Riportiamo ampi stralci dell’editoriale di Guido Salerno Aletta apparso su Milano e Finanza del 14 luglio. Ad oltre 10 anni dalla scoppio della crisi e dopo 10 anni di politiche d’austerità il debito continua ad aumentare. Alla base, e sono i numeri a dimostrarlo, c’è la diminuzione dei salari e la finanziarizzazione dell’economia. Un’analisi lucida e consapevole che alza il velo sui distrastri del passato e su quelli del presente.
Il risultato è paradossale: dopo dieci anni di politiche economiche, fiscali e monetarie, volte a porre rimedio ad una crisi determinata da debiti eccessivi, il volume complessivo dei debiti mondiali è aumentato ancora.
La loro crescita è esponenziale: alla fine del terzo trimestre del 2017 ammontavano complessivamente a 233 mila miliardi di dollari. Rispetto alla vigilia della crisi, convenzionalmente fissata al terzo trimestre del 2007, l’incremento è stato di 71 mila miliardi di dollari: un valore, questo, sostanzialmente pari ai debiti complessivi esistenti nel 1997, quando erano stati pari a 70 mila miliardi. Nello stesso periodo ventennale, il pil mondiale a valori correnti è passato da 31,8 mila a 79,8 mila miliardi di dollari. In vent’anni, il pil è aumentato di 2,5 volte, mentre il debito si è moltiplicato per 3,3.
Il fenomeno, ben conosciuto, va sotto il nomee di finanziarizzazione dell’economia. Pone un rischio sempre più grave per la stabilità globale, soprattutto ora che è in corso la normalizzazione delle politiche monetarie, che conduce a tassi di interesse tendenzialmente più elevati di quelli adottati in questi anni per favorire i debitori.
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La dinamica dei debiti nei diversi settori fornisce indicazioni assai rilevanti. Nel 1997 presentavano una percentuale di debito sostanzialmente analoga: la maggior quota spettava comunque alle società non finanziarie (con 22 mila miliardi di dollari e 64% del pil mondiale); seguivano i governi (19 mila miliardi e 58%) e le banche (14 mila miliardi e 53%); infine, venivano le famiglie (11 mila miliardi e 42%). Nel decennio successivo, al terzo trimestre del 2007, si rileva una assoluta stabilità della percentuale dei debiti pubblici sul pil, ferma al 58% del pil mondiale: è il frutto delle politiche post-keynesiane e neoliberiste su entrambe le sponde dell’Atlantico, con la abolizione generalizzata del finanziamento del deficit pubblico con mezzi monetari da parte delle banche centrali. Il debito delle società finanziarie sale di 13 punti sul pil, mentre quello delle famiglie cresce di 15 punti: sono l’effetto della compensazione tra interventi pubblici e privati e di una dinamica inferiore dei redditi da lavoro. La ritirata dello Stato e la compressione delle richieste salariali dopo la caduta del Comunismo si fanno sentire. Tutto però si scarica sul debito delle società finanziarie, che passa in valore assoluto da 14 mila a 53 mila miliardi di dollari (moltiplicandosi per 3,8 volte) e dal 53% all’86% del pil mondiale (crescendo di 33 punti). Il settore finanziario era cresciuto e si era esposto al rischio in modo straordinariamente elevato: l’aumento dei tassi di interesse, volto a frenare in America la dinamica del mercato immobiliare, esaurì le risorse disponibili delle famiglie sub-prime che dichiararono default, facendo detonare la crisi finanziaria.
Dopo la crisi del 2008, il debito globale cresce ancora, ma in modo diverso.
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I fattori critici sono tre. Primo, il persistere ed in taluni casi l’accrescersi degli squilibri internazionali, tra Paesi che hanno un avanzo strutturale delle partite correnti ed altri un saldo perennemente passivo. In secondo luogo, si manifesta l’incapacità del sistema dei cambi valutari di equilibrare questi squilibri per via dei conflitti interni ai rispettivi sistemi economici, con le imprese non finanziarie che tifano per una moneta debole al fine di scoraggiare l’importazione ed il sistema finanziario che ha necessità di una valuta forte per finanziare lo squilibrio commerciale e per intermediare maggiori risorse provenienti dall’estero: il sistema del Fmi deciso a Bretton Woods per le monete e quello fondato sul Wto per il libero commercio, non assicurano più né l’equilibrio internazionale, nè l’interdipendenza.
Da ultimo, ci sono le politiche monetarie accomodanti e non convenzionali adottate in questi anni dalle banche centrali: hanno avuto un effetto positivo dal punto di vista congiunturale e sintomatico, alleviando il costo del finanziamento del debito per i debitori, chiunque fossero, Stati, imprese e famiglie, ma negativo sotto il profilo strutturale perché la liquidità è stata immessa nel circuito finanziario e non in quello economico. Se fosse stata immessa attraverso quest’ultimo, finanziando direttamente i deficit pubblici, la moneta aggiuntiva sarebbe entrata in circolazione ed avrebbe creato le condizioni per un aumento dei prezzi al consumo e successivamente dei salari, abbattendo il valore reale dei debiti contratti. Invece, per obbedire alla logica della competizione mercantilista, fondata sulla stabilità assoluta dei prezzi e sulla riduzione dei prezzi e dei salari che comporta la deflazione, la liquidità aggiuntiva è stata fornita al sistema finanziario: averlo liberato dalla detenzione di debito pubblico con i cosiddetti Qe, o di obbligazioni private, è assolutamente indifferente. Le banche centrali hanno offerto al sistema finanziario i mezzi aggiuntivi per aumentare il debito globale, e così è stato.
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