di profitto) è stato all’incirca la metà del saggio di crescita registrato negli anni 1950-1973. Se dal calcolo si escludesse la Cina, esso sarebbe ancora inferiore13 . E all’interno di questa stessa serie storica la crescita è sempre minore col passare degli anni. La crescita mondiale negli anni Novanta è stata mediamente inferiore a quella dei decenni precedenti14 , e il decennio successivo si è chiuso con la peggiore crisi mondiale degli ultimi ottanta anni. Tra il 1960 e il 1970, il Pil mondiale non è mai cresciuto ad un ritmo inferiore al 4 per cento; dal 1991 in poi, in nessun anno è cresciuto ad un ritmo superiore al 4 per cento, ed è quasi sempre risultato molto inferiore15 . Dopo il 2008, ci dice ora Summers, le cose non sono andate meglio: la crescita del pil nei cosiddetti paesi emergenti non è riuscita a compensare il brusco calo, e poi l’affannoso e stentato recupero nei paesi a capitalismo maturo.
Per quanto riguarda specificamente il saggio di profitto, la più completa ricerca in materia dimostra una tendenza generale al calo del saggio di profitto negli ultimi decenni e il suo convergere su livelli simili nei principali Paesi dell’Occidente industrializzato, sia pure con andamenti tra loro non uniformi. Particolarmente eloquenti i dati riguardanti Germania, Francia e Italia, che evidenziano un dimezzamento del saggio di profitto tra i primi anni Sessanta e i primi anni del nuovo millennio.16 Dopo la crisi, a una moderata ripresa in Germania hanno fatto riscontro dati molto deludenti in Francia e soprattutto in Italia. Il Giappone, che muoveva da livelli relativamente più elevati del saggio di profitto, evidenzia una diminuzione ancora maggiore dal 1970 a oggi.
Stati Uniti e Gran Bretagna, che muovevano invece da livelli più bassi, sembrano evidenziare una relativa ripresa dagli anni Ottanta al 200717 . Però, a dispetto di una diffusa convinzione, negli ultimi decenni neppure gli Stati Uniti hanno conosciuto un boom dei profitti. Tutt’altro. Se si considerano i profitti medi delle imprese americane prima delle tasse dopo il 1940, si osserva una costante diminuzione: dal 1941 al 1956 il saggio di profitto era del 28 per cento, dal 1957 al 1980 è stato del 20 per cento, per scendere ancora al 14 per cento nel periodo 1981-200418 . Se prendiamo il periodo dal 1997 al 2008, osserviamo una caduta del saggio di profitto del 12 per cento, e per contro una crescita della composizione organica del capitale del 22 per cento. La relazione inversa tra i due fattori è chiara anche su periodi più lunghi: nei 45 anni tra il 1963 e il 2008 il saggio di profitto negli Stati Uniti è diminuito del 21 per cento, a fronte di una crescita della composizione organica del capitale del 51 per cento (mentre nello stesso periodo il saggio del plusvalore è cresciuto del 5 per cento)19 .
4. Fattori di controtendenza
Per intendere appieno il significato della caduta del saggio di profitto in Marx e le sue implicazioni per l’interpretazione dei più recenti sviluppi del capitalismo è necessario aggiungere che si tratta di una tendenza alla diminuzione e non di un crollo – tantomeno un crollo improvviso. Questo perché, come osserva lo stesso Marx, la diminuzione del saggio di profitto può essere in parte controbilanciata da «fattori di controtendenza (conteragirende Einflüße), che frenano e contrastano l’efficacia della legge generale, dandole il carattere di una semplice tendenza»20 .
I fattori di controtendenza indicati da Marx sono stati tutti operanti negli ultimi decenni, con maggiore o minore intensità.
1) Aumento del grado di sfruttamento del lavoro, cioè accrescimento del plusvalore, soprattutto attraverso il prolungamento del tempo di lavoro (plusvalore assoluto) e l’intensificazione del lavoro e l’aumento della produttività del lavoro (plusvalore relativo). Per Marx questo fattore consente di fare da contrappeso alla caduta del saggio di profitto aumentando la quota di lavoro non pagato, ossia il saggio del plusvalore21 .
