di Harry Magdoff * | monthlyreview.org
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
Questo articolo, adattato da un discorso tenuto nel 1995 al Congresso degli Studenti Socialisti a New York, è apparso per la prima volta nell’edizione 1995 della Monthly Review. Le citazioni sono state aggiunte dagli editori.
Gli economisti si confrontano con una semplice questione: come diavolo fa a funzionare l’economia? Milioni e miliardi di transazioni diverse sono compiute ogni giorno e il sistema sta insieme. Come fa il processo circolare di produzione, distribuzione e consumo a coordinarsi? Sebbene vi siano differenze di interpretazione tra le varie scuole di economisti, c’è un’idea comune su come il sistema riproduce se stesso e cresce. Questa è l’opinione diffusa di come si crede stia assieme. (1) I beni (sia che siano materie prime, beni intermedi o prodotti finiti) vengono venduti per denaro. (2) I pagamenti in denaro finiscono per imboccare eventualmente due vie: salari per i lavoratori, riserve di deprezzamento e profitti per i padroni.
(3) I lavoratori usano i propri salari per acquistare beni di consumo. (4) I padroni usano parte del loro reddito per rimpiazzare gli impianti logori, e la maggior parte del resto per aumentare i profitti (tutto, eccetto una piccola parte per il consumo), i loro affari affari o per iniziarne di nuovi. Con maggiori investimenti, una maggior quota di persone avrà salari, viene prodotto di più ed ancor più denaro sarà disponibile per espandere la produzione. In questo modo, viene mantenuto un equilibrio tra, da una parte, la capacità di fabbricare beni di produzione e di consumo, e, dall’altra, la domanda effettiva per il prodotto di ognuno di questi settori di produzione.
Questo processo circolare non è sempre tranquillo e armonioso, ma le interruzioni e gli squilibri lo raddrizzano in breve tempo. Qualche commercio con le altre nazioni può essere necessario per disporre di materie prime od alimenti. A parte occasionali disturbi e un po’ di commercio estero, un’economia capitalista pura e chiusa dovrebbe essere capace di crescere per sempre con il proprio combustibile.
Questi sono i rudimenti della teoria economica che emerse nei primi momenti del capitalismo e che, implicitamente o esplicitamente, rimane fermamente integrata al giorno d’oggi nell’idea popolare ed accademica del capitalismo.
E’ una teoria gradevole e confortevole, ma che ha un senso solo al più alto livello di astrazione e sotto condizioni solo ipotetiche. Al più, può essere un punto di partenza per lo studio del mondo reale. Tuttavia, quando si scava nelle supposizioni che stanno dietro alla teoria e nella storia di più di 200 anni del capitalismo industriale, diventa chiaro che le condizioni perché una crescita si sostenga da se’ in un’economia capitalista chiusa semplicemente non esistono nel mondo reale. Ci sono in effetti barriere incorporate ad una continuità automatica. Così, se il capitalista investe tutto il suo profitto nell’espansione dei suoi affari, raggiunge un punto dove esiste troppa capacità produttiva. per esempio, dopo che ogni famiglia in un paese possiede un refrigeratore, reinvestire tutti i profitti in questa produzione sarebbe controproducente. La capacità produttiva esistente sarebbe di solito sufficiente per incontrare la domanda della popolazione in crescita e per sostituire le unità usurate. Questi limiti all’espansione infinita sono tipici di tutte le produzioni. Quindi, essendo identico per tutte le altre cose, l’eccessivo investimento è una minaccia persistente ad una crescita bilanciata. Se invece i profitti rimangono al minimo a causa dell’assenza di opportunità per un investimento proficui, la domanda di beni intermedi di produzione decresce o ha un declino e si innesca una reazione a catena: i nuovi entrati nel mercato del lavoro come quelli che lo hanno perso per l’avanzamento della produttività non possono trovare lavoro, la domanda effettiva per i beni di consumo si restringe, l’economia ristagna e può entrare in una spirale di crisi.
