Ma cos’è questa crisi?

di Vladimiro Giacché | da linus.net

giacchéOrmai tutte le decisioni assunte dai Governi dell’Eurozona vengono giustificate in nome dei mercati: si opera per ricevere la loro benevolenza ed evitare la loro “ira funesta” (la prima si traduce nella disponibilità ad acquistare i titoli di Stato emessi dal nostro Paese, la seconda nel venderli).

Come ho già ricordato nel numero di Linus di febbraio, l’idea (sbagliata) che si debba ossequiare sempre e comunque quello che desiderano i mercati risale agli anni Novanta, e precisamente agli anni in cui si decise la moneta unica: fu allora che il presidente della Bundesbank, Hans Tietmeyer, lodò il fatto che i Governi nazionali avevano scelto di privilegiare “il permanente plebiscito dei mercati mondiali” rispetto al “plebiscito delle urne”. E in effetti il Governo Monti deve la propria nascita precisamente al fatto che si è deciso di privilegiare il primo tipo di plebiscito rispetto al secondo (ossia alle elezioni anticipate, che sarebbero state la logica conseguenza del fallimento di Berlusconi e della sua maggioranza).

Ora la verità è che non esiste un signor Mercato. I mercati non sono persone, ma luoghi in cui si scambiano delle cose (scarpe, pesci, azioni, obbligazioni), in genere contro denaro. E quando parliamo dei “mercati” come dotati di un’autonoma volontà, parliamo in realtà di ciò che risulta dalle tante volontà individuali, spesso contrastanti tra loro, di chi opera sui mercati. Nel caso dei mercati finanziari, si tratta di trader e operatori di borsa, di gestori di fondi di investimento, e simili.

Questi operatori non agiscono (in genere) in maniera arbitraria e irrazionale, ma assumono delle informazioni, fanno i loro ragionamenti, e sulla base di questi comprano o vendono. Ovviamente non tutti gli operatori sono uguali: ce ne sono alcuni più influenti di altri, o per il fatto di aver azzeccato molte previsioni in passato (in gergo si dice che hanno un “buon track record”), o per il fatto di gestire molti soldi, o per il fatto di avere entrambe le caratteristiche (ovviamente, spesso la seconda caratteristica deriva dalla prima).

E veniamo al punto: chi dice di “operare per dare le risposte giuste ai mercati” dovrebbe fare attenzione a quello che pensano e dicono davvero almeno gli operatori più influenti.

E farebbe bene, ad esempio, a prestare attenzione a quanto ha sostenuto recentemente George Soros. Fondatore nel 1970 del Quantum Fund e poi del Soros Fund Management, questo signore nel 1992 ha speculato con successo sia contro la lira che contro la sterlina, contribuendo alla fuoriuscita di entrambe dal sistema monetario europeo, e 5 anni più tardi contro la valuta della Malesia, contribuendo all’esplodere della crisi asiatica del 1997-98 (in un testo cinese uscito nel 1999, Guerra senza limiti, si considera quest’ultimo episodio come un esempio da manuale di guerra non convenzionale).

Quello che pensa della situazione europea, Soros l’ha esplicitato in un discorso tenuto l’11 aprile scorso a un incontro berlinese dell’Inet-Center for Imperfect Knowledge Economics e in un articolo uscito lo stesso giorno sul Financial Times con un titolo eloquente: “Il futuro dell’Europa non dipende dalla Bundesbank”.

Che cosa sostiene Soros? Diverse cose. Intanto, spara una bordata contro due architravi del neoliberismo contemporaneo: “Non sono la persona più adatta per criticare la teoria delle aspettative razionali e l’ipotesi dei mercati efficienti perché, nella mia qualità di operatore sui mercati, le ho sempre considerate così fuori dalla realtà che non mi sono mai preso la briga di studiarle”. Recentemente Warren Buffett (un altro gestore di grandi patrimoni, nonché l’uomo più ricco degli Stati Uniti) ha espresso lo stesso punto di vista affermando testualmente: “Se i mercati fossero sempre efficienti, oggi sarei un barbone per strada con una tazza di latta”. Niente di strano: proprio i grandi guadagni di persone come Soros e come Buffett sono la migliore dimostrazione del fatto che i mercati non sono efficienti, ossia che non incorporano tutta l’informazione disponibile a un dato momento su un determinato titolo.