2) Compressione del salario al di sotto del suo valore. Secondo Marx questa è «una delle cause più importanti che rallentano la tendenza alla caduta del saggio di profitto»22 . Cosa significa questa compressione in concreto? Per intenderlo bisogna partire da questo: per Marx «il valore della forza-lavoro è il valore dei mezzi di sussistenza necessari per la conservazione del possessore della forza-lavoro». D’altra parte, però, questo valore è storicamente determinato:
«il volume dei cosiddetti bisogni necessari, come pure il modo di soddisfarli, è anch’esso un prodotto della storia, dipende quindi in gran parte dal grado d’incivilimento di un paese e, fra l’altro, anche ed essenzialmente dalle condizioni, quindi anche dalle abitudini e dalle esigenze fra le quali e con le quali si è formata la classe dei liberi lavoratori. Dunque la determinazione del valore della forzalavoro, al contrario che per le altre merci, contiene un elemento storico e morale»23 .
Sotto questo profilo, è indubbio che oggi in un paese a capitalismo avanzato il valore della forza-lavoro (ossia l’insieme dei mezzi di sussistenza ritenuti socialmente accettabili) è superiore a quello dell’Ottocento. Ma è altrettanto indubbio che la riduzione dei salari avvenuta negli ultimi anni collochi i salari attuali in molti casi nettamente al di sotto del loro valore storico medio dei 2-3 decenni precedenti. Ciò è ancora più evidente se si tiene conto non soltanto del salario diretto (il netto in busta paga), ma anche della riduzione che hanno conosciuto le varie componenti del salario indiretto e differito attraverso la generalizzata diminuzione della protezione sociale, la privatizzazione dei sistemi pensionistici, e così via. Del resto, il prezzo che il capitalista paga per l’utilizzo della forza-lavoro di un lavoratore precario che non può permettersi un affitto e deve vivere presso i genitori è oggi inferiore al prezzo delle sue condizioni di riproduzione24 .
3) Ribasso del prezzo degli elementi del capitale costante. Al riguardo Marx osserva:
«la stessa evoluzione che accresce la massa del capitale costante in rapporto a quello variabile, riduce attraverso l’accresciuta forza produttiva del lavoro il valore degli elementi del capitale costante, e quindi impedisce che il valore del capitale costante – che pure cresce continuamente – cresca nella stessa proporzione in cui cresce il volume materiale del capitale costante, cioè l’entità materiale dei mezzi di produzione che sono messi in movimento dalla stessa forza lavoro»25 .
Ne consegue che in realtà il mutamento della proporzione tra capitale variabile e capitale costante è nei fatti molto inferiore a quanto si potrebbe desumere dall’aumento dell’entità materiale degli elementi (macchinari ecc.) che compongono quest’ultimo.
4) La sovrappopolazione relativa. Essa si è manifestata in particolare sotto forma di pressione di un gigantesco esercito industriale di riserva presente nei paesi emergenti. L’accentuata concorrenza di produzioni realizzate in paesi a minor costo della forza-lavoro (e, in misura molto minore, l’immigrazione di manodopera a basso costo) ha infatti esercitato una fortissima influenza calmieratrice sui salari dei Paesi industrialmente più avanzati.
5) Il commercio estero. Secondo Marx il commercio estero rappresenta a più riguardi un fattore di controtendenza rispetto alla caduta del saggio di profitto, almeno nel breve periodo.
In primo luogo, grazie ad esso il volume della produzione si accresce consentendo economie di scala e quindi una riduzione dei costi unitari: questo «rende più a buon mercato tanto gli elementi del capitale costante, quanto quelli che formano direttamente il capitale variabile (mezzi di sussistenza necessari)»26 . In tal modo il commercio estero agisce in modo favorevole all’aumento del saggio di profitto, per un verso accrescendo il saggio del plusvalore (in quanto il valore della forza-lavoro cala, e quindi una maggior parte della giornata lavorativa può essere rappresentata da lavoro non pagato) e per un altro diminuendo il valore del capitale costante (la qual cosa rallenta l’aumento della composizione organica del capitale).