Ed ancora, a dispetto dell’intrinseco pericolo di eccesso delle capacità produttive, il capitalismo si distingue dalla vasta espansione a lungo termine delle sue forze produttive. Come avviene? Per rispondere a ciò, dobbiamo spostarci dalla teoria alla storia. Tre strade sono state particolarmente significative nel procurare una via d’uscita dalla trappola della sovraccumulazione. La prima consiste nello sviluppo di nuovi prodotti o di cambiamenti radicali nella tecnologia. La seconda in saldi più alti – un aumento nel valore della forza-lavoro, come direbbe un marxista.
La lotta di classe militante non conduce solamente a salari migliori ma a varie forme di welfare sociale, ed in tale modo all’espansione del mercato interno. Per terzo, lo sviluppo e l’estensione dei mercati per beni ed investimenti in paesi stranieri. Queste sono state le principali frontiere della crescita capitalista. Mentre giocano un ruolo significativo nella diffusione e nella crescita del sistema capitalista in tutto il globo, ognuna di loro possiede limiti intrinseci. L’innovazione non arriva a comando, né seguendo necessariamente i consigli del medico. Alcune innovazioni contengono il potenziale per avviare un nuovo impulso di crescita. Altre possono risultare non abbastanza efficaci per compensare gli sforzi fiacchi negli investimenti complessivi. Come per i più alti standard di vita che sostengono il mercato interno, non c’è assicurazione che il fenomeno continui o che sarà sufficiente. La classe dei capitalisti e lo Stato fanno con riluttanza concessioni e al fine di assicurare e proteggere i loro profitti cercheranno di restringere questa crescita e, come nella congiuntura odierna, di mettere indietro l’orologio. Per quanto riguarda la terza via di fuga dalla sovraccumulazione – mercati esteri per i beni ed investimenti nella periferia – essa è sempre limitata dalla povertà che si accompagna al sottosviluppo, e per giunta la natura della penetrazione e dominazione capitalista dei territori periferici crea barriere anche su questo fronte.
Se, quindi, un capitalismo puro che si autosorregge è insufficiente per la crescita economica, i contorni dello sviluppo capitalista devono essere visti nella prospettiva dell’allargamento o del restringimento delle sue frontiere. Su codesto punto, è importante prender nota di un’importante e profonda trasformazione che ebbe luogo dopo i primi cento anni dalla Rivoluzione industriale. Nell’infanzia e nella giovinezza del capitalismo industriale – dal 1760 al 1870 – sembrava che la crescita economica futura e l’espansione fossero senza fine. Negli ultimi cento anni o giù di lì, comunque, è divenuto sempre più visibile che le frontiere non sono senza limiti.
Per giunta, esse hanno invece una tendenza a restringersi e quindi creare una crescente tensione sociale ed una intensiva competizione tra le nazioni. Queste caratteristiche del capitalismo maturo hanno avuto primaria influenza sul corso della storia fino all’ultimo quarto del diciannovesimo secolo, e devono essere tenute in considerazione se vogliamo confrontarci con le questioni odierne.
In breve, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, J.R. Hicks, un noto economista britannico, osservò alla conclusione del suo libro Value and Capital: “Non si può combattere il pensiero che forse l’intera Rivoluzione industriale degli ultimi due secoli non sia stata altro che un grande boom secolare”. Joan Robinson, più tardi si è riallacciata a codesto tema, aggiungendo una prospettiva spesso ignorata o sottovalutata: “Pochi negherebbero che l’estensione del capitalismo nei territori nuovi sia stata la molla principale di ciò che un economista accademico ha chiamato il ‘grande boom secolare’ degli ultimi due secoli, e molti economisti accademici spiegano le condizioni precarie del capitalismo nel ventesimo secolo colla ‘chiusura delle frontiere’ in tutto il mondo” (1)
Dichiarazioni di questo genere e le ipotesi che sto per presentare sono naturalmente in parte esagerate. esse tuttavia sono rilevanti se ci muoviamo dall’astratta teoria che è stata incorporata nell’ideologia dominante e diamo uno sguardo a volo d’uccello sulla storia del capitalismo. In tal modo, la contraddizione tra l’espansione della capacità produttiva e i limiti della domanda interna effettiva si accentua sin dai primi momenti della Rivoluzione industriale. Il rapido sviluppo britannico della capacità manifatturiera basato sulle nuove tecnologie ed il suo impressionante aumento della ricchezza sono dipesi dall’espansione delle frontiere per l’esportazione del surplus produttivo. E’ nel ruolo di “laboratorio del mondo”, che la bravura industriale britannica e la ricchezza sono rifiorite. Anche in questo modo, la rapida espansione dell’industrialismo non ha provveduto a sufficiente occupazione per la crescente popolazione.