Ma Soros fa un ulteriore passo: argomenta che la crisi che attualmente imperversa in Europa rappresenta “un’eccellente illustrazione” dell’interazione tra l’imperfezione dei mercati e decisioni politiche imperfette. La decisione politica imperfetta per eccellenza è rappresentata dal Trattato di Maastricht, che diede vita a un’unione monetaria senza un’unione politica. Un altro errore fu rappresentato dalla mancata previsione di una via d’uscita dall’unione monetaria: cosicché oggi i “membri più deboli dell’unione si trovano nella situazione di un Paese del Terzo Mondo che si è sovraindebitato in una valuta forte”.

Ma nel Trattato di Maastricht sono contenute due altre assunzioni sbagliate: la prima è che soltanto il settore pubblico possa produrre squilibri inaccettabili, mentre il mercato sarebbe in grado di correggere da solo i propri eccessi; la seconda è che il Trattato stesso avesse comunque posto dei presidi sufficienti contro gli squilibri del settore pubblico. Il primo errore ha condotto a sottovalutare il progressivo divergere delle economie dei diversi Paesi europei, il secondo a ritenere che gli investimenti in titoli di Stato europei fossero comunque privi di rischio.

Quando anche in Europa arriva la crisi, che ha molto più a che fare con squilibri competitivi e crisi bancarie che con i bilanci pubblici, le autorità europee non capiscono la natura del problema. E cercano di prendere tempo, sperando che la tempesta si plachi. Questo però non succede, perché i problemi finanziari sono acuiti da un “processo di disintegrazione politica e sociale”. Ossia da una rinazionalizzazione delle politiche e dei capitali: “Col procedere della crisi” osserva a ragione Soros “il sistema finanziario è stato progressivamente riorientato su basi nazionali”.

Le interconnessioni finanziarie tra i diversi Paesi, che ancora all’inizio della crisi rendevano inconcepibile una fine dell’euro, si sono progressivamente ridotte. Questo trend sta accelerando: infatti gli stessi soldi prestati dalla Bce alle banche sono serviti (almeno in parte) alle banche italiane e spagnole per comprare titoli di Stato dei loro Paesi, da cui invece le banche tedesche ormai si tengono alla larga. Non solo: la Germania sta riducendo la domanda interna, mentre i Paesi indebitati avrebbero bisogno che la espandesse per esportare di più e compensare la caduta della domanda interna dovuta alle misure di austerità.

Tutto questo condanna al fallimento lo stesso fiscal compact (ossia le nuove regole sul deficit e sul debito pubblici approvate da 25 Stati dell’Unione Europea): “Gli Stati più indebitati” osserva Soros “non riusciranno ad attuare le misure di austerità richieste o, se lo faranno, non riusciranno a raggiungere i loro obiettivi a causa del crollo della domanda. In entrambi i casi, il rapporto debito/pil peggiorerà, e il divario di competitività con la Germania aumenterà”

Conseguenza obbligata: “Che l’euro resista oppure no, l’Europa sta andando incontro a un lungo periodo di stagnazione economica o peggio”. Secondo Soros è improbabile che l’Unione Europea sopravviva: “la trappola deflazionaria del debito” rappresentata dal fiscal compact minaccia di farla saltare.

Come fare per scongiurare questa prospettiva? Secondo Soros si dovrebbe innanzitutto modificare radicalmente il fiscal compact, tenendo conto non soltanto del debito pubblico ma anche del deficit della bilancia commerciale, e distinguendo tra spese correnti e investimenti che possono far ripartire la crescita (questi ultimi dovrebbero essere cofinanziati dalla Banca europea degli investimenti). In secondo luogo, occorre una condivisione europea dei debiti eccedenti il 60% del pil. In terzo luogo, il debito esistente dovrebbe poter essere rifinanziato a tassi non più elevati di quelli in essere.

La conclusione di Soros è questa: “La Bundesbank non accetterà mai queste proposte, ma le autorità europee dovrebbero prenderle sul serio. Il futuro dell’Europa è una questione politica: e quindi travalica l’ambito delle competenze della Bundesbank”.

Parole di buon senso. Non ascoltarle, da parte dei politici europei così pronti a “dare risposte ai mercati”, sarebbe paradossale. Ma soprattutto molto pericoloso.