In secondo luogo, la superiorità tecnologica delle merci prodotte in un determinato paese può consentire un sovrapprofitto nel fare concorrenza a merci prodotte altrove con tecnologia meno avanzata: «i capitali investiti nel commercio estero possono fruttare un saggio di profitto superiore» – osserva Marx – perché qui «si concorre con merci che sono prodotte da altri paesi con condizioni di produzione meno favorevoli e così il paese più progredito vende le sue merci al di sopra del loro valore, benché più a buon mercato dei paesi concorrenti»27 .
In terzo luogo, con riferimento ai «capitali investiti in colonie» (oggi gli investimenti diretti esteri in paesi emergenti), Marx osserva che «essi possono fruttare saggi di profitto più elevati, perché in quei paesi il saggio di profitto è in generale più elevato a causa del minore sviluppo e in secondo luogo […] vi è un maggiore sfruttamento del lavoro»28 .
Gli effetti di medio-lungo periodo del commercio estero, invece, non sono così favorevoli al saggio di profitto. Infatti «lo stesso commercio estero sviluppa il modo di produzione capitalistico e quindi la diminuzione in patria del capitale variabile rispetto a quello costante e produce d’altro lato sovrapproduzione in rapporto all’estero, perciò ha di nuovo alla lunga l’effetto opposto»29 .
Se una peculiarità della situazione attuale va segnalata, essa riguarda l’ampliamento del commercio non soltanto in termini di estensione spaziale, ma anche nel senso più generale di un ampliamento della sfera del commercio, ossia di ciò che è commerciabile e viene messo a profitto. la tendenza alla colonizzazione di ogni ambito dell’esistenza da parte del capitale.
6) Aumento del capitale produttivo di interesse. Questo fattore, al quale Marx si limita ad accennare al termine della propria trattazione dei fattori di controtendenza30 , consiste nella destinazione di una parte crescente del capitale a capitale produttivo d’interesse, ossia all’investimento in obbligazioni o azioni (più in generale, in attività creditizie e finanziarie).
È questo il fattore che ha costituito negli ultimi decenni, sino allo scoppio della crisi nel 2007, il più potente fattore di contrasto alla caduta del saggio di profitto.
5. Capitale produttivo d’interesse, finanza e crisi
Si tratta di un processo decisivo per i paesi a capitalismo maturo dagli anni Ottanta in poi. La cosiddetta “finanziarizzazione” ha avuto una triplice, importantissima funzione: 1) mitigare le conseguenze della riduzione dei redditi dei lavoratori; 2) allontanare nel tempo lo scoppio della crisi da sovrapproduzione nell’industria; 3) fornire al capitale in crisi di valorizzazione nel settore industriale alternative d’investimento a elevata redditività. In questo modo essa ha rallentato – e per alcuni anni invertito – la tendenza alla caduta del saggio di profitto.
Consideriamo più da vicino le tre funzioni menzionate.
1) Bolle speculative (azionaria e immobiliare) e sviluppo del credito al consumo hanno creato un effetto ricchezza e consentito anche a famiglie a basso reddito di contrarre debiti relativamente a buon mercato. In tal modo il tenore di vita delle persone con redditi mediobassi ha cominciato ad essere almeno in parte sganciato dall’andamento del reddito da lavoro. Il mondo ideale dei capitalisti: lavoratori che vedono diminuire il proprio salario e però consumano come e più di prima. Con l’unico difetto di essere un modello insostenibile nel lungo periodo.
2) Lo sviluppo di credito e finanza dava al tempo stesso respiro alle imprese di tutto il mondo. Soprattutto a quelle di settori maturi. Esse hanno fatto un massiccio utilizzo del credito al consumo31 , hanno potuto riscadenzare i propri debiti a condizioni di tasso eccezionalmente favorevoli, hanno emesso azioni a costi decrescenti, grazie all’afflusso crescente di denaro sui mercati finanziari. Infine hanno fatto profitti da operazioni finanziarie.
