L’austerità è di destra

Nicola Tanno intervista Marco Passarella | da www.sinistrainrete.info

crisi europeaÈ proprio vero che l’austerità risolverà i problemi dell’Europa? Quali sono le vere cause della crisi economica? E cosa dobbiamo aspettarci se si continuerà sulla strada del liberismo? Sono queste alcune domande a cui hanno tentato di dare una risposta Emiliano Brancaccio e Marco Passarella, autori di “L’austeritá è di destra” (Il Saggiatore, 152 p., 13 €), un saggio che cerca di smontare con dati alla mano gli assiomi del pensiero economico contemporaneo: liberoscambismo, centralitá del pareggio di bilancio e flessibilitá. Il pregio maggiore del testo è quello di affrontare in chiave dialettica le contraddizioni del capitalismo senza mai cadere in un complottismo tanto in voga di questi tempi. Inoltre, pur essendo un lavoro teorico importante, il libro conserva un linguaggio accessibile anche per i non addetti ai lavori.

Di alcuni dei temi affrontati nel loro testo abbiamo parlato con Marco Passarella, ricercatore presso il dipartimento di Economia della Business School dell’Università di Leeds.

Gli spread tornano a risalire, nonostante l’austerità. La Spagna, ad esempio, che taglia sui servizi pubblici come pochi altri, è duramente punita dai mercati. A cosa lo s i deve? E perché in mancanza di effetti positivi si continua con questa politica? Vi è anche un elemento ideologico?

Anzitutto, è bene chiarire che cosa si intende quando si parla di “spread”. Lo spread è la differenza nel rendimento di due titoli. Nello specifico, è il maggiore tasso di interesse pagato sui titoli del debito pubblico della Spagna (o dell’Italia) rispetto all’interesse pagato sui titoli di pari scadenza emessi da un paese ritenuto “sicuro”, la Germania. Tale divario tende ad aumentare allorché gli investitori, i “mercati”, prevedono una caduta del valore di mercato dei titoli spagnoli (o italiani). In particolare, minore è la fiducia che gli investitori ripongono nella solvibilità dello Stato spagnolo (o italiano), e dunque nella tenuta del valore dei suoi titoli, più rischiosi saranno il rinnovo ovvero la sottoscrizione di nuovi titoli, e maggiore sarà il tasso di rendimento richiesto a tal fine dai mercati. Venendo al quesito, la ragione per cui gli spread si mostrano insensibili ai tagli ed alle politiche di austerità è che, a differenza di ciò che si sente ripetere sui media, gli alti tassi di interesse sui titoli dei paesi periferici dell’Eurozona non dipendono dal livello assoluto dei deficit di bilancio statali o dei debiti pubblici, né dal loro rapporto rispetto al PIL. Ne è una riprova il fatto che, come ha osservato anche il Premio Nobel Paul Krugman, Irlanda e la Spagna, soltanto alla vigilia della crisi, sembravano due “studenti modello” sul piano dei conti pubblici, caratterizzate com’erano da avanzi di bilancio e da debiti pubblici irrisori. Anche in Italia, a dispetto di un debito pubblico elevato, proprio il 2011 è stato contrassegnato da un consistente avanzo primario (ossia da un differenza positiva tra entrate e uscite nel bilancio dello Stato, al netto della spesa per interessi). Ed ancora all’inizio dell’estate del 2011 il differenziale tra il rendimento dei titoli italiani e quello dei titoli tedeschi si attestava stabilmente sotto il due per cento. Le ragioni dell’aumento dei tassi di interesse sui titoli dei paesi periferici, e quindi degli spread, vanno dunque cercate altrove che nel lassismo fiscale. In particolare, come Emiliano Brancaccio ed io tentiamo di argomentare ne “L’austerità è di destra”, la crescita degli spread è legata all’insostenibilità degli squilibri commerciali interni all’Eurozona, su cui si è innestata, a partire dal 2010, un’ondata speculativa contro i titoli di alcuni paesi membri. Se la speculazione internazionale ha svolto, di volta in volta, la funzione di detonatore, le cause profonde dell’esplosione degli spread vanno, però, ricercate nell’accumulo di deficit verso l’estero dei paesi periferici (Irlanda, Grecia, Portogallo, Spagna e, con alcune differenze, Italia) a fronte di surplus crescenti di Germania ed economie satelliti.