Gli avanzamenti tecnologici nell’agricoltura e nell’industria hanno prodotto una massiccia disoccupazione, risolta in parte dalle ondate di emigrazione nelle “nuove terre”. Quando i mercati interni non erano abbastanza grandi da assorbire i prodotti di una capacità in espansione, mercati esteri vennero creati dalle conquiste, dall’influenza politica e dall’aiuto in prestiti ed investimenti. Come le altre nazioni europee e le altre terre fondate dagli europei presero la via del capitalismo industriale, si scontrarono con i limiti delle frontiere, come successe all’Inghilterra, ed anch’esse trovarono la via di fuga con le conquiste e la penetrazione. Nel 1800, L’Europa e i suoi possedimenti, incluse le ex colonie, reclamavano il possesso di circa il 55 per cento dell’intera superficie terrestre: Europa, Americhe del Sud e del Nord, gran parte dell’India e piccoli settori lungo le coste dell’Africa. Ma molto di questo era solamente rivendicato a parole; il controllo effettivo esisteva su poco più del 35 per cento, gran parte del quale era costituito dalla stessa Europa. Dal 1878, 6,5 milioni di miglia quadrate in più venivano reclamate; durante tale periodo, per mezzo del naviglio a vapore, della costruzione di ferrovie ed armamenti avanzati, il controllo è stato consolidato sulle nuove rivendicazioni e su tutti i territori reclamati nel 1800. Dal 1800 al 1878, l’effettivo dominio europeo (incluse le ex colonie in nord e sud America) è quasi raddoppiato, aumentando dal 37 al 67 per cento dell’intera superficie terrestre (2)
Le conquiste tecnologiche della Rivoluzione industriale, l’industrializzazione delle altre nazioni europee e degli USA, l’allargamento dei mercati interni, e la creazione di mercati ed opportunità di investimento in arre non capitaliste – tutto ciò ha nutrito il boom secolare dopo la nascita della Rivoluzione industriale. Anche questo boom, come molti altri, finì in una lunga ed acuta depressione mondiale. Nel 1889, David A. Wells, ex presidente dell’Associazione Americana di Scienze Sociali, descrisse questi anni di cambiamento nel modo seguente:
L’esistenza di una molto curiosa, e per molti versi, inedita agitazione e depressione del commercio, dello scambio e dell’industria, che, prima manifestandosi in grado marcato nel 1873, è poi prevalsa con intense fluttuazioni fino al tempo presente (1889), è un fenomeno sociale ed economico che è stato riconosciuto ovunque. La sua peculiarità più notevole è stata la sua universalità, dal momento che ha coinvolti sia le nazioni entrate in guerra che quelle che si erano mantenute in pace; quelle che avevano valuta stabile, basata sull’oro, e quelle che non avevano una stabile valuta, basata su promesse che non hanno mantenuto, quelle che vivevano all’interno di un sistema di libero scambio di beni e quelle nelle quali gli scambi sono più o meno regolamentati. E’ stata seria e grave in vecchie comunità come l’Inghilterra e la Germania, ma egualmente seria in Australia, Sud Africa e California, che rappresentano il nuovo. (3)
L’aspetto significativo di questa grande depressione è che era il risultato di una sovraccumulazione di capitale nel mezzo di una nuova ondata di tecnologia – una seconda rivoluzione industriale segnata dalla produzione di massa di acciaio, elettricità, e chimica di sintesi. Era anche un periodo dove i più giovani potentati industriali si erano sufficientemente espansi da sfidare l’egemonia britannica nel commercio, nella finanza e nella potenza militare. Anch’essi necessitavano di mercati per assorbire il prodotto delle nuove industrie di produzione di massa. L’intensificata concorrenza nel mezzo di una sovrapproduzione e di mercati limitati ha condotto ad una improvvisa discesa dei prezzi, a bancarotte, e all’ascesa di grandi organizzazioni imprenditoriali, cartelli e trust. Da questa grande depressione si originò l’alba dell’età del capitale monopolistico e del nuovo imperialismo- un cambiamento radicale rispetto al passato.