3) La speculazione come mezzo per la valorizzazione del capitale. La possibilità di effettuare attività speculative per ottenere livelli di profitto altrimenti impossibili: questa la terza grande funzione del credito e della finanza in questi anni e la strada maestra per la redditività imboccata negli anni precedenti la crisi anche da molte imprese manifatturiere, che hanno così posto rimedio alla crisi di valorizzazione e del capitale nei settori originari di attività. In effetti, se si esamina l’andamento dei profitti in gran parte dei paesi capitalistici avanzati si osserva che a partire dalla fine degli anni Novanta quelli da attività finanziarie cominciano a crescere vertiginosamente, perdendo ogni rapporto tanto con l’andamento del Pil quanto con i profitti provenienti da altre attività: eclatanti i casi degli Stati Uniti, in cui nei primi anni Ottanta il settore finanziario vantava il 10% dei profitti totali, proporzione salita al 40% nel 2007, e ancora di più quello del Regno Unito, dove tale proporzione nel 2008 aveva raggiunto addirittura l’80%32.
In base alla ricostruzione che si è proposta, la stessa ampiezza e gravità della crisi scoppiata nel 2007 non è affatto sorprendente. Essa rappresenta infatti il precipitato di oltre un trentennio in cui il saggio di profitto è stato alimentato dalla finanziarizzazione su larga scala, ossia da un ruolo sempre più preponderante del capitale produttivo d’interesse. Se si interpreta, con Riccardo Bellofiore, la caduta del saggio di profitto come una «meta-teoria delle crisi», una sorta di cornice concettuale comprensiva entro la quale vanno ricostruite le forze e i fattori volta per volta scatenanti delle singole crisi33 , è facile vedere come la crisi del 2007 sia stata innescata proprio da quel capitale produttivo d’interesse la cui crescente importanza aveva rappresentato nei decenni precedenti il principale fattore di controtendenza alla caduta del saggio di profitto. Il detonatore della crisi è stato infatti rappresentato dallo scoppio della bolla finanziaria che si era creata grazie all’accumulo di debito privato.
6. Dopo la crisi: business as usual oppure…?
La crisi iniziata nel 2007 ha assunto col passare del tempo le caratteristiche di una vera e propria crisi generale, provocando una significativa distruzione di capitale su scala mondiale. Non sembra però che tale distruzione sia stata sufficiente a ripristinare condizioni di migliore redditività del capitale investito e quindi a far ripartire l’accumulazione del capitale. A fronte di politiche monetarie ultra-espansive e di una socializzazione delle perdite di dimensioni inaudite, i tassi di crescita e di redditività media post-crisi sono evidentemente insoddisfacenti.
D’altra parte le politiche economiche e monetarie adottate dai principali paesi capitalistici avanzati, pur tra profonde differenze, hanno un comune presupposto, e cioè la convinzione di potere tornare allo stesso modello di crescita precedente la crisi, imperniato sul capitale produttivo d’interesse. Per contrastare la tendenza alla caduta del saggio di profitto la soluzione individuata è insomma quella di perpetuare l’egemonia del capitale produttivo d’interesse, pur sapendo che questo non farà che riproporre – e su scala ancora più estesa – i problemi che pochi anni fa hanno condotto a una delle più gravi crisi della storia del capitalismo.
A onor del vero Summers accenna – con comprensibile delicatezza – anche a una soluzione alternativa per far ripartire la crescita:
«Alvin Hansen enunciò il rischio di una stagnazione secolare alla fine degli anni Trenta, in tempo per assistere al boom economico contemporaneo e successivo alla seconda guerra mondiale. È senz’altro possibile che si produca qualche evento esogeno di grande portata in grado di aumentare la spesa o di ridurre il risparmio in misura tale da accrescere il tasso di interesse reale da piena occupazione nel mondo industriale e da rendere irrilevanti le preoccupazioni che ho espresso. Guerra a parte, non è chiaro quali eventi del genere possano verificarsi»34 .
