Liberoscambismo o Protezionismo?

di Gabriele Repaci

international-commerceRiceviamo e pubblichiamo come contributo alla discussione 

Potremmo dire, per parafrasare Marx che uno spettro si aggira per l’Europa: lo spettro del protezionismo. Ultimamente infatti si è fatta strada anche nel Vecchio Continente l’idea di porre delle barriere doganali verso quei paesi nei quali la manodopera costa poco.  Un recente sondaggio europeo mostra il favore verso il ritorno di tariffe doganali sulle importazioni da fuori Europa. Secondo un’altra indagine, commissionata da un gruppo di studiosi ed economisti francesi, all’Institut français d’opinion publique (IFOP) più di due terzi degli italiani auspicano che i dazi doganali nei confronti dei paesi con bassi salari vengano alzate. Allo stesso modo la pensano anche francesi, spagnoli e tedeschi. In Francia il 73% della popolazione pensa che la globalizzazione sia una minaccia per l’occupazione.

«Si nota una certa inclinazione verso il protezionismo» osservava ormai due anni orsono Les Échos, il principale giornale economico finanziario francese. I rappresentanti della borghesia europea consci dei pericoli che il ritorno di barriere tariffarie su alcuni prodotti rappresenterebbe per i loro interessi hanno subito lanciato l’allarme protezionismo. «Il pericolo più grave che dobbiamo affrontare è il protezionismo – ha dichiarato la cancelliera tedesca Angela Merkel in un’intervista rilasciata al Financial Times -. Non stiamo facendo abbastanza per assicurare il libero commercio» [1]. «Le pratiche protezionistiche riducono il commercio a un gioco a somma zero» ha sottolineato il ministro degli Esteri Giulio Terzi durante un incontro presso l’Istituto italo-latinoamericano (Iina). [2]

Tuttavia il fatto più preoccupante è che anche gli odierni eredi del movimento operaio hanno fatto proprio il dogma liberoscambista. Le origini del pregiudizio antiprotezionista a sinistra sono da ricercare in parte nell’idea, consolidatasi soprattutto in seguito al crollo dell’Urss, che tutto ciò che ostacoli la totale apertura ai mercati sia foriero di inefficienza economica e regressione sociale. D’altra parte si pensa che la globalizzazione pur con tutti i suoi difetti abbia contribuito ad abbattere le frontiere nazionali ostacolo alla fratellanza dei popoli. Eppure lo stesso Marx aveva ammonito dal confondere il cosmopolitismo borghese con l’internazionalismo proletario. Scriveva il Moro di Treviri nel celebre Discorso sul libero scambio che «chiamare fraternità universale lo sfruttamento cosmopolitico è una idea che avrebbe potuto nascere solo nella mente della borghesia».

Ma gli argomenti che fanno diffidare la sinistra dal reclamare misure protezionistiche non sono solamente culturali. Si basano anche su alcuni luoghi comuni, propagandati dagli ideologi della borghesia, purtroppo ormai fatti propri anche da coloro che dovrebbero difendere gli interessi della classe lavoratrice. Vi è l’idea, per esempio, che la libera circolazione dei capitali e delle merci favorirebbe i paesi poveri, mentre le barriere e i controlli salvaguarderebbero posizioni di privilegio dei paesi ricchi. Cosa alquanto strana, visto che nazioni come la Cina e l’india che stanno conoscendo un impetuoso sviluppo delle forze produttive, continuano a mantenere ancora oggi controlli sui movimenti di capitale.

Secondo un’altra argomentazione la libera circolazione dei capitali sarebbe una garanzia per la pace. Anche in questo caso si tratta di illazioni: proprio alla vigilia della prima guerra mondiale l’apertura dei mercati raggiunse livelli mai realizzati.

Ma il grande argomento contro il protezionismo è di ordine storico e consiste in una evocazione falsata del protezionismo realizzato negli anni Trenta che avrebbe aggravato gli effetti della Grande Depressione e che è sarebbe infine sfociato nella Seconda Guerra Mondiale. 

