Oltre l’agonia di questa Europa

di Raffaele D’Agata | da www.ilpicchioasinistra.it

EU 29993aL‘accanimento terapeutico che permette all’Europa di Maastricht di vegetare ha ricevuto una nuova spinta per effetto delle elezioni greche del 17 giugno. Medici pietosi ma poco coscienziosi sono infatti già all’opera spacciando il risultato delle urne greche (o piuttosto della loro manipolazione per effetto di una legge-truffa elettorale, considerata ormai normale in questa Europa) come un segno di miglioramento. Nuove droghe saranno quindi prescritte. Appelli accorati e solenni continueranno ad essere indirizzati ai responsabili affinché facciano immediatamente qualcosa di straordinario per salvare in extremis la moneta unica e la stessa Unione. Ci sono tre mesi di tempo, si assicura. Anche meno, qualcuno teme. Ma ciò che manca non è il tempo, per quanto scarso. Ciò che manca sono le idee. I responsabili non ne hanno. Peggio, non hanno intenzione di cambiare le idee deleterie cui si sono attenuti per oltre vent’anni. D’altra parte, gli appelli a fare presto che sentiamo risuonare da tribune accreditate e influenti entro l’establishmment – come quello recente del “Sole-24 ore” – hanno poco di veramente straordinario quanto alla sostanza. Infatti non mettono fondamentalmente in discussione quelle idee.

Quali idee, cioè? Si è trattato (e, ostinatamente, si tratta ancora) né più né meno che di un progetto di restaurazione dell’ordine dell’economia e della società che precedette immediatamente il Novecento (questo secolo “maledetto”). Si tratta, specificamente, del tentativo di restaurare il sistema monetario aureo, sebbene in una forma immateriale e limitata a ciò che una volta era detto il Vecchio Mondo. Certo, tale proposito ha avuto una portata più globale nel corso degli ultimi tre decenni per quanto riguarda il suo principio fondamentale, ossia la tendenziale scarsità del denaro come solo e inderogabile fondamento della stabilità del suo valore (a preliminare vantaggio di tutti coloro che, privatamente, ne possiedano in abbondanza). Ma ciò che ha reso particolarmente perversa la versione europea (e specificamente tedesca) di questo disegno, è stata la consequenzialità ideologica che ne ha fatto una vera e propria religione.

In realtà, un tale orientamento non disdegnò di convivere opportunisticamente con le sregolatezze del monetarismo spendaccione e guerriero inaugurato negli Stati Uniti nell’era Reagan e continuato con varie oscillazioni fino alle disastrose guerre di Bush il Giovane: salvo guardarlo con benigna superiorità e auspicare periodicamente e indulgentemente una maggiore disciplina. Molto minore appare invece oggi l’indulgenza dei sommi sacerdoti di Berlino e di Francoforte nei confronti dei pur flebili tentativi fatti da Obama in patria per sostenere un po’ anche la domanda, e meno ancora nei confronti delle sue sollecitazioni a rilanciare la domanda in Europa. Per questa Germania è infatti inaccettabile che gli Stati Uniti intendano sostenere il proprio reddito anche collocando beni e servizi, piuttosto che continuare solo a indebitarsi al riparo del dollaro globale.

La crisi generale del capitalismo contemporaneo, che è esplosa alla fine degli anni zero del Duemila, ha in effetti scompaginato le opportunistiche compatibilità che avevano dato forma all’Occidente dopo la fine della guerra fredda. Tra il 1990 e il 1991 la Germania neutralizzò i sospetti e le diffidenze dei suoi vicini d’Occidente e quelle degli Stati Uniti nei confronti della sua unificazione mediante due fondamentali concessioni. Da una parte, cioè, accettò una nuova denominazione europea (e qualche limitato condizionamento) per quella che già da tempo esisteva come vera e propria area del marco. Dall’altra, accettò la riconversione della NATO, che passava dalle sue originarie e ormai obsolete funzioni nel controllo dell’equilibrio geopolitico europeo a quelle di agente globale di protezione e promozione di interessi altrettanto globali garantiti dalla potenza militare degli Stati Uniti (di cui, a sua volta, la Germania garantiva il finanziamento).

Questi due distinti compromessi – innanzitutto – non erano a loro volta perfettamente compatibili tra loro. Il successo iniziale dell’euro infastidì alquanto gli Stati Uniti e la stessa Gran Bretagna (membro pressoché onorario dell’Unione Europea), e contribuì a ispirare atti di forza unilaterali da parte delle due potenze anglosassoni in relazione con le combinazioni mediorientali di petrolio e finanza. Ma poi, e soprattutto, all’interno dell’Unione stessa, la snazionalizzazione e l’europeizzazione della Deutschemark ebbero un valore ed effetti piuttosto nominali che sostanziali. Determinarono infatti un’euforia artificiale, in termini di accesso al credito da parte di paesi periferici come i cosiddetti “Piigs”, le cui classi dirigenti accettarono volentieri la perdita della sovranità monetaria reale, a favore della moneta comune finta, in cambio di un vantaggio di corto respiro e di pessimo effetto: la possibilità cioè, di indebitare più facilmente i loro popoli al fine di proseguire a buon mercato le politiche clientelari e corrotte che assicuravano loro il potere.