Come noto, l’analisi marxiana delle crisi conduce a conclusioni ben diverse. Per Marx la crisi è da un lato parte integrante del funzionamento normale del modo di produzione capitalistico, è più precisamente il modo attraverso cui, periodicamente, il capitalismo risolve i suoi problemi. Per ciò stesso, la crisi secondo Marx è però d’altra parte anche qualcosa di diverso, e cioè un sintomo:
«nelle contraddizioni, crisi e convulsioni acute si manifesta la crescente inadeguatezza dello sviluppo produttivo della società rispetto ai rapporti di produzione che ha avuto finora. La distruzione violenta di capitale, non in seguito a circostanze esterne a esso, ma come condizione della sua autoconservazione, è la forma più evidente in cui gli si rende noto che ha fatto il proprio tempo e che deve far posto a un livello superiore di produzione sociale»35 .
Negli ultimi decenni, e in particolare dopo la fine dell’Unione Sovietica e delle “democrazie popolari” dell’Est europeo, la possibilità stessa di un «livello superiore di produzione sociale» è stata rifiutata quale astratto utopismo, tendenzialmente totalitario. È però la realtà stessa del modo di produzione capitalistico e delle sue contraddizioni a riproporre la necessità di quell’obiettivo.
Se dobbiamo credere a Summers, il rilancio dell’obiettivo del socialismo è cosa oggi non soltanto necessaria, ma anche urgente.
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Note
1 Il testo fu pubblicato l’anno seguente: ALVIN HANSEN, “Economic Progress and Declining Population Growth”, in American Economic Review, 1939, a.29, n.1, pp. 1-15. Hansen aveva però introdotto l’espressione «secular stagnation» già anni prima: cfr. ALVIN HANSEN, “Capital Goods and the Restoration of Purchasing Power”, in Proceedings of the Academy of Political Science, 1934, a.16, n.1, pp. 11-19.
2 Secular stagnation: Facts, Causes and Cures, a cura di C. TEULINGS E R. BALDWIN, CEPR Press, London, 2014, p. 1.
3 Op. cit., p. 6.
4 PAUL DE GRAUWE, “Secular Stagnation in the Eurozone”, voxeu.org, 30 gennaio 2015.
5 Secular stagnation: Facts, Causes and Cures, cit., p. 28.
6 Op. cit., p. 30.
7 Idem, p. 31.
8 Idem, p. 36.
9 Das Kapital (Ökonomisches Manuskript 1863-1865), Drittes Buch, Drittes Kapitel. Gesetz des tendenziellen Falls der allgemeinen Profitrate im Fortschritt der kapitalistischen Produktion, in K. MARX, F. ENGELS, Gesamtausgabe (MEGA). Zweite Abteilung. “Das Kapital” und Vorarbeiten, Band 4: K. MARX, Ökonomische Manuskripte 1863-1867. Text – Teil 2. Hrsg. von der Internationalen Marx-Engels-Stiftung, Amsterdam. Bearbeitet von M. Müller (Leiter), J. Jungnickel, B. Lietz, Chr. Sander u. A. Schnickmann, Dietz Verlag, Berlin 1992, pp. 285-340; tr. di V. Giacché, “Legge della caduta tendenziale del saggio generale di profitto col progredire della produzione capitalistica”, in KARL MARX, Il capitalismo e la crisi. Scritti scelti, a cura di V. GIACCHÉ, DeriveApprodi, Roma, 2009, rist. 2010, pp. 109-174. Il passo citato è a p. 110.
10 Ibidem.
11 Il riferimento, per Marx, è al capitale anticipato. Quindi nel misurare il saggio di profitto il capitale va considerato al suo costo storico, e non al suo costo corrente. In materia cfr. ANDREW KLIMAN, The Failure of Capitalist Production, Pluto Press, London, 2012, p. 109 sgg..
12 KARL MARX, Il capitalismo e la crisi. Scritti scelti, cit., p. 138.
13 A. KLIMAN, The Failure …, cit., p. 51-52.
14 In proposito vedi i dati riportati in J. HALEVY, “Stagnazione e crisi: Usa, Asia nippo-americana e Cina”, in L. VASAPOLLO (a cura di), Lavoro contro capitale. Precarietà, sfruttamento, delocalizzazione, Jaca Book, Milano 2005, pp. 181 sgg.
15 A. FREEMAN, In our lifetime: long-run growth and polarisation since financial liberalisation, intervento per il convegno For Historical Materialism, dicembre 2006.