In effetti, le analisi empiriche disponibili confermano che gli spread sono fortemente correlati alle bilance commerciali, e dipendono perciò dalla maggiore o minore competitività delle produzioni nazionali. Detto in termini più semplici, è l’eccesso sistematico e crescente di importazioni sulle esportazioni a “preoccupare” i mercati, e a destare dubbi sulla “sostenibilità” di un’economia, non un presunto insufficiente rigore fiscale dei governi. In questo senso, i mercati “scontano” anche il rischio che i paesi in deficit commerciale si vedano infine costretti ad abbandonare l’euro e ad adottare una nuova valuta nazionale. Dato che quest’ultima si svaluterebbe rapidamente rispetto alla moneta unica, ecco che chi investe in asset (pubblici, ma anche privati) dei paesi periferici lo fa soltanto dietro la corresponsione di un rendimento più elevato. Venendo, infine, alle ragioni per le quali il governo italiano persevera in tale politica, è certamente possibile che vi sia un elemento ideologico. Del resto, i “professori” e i “tecnici” al governo in Italia (e non solo) si sono tutti formati in ambienti mainstream. Ma non va sottovalutata la convinzione, tutt’altro che infondata e ideologica, per quanto inconfessabile, che la crisi e le politiche di austerità svolgano una funzione disciplinante nei confronti della forza-lavoro, consentendo di recuperare la competitività delle produzioni nazionali mediante una compressione del potere contrattuale dei lavoratori e quindi dei salari.

La Germania continua ad aumentare l’occupazione e cresce il surplus della sua bilancia commerciale. Alcuni esponenti delle teorie neoclassiche rispondono agli “eterodossi” che in una fase di difficoltà per gli altri paesi, il “motore europeo” potrebbe essere rappresentato proprio dalla Germania. Cosa ne pensa?

Anzitutto, attenzione alle fonti e ai luoghi comuni: la Germania non è la Volkswagen. È vero che il tasso di disoccupazione tedesco (e cioè il rapporto tra disoccupati e forza-lavoro) è ora inferiore a quello italiano, e che il tasso di occupazione (e cioè il rapporto tra occupati e popolazione in età lavorativa) è tradizionalmente maggiore, ma non va dimenticato che nel corso del decennio appena concluso la situazione è stata a lungo rovesciata. Né va dimenticato che nello stesso periodo la quota salari in Germania è precipitata più che altrove, e che i salari tedeschi si sono ridotti termini reali a fronte di un lieve aumento in quasi tutti gli altri paesi dell’Eurozona, Italia compresa. Per quanto sorprendente possa sembrare, è questa, assieme ai rilevanti aumenti di produttività, la ricetta segreta del modello tedesco. Una ricetta che, non a caso, il governo italiano tenta affannosamente di imitare. In secondo luogo, la Germania non ha mai svolto, né avrebbe potuto o potrebbe svolgere (essendo un esportatore netto di merci e servizi), la funzione di motore dell’economia europea e mondiale. Quel ruolo è stato garantito per almeno due decenni, e comunque fino al 2008, dagli Stati Uniti d’America. Sono state le sempre più indebitate famiglie americane a fungere da acquirenti di ultima istanza delle eccedenze produttive mondiali, e al momento non si intravede all’orizzonte alcun paese in grado di surrogare la domanda d’Oltre-Atlantico. Al contrario, la Germania deve le proprie fortune a politiche di stampo “neo-mercantilista” (rigore fiscale e deflazione salariale relativa per favorire le esportazioni), oltre che ad una organizzazione capitalistica incommensurabilmente superiore rispetto a quella degli altri paesi a capitalismo maturo, che le consentono di sbaragliare la concorrenza sui mercati esteri. Paradossalmente, si potrebbe argomentare che nel corso del decennio appena concluso è stato il flusso di importazioni nette di merci e servizi (e dunque di capitali) delle economie periferiche dell’Eurozona, oltre che degli USA, a trainare l’economia tedesca (i cui surplus sono realizzati in massima parte proprio all’interno dei confini di Maastricht), e non viceversa.

Nell’ambito di questo dibattito sta ora prendendo spazio la MMT, che sorpassa a sinistra le posizioni di Krugman e Stiglitz. Tra le posizioni più importanti di questa corrente vi è la sovranità monetaria. Crede che l’uscita dall’euro sarebbe una soluzione ai problemi dei paesi del sud Europa?