Non appena, però, l’esplosione globale delle bolle finanziarie, a partire dal 2007, rese esitanti e sospettosi i volubili e potenti detentori del capitale mobile transnazionale, il castello di carte cominciò precipitosamente a rovinare. Ormai, perciò. questi paesi sono esposti senza schermi né finzioni alle tipiche implicazioni di un regime automatico di cambi fissi (cioè non bilanciato da interferenze attive dei governi nei confronti dei mercati, come nel sistema di Bretton Woods) in tempi di crisi strutturale e acuta: ossia, tragiche limitazioni delle opportunità di vita, della giustizia sociale, e della stessa democrazia. E i governi di questi paesi tendono a procedere di conseguenza.

L’euro, in effetti, non è stato e non è che la denominazione unica di distinte monete, adottata come assoluta e ferrea garanzia di inalterabilità del rapporto di cambio tra di esse, e corroborata in modo sostanziale da vincoli rigidi e automatici che annullano quasi del tutto le possibilità di scelta quanto alle politiche economiche interne in base a normali processi democratici. E’ stato, inoltre, la copertura di un comportamento mercantilista della Germania e di comportamenti opportunistici e non meno miopi delle classi dirigenti di molti altri paesi dell’area. La Germania, da parte sua, si è assicurata cioè una contemporanea e costante sommatoria di attivi finanziari e di attivi commerciali, dal momento che questi secondi (dati i meccanismi esistenti) non erano riciclati in risorse a favore dello sviluppo dell’economia reale nei paesi periferici ma confluivano prevalentemente nel circuito speculativo della finanza globale. Le classi dirigenti della maggior parte degli altri paesi di “Eurolandia”, a cominciare dai “Piigs”, a propria volta si sono allegramente gettate nel vortice di quel circuito allo scopo di alimentare le loro rovinose politiche.

In queste condizioni, salvare contemporaneamente l’euro, la democrazia, e l’Unione, è teoricamente possibile soltanto attraverso una vera e propria rivoluzione, cioè attraverso un radicale ricambio d’idee e di personale politico dirigente che attualmente è reso impervio e quasi improbabile dai meccanismi inerziali all’opera: in particolare, meccanismi elettorali fatti appositamente per tenere lontano dal potere ogni idea che non sia canonica e disastrosamente ortodossa. Gli elementi essenziali, necessari e urgenti, di una tale rivoluzione, possono essere riassunti così: l’abbandono della religione della moneta scarsa innanzitutto da parte della Germania (anche se l’intero establishment europeo ne è profondamente succubo); un poderoso rilancio della domanda interna nelle aree forti (anche con la conseguenza di un certo grado d’inflazione consapevole e controllata); una nuova e severa regolamentazione dell’attività bancaria accompagnata anche da una consistente ondata di nazionalizzazioni o ri-nazionalizzazioni degli istituti di credito; una riappropriazione da parte dell’autorità pubblica di funzioni sovrane nella creazione e nell’offerta di mezzi di pagamento in vista di finalità generali. Ciò comporterebbe una disponibilità della Germania a mettere in gioco e a rischio le proprie specifiche risorse, e una disponibilità degli altri paesi (a cominciare dalla Francia) a cedere reali quote di sovranità a un’autorità federale democraticamente investita, sulla quale l’oggettivo peso della componente tedesca si farebbe naturalmente sentire, e non potrebbe che essere riconosciuto (oltre che regolato). È ben difficile dire quale di queste condizioni sia oggi la meno lontana dal realizzarsi.

I tempi che si annunciano, perciò, non sembrano destinati ad avere alcunché di normale o di tranquillo. Nell’impossibilità, per ora, di dire sì a questa unica via di salvezza (che è preclusa dall’attuale distribuzione del potere e dalla sua persistenza inerziale, ma dovrebbe essere rivendicata e indicata in tutte le piazze e davanti a tutti i palazzi d’Europa), non resta che dire intanto, e decisamente, no: no a questa austerità, no all’espropriazione dei poteri democratici a favore di piloti automatici progettati da tecnici al servizio dell’alta finanza, no alla privatizzazione di tutto ciò che unisce e rende davvero civile una comunità, no all’espropriazione del diritto al lavoro e dei diritti nel lavoro. Con giusta e consapevole demagogia; o meglio – per non svalutare l’estensione della cittadinanza attiva e consapevole che più volte ha manifestato la sua presenza – con ironica, paziente – ma ferma – demagogia reciproca.