16 M. Li, F. Xiao, A. Zhu, Long waves, institutional changes, and historical trends: a study of the long-term movement of the profit rate in the capitalist world economy, «Journal of World-Systems Research», vol. XIII, n. 1, 2007, pp. 33-54, partic. pp. 38-40.
17 M. Li, F. Xiao, A. Zhu, Long waves…, cit..
18 A. KLIMAN, “The Destruction of Capital” and the Current Economic Crisis, 15 gennaio 2009, e A. KLIMAN, The Persistent Fall in Profitability Underlying the Current Crisis: New Temporalist Evidence, second draft, 17 ottobre 2009, p. 23. Si veda anche la tabella 5.1. in The Failure…, cit., p. 82, in cui sono confrontati saggi di profitto prima e dopo le tasse, con o senza scorte. La caduta del saggio di profitto è ancora più chiara se al denominatore si aggiungono anche gli assets finanziari acquistati dalle imprese, come ragionevolmente proposto da Alan Freeman, e non soltanto gli investimenti produttivi. Eloquente in particolare il caso del Regno Unito, che in questo modo vede una caduta costante del saggio di profitto dal 1990 in poi: cfr. A. FREEMAN, “The profit rate in the presence of financial markets: a necessary correction”, in Journal of Australian Political Economy, n. 70, 2012, pp. 167-192, e in particolare il grafico 6 a p. 177; ma l’effetto sarebbe sensibile anche per gli Stati Uniti: cfr. grafico 7 a p. 179.
19 M. ROBERTS, “Marx’s law of the tendency of the rate of profit to fall and theory of crises: does it fit the facts?”, presentazione alla Critique Conference, Amsterdam, 11 aprile 2014, pp. 4, 5.
20 KARL MARX, Il capitalismo e la crisi. Scritti scelti, cit., pp. 127-128. Di grande interesse anche le ulteriori controtendenze esposte da H. Grossmann, Das Akkumulations- und Zusammenbruchsgesetz des kapitalistischen Systems (Zugleich eine Krisentheorie), 1929; tr. it. Il crollo del capitalismo. La legge dell’accumulazione e del crollo del sistema capitalista, Mimesis, Milano, 2010, pp. 286-369.
21 KARL MARX, Il capitalismo e la crisi. Scritti scelti, cit., pp. 128 sgg.
22 Op.cit., p. 132.
23 KARL MARX, Il capitale, libro I, sez. II, cap. 4, § 3. Il passo si trova a p. 203 della traduzione di Delio Cantimori, Editori Riuniti, Roma, 1968, pp. 203-204.
24 Un buon punto di osservazione per misurare la compressione dei salari medi negli ultimi decenni è rappresentato dalla crescita apparentemente inarrestabile della disuguaglianza sociale: una vera e propria summa in argomento è THOMAS PIKETTY, Il capitale nel XXI secolo, 2013, tr. it. Bompiani, Milano, 2014.
25 KARL MARX, Il capitalismo e la crisi. Scritti scelti, cit., p. 132.
26 Op. cit., p. 133.
27 Op. cit., p. 134.
28 Op. cit., p. 135.
29 Ibidem.
30 Op. cit., p. 137.
31 Non a caso le società di credito al consumo delle principali case automobilistiche mondiali sono state le prime ad essere severamente colpite dalla crisi nel 2007-2008.
32 Vedi in J. BELLAMY FOSTER, F. MAGDOFF, Financial Implosion and Stagnation. Back to the Real Economy, «Monthly Review», dicembre 2008, edizione online, p. 7, chart 1; A. FREEMAN, “The profit rate in the presence of financial markets: a necessary correction”, in Journal of Australian Political Economy, n. 70, 2012, pp. 173-174.
33 R. BELLOFIORE, La crisi capitalistica, la barbarie che avanza, Asterios, Trieste, 2012, pp. 30-31.
34 Ibidem, corsivo mio.
35 KARL MARX, Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie (1857/8); tr. it. in KARL MARX, Il capitalismo e la crisi. Scritti scelti, cit., p. 105.