Due caratteristiche distinguevano il nuovo imperialismo. Primo, il coinvolgimento di tutte le potenze industrializzate, inclusi gli USA e il Giappone. Secondo, la corsa alle colonie e i conflitti tra le potenze sulla divisione delle periferie. Il tasso di conquiste territoriali tra i tardi anni 70 dell’800 e il 1914 è stato tre volte quello dei primi tre quarti del diciannovesimo secolo. Dal 1914 le potenze coloniali, le loro colonie ed ex colonie si estendevano su oltre l’85 percento della superficie terrestre. (4)
Il boom secolare dei primi 100 anni dopo la Rivoluzione industriale ha condotto allo sviluppo di un sistema internazionale sotto la guida della Gran Bretagna, la diffusione del gold standard amministrato dalla Banca d’Inghilterra e all’ascesa dei prezzi internazionali delle materie prime che giungevano a Londra. Ma la diffusione dell’industrialismo nei paesi dominanti e l’impulso all’espansione innescato dall’incessante accumulazione di capitale, ha portato non solo alla crescita delle rivalità per i territori coloniali ma anche alla competizione per i mercati tra le stesse potenze, alla crescita del protezionismo, e ad un largo uso di prestiti e investimenti all’estero come aiuti alla crescita economica interna e ai profitti. Con ciò giunse la sfida all’impero finanziario ed economico britannico ed all’egemonia commerciale, una corsa agli armamenti e alla fine la Prima guerra mondiale.
Il periodo tra le guerre napoleoniche e la Prima guerra mondiale viene di solito descritto come una lunga era di pace. Non lo fu. Ci furono guerre locali in Europa (la guerra Franco-Prussiana, le guerre di Crimea), la Guerra civile negli Stati Uniti, e le brutali guerre di conquista in Africa ed ovunque nelle periferie.
Ma all’interno dell’Europa, il centro del sistema internazionale, il bilanciamento delle potenze ha funzionato per decenni – fino a che è arrivata la nuova fase del capitalismo. I cambiamenti arrivati con la grande depressione del 1873-1896 sono il preludio alla storia del secolo presente: un periodo nel quale ci sono state due guerre mondiali, la Grande depressione, un breve intermezzo di egemonia USA e di boom, seguito da una lunga ed estesa stagnazione nella quale stiamo ancora sguazzando. Viviamo ancora in un mondo dominato da gigantesche corporation, se non fosse che sempre maggiore potere viene esercitato dalle istituzioni finanziarie e dai mercati valutari. La nuova fase della globalizzazione non ha diminuito le rivalità tra le potenze, mentre si sono aggiunte caratteristiche nuove. Gli sforzi della sovracapacità continuano a intensificare la competizione per i mercati. Ed anche se c’è una nuova favolosa tecnologia elettronica, gli investimenti in questo e nelle aree correlate non sono stati sufficienti ad invertire la stagnazione dell’ultimo quarto di secolo.