Come è noto infatti l’adozione da parte del Congresso degli Stati Uniti della celebre legge Smoot-Hawley, promulgata da Herbert Hoover il 17 giugno 1930 causò nel giugno del 1930, l’istituzione, su più di 20.000 prodotti, di tariffe doganali che arrivarono al 52%. Tre anni dopo la produzione del paese era caduta del 27%, mentre le importazioni diminuivano del 34% e le esportazioni del 46%. Inseguito più di sessanta paesi rialzarono le loro tariffe doganali o istaurarono delle quote. Il volume globale del commercio internazionale ebbe una caduta del 40% tra il 1929 e il 1932. Gli economisti liberali ne trassero dunque la conclusione che tali misure non ebbero altra conseguenza che quella di far aggravare la crisi. Tuttavia come è stato già detto si tratta di una evocazione falsata. Come ha evidenziato giustamente l’economista francese Jacques Sapir «la parte essenziale della contrazione del commercio si svolse tra il gennaio del 1930 e il luglio del 1932, ossia prima dell’adozione delle misure protezioniste o addirittura autarchiche in certi paesi» [3]. In realtà la causa del crollo del commercio a livello mondiale negli anni ’30 non fu il protezionismo, bensì l’aumento internazionale dei costi di trasporto e di avvio unito alla disorganizzazione generalizzata del sistema finanziario, che fece seguito all’accumularsi di svalutazioni competitive decise inseguito all’esito negativo della conferenza di Londra del 1933 e alla contrazione della liquidità internazionale (calata del 35,7 nel 1930 e 26,7% nel 1931), che provocò una crisi della domanda sfociante in quello che Keynes definì «equilibrio di sottoccupazione».

A di là della fragilità degli argomenti posto a sostegno del liberoscambio vi sono altre ragioni che dovrebbero far riflettere la sinistra prima di scartare l’ipotesi protezionista.

Oramai persino importanti organizzazioni come il Fondo Monetario Internazionale o la Commissione europea, hanno rilevato come esista uno stretto nesso fra la libera circolazione dei capitali e delle merci e il ridimensionamento degli indici di protezione dei lavoratori. [4]

Questo dovrebbe fare riflettere le forze di sinistra in Europa sul fatto che l’aumento dei salari ed il conseguente rilancio dei consumi non possono che risultare dall’adozione di misure di protezione doganali.

Come ha fatto giustamente notare Jacques Sapir «aumentare i salari senza toccare il libero scambio è o un’ipocrisia o una stupidaggine». [5]

Bisogna inoltre precisare che il protezionismo non è l’autarchia. Esso non consiste nel trasformare gli Stati in delle cittadelle medievali protette da mura invalicabili, come sognano alcuni partiti della destra reazionaria quali il Front National in Francia e la Lega Nord in Italia.

Il protezionismo è semplicemente una misura economica che in una Europa sempre più minacciata dalla disoccupazione o dalla delocalizzazione (vedi caso Marchionne) avrebbe come obiettivo quello di favorire la creazione di posti di lavoro.

Solo la crescita occupazionale infatti è la condizione per il cambiamento dei rapporti di forza fra le classi se è vero, come è vero, che la combattività operaia è inversamente proporzionale alla paura di perdere il lavoro.

Note:

1. Merkel: protezionismo pericolo numero uno, Il Sole24Ore, 10 novembre 2010
2. Terzi: no protezionismo, e’ gioco a somma zero, Ansa, 11 maggio 2012
3. Jacques Sapir, De l’avenir du protectionnisme. Les leçons des années 1930 pour comprendre la crise actuelle, in «Les Cahiers de l’indipéndence», gennaio 2009.
4. Emiliano Brancaccio, Marco Passarella, L’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa, Il Saggiatore, 2012, pag. 104
5. Jacques Sapir, Le retour du protectionnisme et la fureur de ses ennemis, Le Monde diplomatique, marzo 2009