In conclusione, una visione dall’alto del secolo passato dimostra che il presente è lontano dall’essere nuovo. Con tutte le sue nuove caratteristiche, dipende da una fase del capitalismo stabilizzata da molto tempo. Molto è stato omesso in questa presentazione, in particolare le rivoluzioni socialiste, la decolonizzazione, e la moltitudine di guerre succedutesi dalla fine dell’ultima più grande. Ma queste omissioni non invalidano il tema principale. In effetti andrebbero a dimostrare con maggior forza la natura distruttiva e violenta dei monopoli e della fase imperialista del capitalismo. Ciò che è rilevante per la discussione in questa sede è il lungo declino a partire dal 1970, le due guerre mondiali, la Grande depressione, l’imperialismo, la dipendenza crescente di tutti i potentati industriali dalla finanza a debito, ed il correre all’indietro dell’orologio di oggi, tutte parti di un grande quadro dominato dalle frontiere intrinseche del capitalismo.
Il welfare state è venuto incontro a certi bisogni dopo la Seconda guerra mondiale: l’esempio della piena occupazione nel blocco sovietico e il desiderio del sostegno popolare per le avventure imperialiste. Ma fu sostenibile solamente in quanto c’era un’inedita ondata di prosperità nelle prime decadi dopo la guerra. Per molti anni ancora, le stesse forze familiari della sovraccumulazione e delle rivalità tra le potenze nel mezzo di una depressione economica universale si sono riaffermate. La crescita di una superstruttura finanziaria globale ha aiutato per un certo tempo a sostenere i profitti e la sostenibilità economica. Ma la fragilità del sistema finanziario si è manifestata con frequenza sempre più alta. Come già notato, le nuove industrie della telecomunicazione e la nuova autostrada informatica hanno, al loro meglio, solo parzialmente compensato altrove il declino degli investimenti.
E dove ogni potenza e la periferia vanno a cercare una via d’uscita? Esportazioni, più il potenziale degli investimenti in Est Europa e Cina. Ma se stanno cercando la medesima via d’uscita, in un modo di frontiere in via di restringimento, scontri e rivalità più grandi sono di là da venire. Perché questo lungo fervorino di angoscia e disastri? Perché, anche se non è una fiaba, conduce a mio parere ad una morale. E cioè che dovremmo abbandonare i miti e le illusioni che c’è una via per ristrutturare il capitalismo per farlo ancora girare, per invertire le tendenze degli ultimi cento anni. Alcuni dei nostri compagni parlano di una lotta per una migliore struttura di accumulazione. Ma questa accumulazione sta laddove il cane è sepolto.
Le riforme di cui parlano i progressisti ed i radical sono modi per aumentare la produttività e raddrizzare il nostro sistema monetario – tutti sono regolati per funzionare in un circuito veloce di crescita, quando è il circuito veloce di crescita stesso che è il problema. Così molti dei nostri progressisti e radicali di sinistra non sembrano liberarsi dall’essere elemento chiave per l’ideologia borghese. Per essere chiari, non sto parlando delle lotte per la protezione del popolo, per la campagna di togliere ai ricchi per proteggere i poveri. Questa lotta è una priorità principale, naturalmente.
Ma non stiamo ad illuderci con le false panacee. Abbiamo bisogno di utilizzare le nostre energie non solo per la lotta corrente ma per informare su come funziona il capitalismo e che c’è un’alternativa. Il livello di ignoranza sulle materie economiche e sociali è incredibile. Questo è perché chi comprende meglio ha la responsabilità di coinvolgere – in gruppi di discussioni nei quartieri, nei centri religiosi e in quelli delle comunità; per distribuire volantini, opuscoli e libri; per muoversi tra il popolo e diventare educatori e missionari in piccoli e grandi modi.
(*) Harry Magdoff (1913–2006) è stato coeditore della Monthly Review dal 1969 fino alla sua morte.
Note
(1) Joan Robinson, “Introduction,” in Rosa Luxemburg,The Accumulation of Capital (New York: Monthly Review Press, 1951), 28.
(2) Grover Clark,The Balance Sheets of Imperialism (New York: Columbia University Press, 1936), 5–6.
(3) David A. Wells,Recent Economic Changes (New York: Appleton, 1889), 1.
(4) Clark,The Balance Sheets of Imperialism, 5–6; Harry Magdoff,Imperialism: From the Colonial Age to the Present(New York: Monthly Review Press, 1978), 35, 108.