La “Modern Money Theory” può essere variamente declinata. Nella versione proposta da Randall Wray e dagli studiosi del Levy Economics Institute, essa ha il merito di aver posto da tempo l’accento sulla perdita di sovranità monetaria dei paesi-membri dell’Unione Monetaria Europea quale fattore di squilibrio economico-strutturale e di vulnerabilità alla speculazione internazionale. L’impossibilità per i paesi periferici di svalutare la propria moneta (e dunque di recuperare competitività attraverso una riduzione dei prezzi relativi dei propri prodotti) a fronte di squilibri esteri crescenti, nonché di utilizzare la politica monetaria per stabilizzare il rendimento dei titoli del debito pubblico – viene argomentato – costituiscono un terreno fertile per la speculazione internazionale sui debiti sovrani. In questo contesto, le politiche di austerità non fanno che aggravare la situazione, perché peggiorano la bilancia del settore privato, riducono l’occupazione, il reddito e quindi il gettito fiscale, e spingono il paese verso l’insolvenza. Lo sganciamento dalla valuta unica permetterebbe, per contro, di riacquistare la propria sovranità monetaria (e fiscale), ridurre l’esposizione estera e mettere fine alla speculazione. Il problema dell’analisi proposta dagli studiosi della MMT è che essa sembra trascurare il fatto che uno sganciamento dall’Euro (tanto più se “subito”) sarebbe accompagnato da un’ulteriore caduta verticale dei valori degli asset nazionali – già, peraltro, fortemente deprezzati a causa della crisi e delle politiche di austerità. In condizioni di libero mercato, ciò consentirebbe ai capitali delle economie centrali di fare “shopping a buon mercato” nei paesi che dovessero abbandonare la moneta unica. Sulla desiderabilità (per le classi lavoratrici italiane) di un’uscita dall’Euro dobbiamo, quindi, intenderci: la soluzione di “first best” rimane, in linea teorica, l’introduzione di misure atte a salvaguardare la tenuta dell’unione monetaria e dello stesso mercato comune, ma sulla base di un rovesciamento radicale dei loro criteri ispiratori. Tali misure dovrebbero includere la ridefinizione dello statuto della Banca Centrale Europea, l’introduzione di una severa regolamentazione dei mercati finanziari, l’adozione di uno “standard salariale” europeo, e la predisposizione di misure di pianificazione economica. In particolare, è necessario ripensare il ruolo del settore pubblico al fine di imporre un controllo democratico su “cosa, quanto e come produrre”. In tal senso, le autorità pubbliche, italiane ed europee, dovrebbero assumere il ruolo di creatrici “di prima istanza” di occupazione, ri-orientando le produzioni nazionali verso la fornitura di “beni-base” per la collettività, la riconversione dei settori maturi (si pensi al settore auto), l’individuazione e lo sfruttamento di nuove fonti energetiche, nonché l’infrastrutturazione a basso impatto del territorio. Si noti che il riassorbimento graduale degli squilibri esteri dei paesi-membri dell’Eurozona avverrebbe, in tal modo, attraverso l’accensione di un “motore interno” dello sviluppo economico e sociale europeo. Per una ricognizione più dettagliata di tali misure, mi permetto di rinviare nuovamente al pamphlet con Emiliano Brancaccio. Non può, peraltro, essere sottaciuto che, al momento, tale strada appare difficilmente percorribile, visti i rapporti di forza interni all’Eurozona. Un’uscita pianificata dall’Euro, consentendo la riappropriazione di una piena sovranità valutaria e fiscale, potrebbe allora rappresentare il male minore. Non solo, ma una minaccia credibile di uscita e di rottura degli stessi accordi di libera circolazione delle merci e dei capitali, specie se concordata con i governi degli altri paesi periferici (inclusa la Francia), potrebbe portare le autorità tedesche a rivedere le proprie posizioni, o quantomeno a scoprire le carte. In ogni caso, è necessario disporre di un “piano B”.

Dall’inizio della crisi vi è una nuova attenzione per il pensiero economico critico. Dopo anni di predominio delle posizioni mainstream, crede che l’accademia dia più spazio alle posizioni eterodosse?

Anche qui occorre distinguere. Da un lato, il cosiddetto pensiero economico critico, ossia quell’insieme eterogeneo di contributi teorici afferenti alle opere di Marx, Keynes, Kalecki, Sraffa, Leontief e Minsky, per citare solo alcuni nomi, conosce una popolarità crescente, specie tra gli “addetti ai lavori” (operatori di mercato, analisti finanziari, ecc.), e trova qualche spazio, prima d’ora insperato, sui grandi media. Un ulteriore, importante, barometro di tale interesse crescente è la “sete” di teorie nuove che anima gli studenti universitari, i quali, da alcuni anni, non si accontentano più delle rassicuranti narrazioni proposte dalla manualistica dominante, ma ricercano chiavi alternative di lettura della realtà che li circonda. Dall’altro lato, però, mai come in questa fase storica si è assistito ad un chiusura tanto ermetica della comunità accademica, sia pure con alcune lodevoli eccezioni. In effetti, se sul piano teorico pare che nulla sia accaduto, con le più prestigiose riviste economiche internazionali che continuano a pubblicare modelli fondati sui concetti di “equilibrio naturale” e di “agente rappresentativo razionale” (sulla base di quella che nel libro abbiamo definito la “sindrome del semaforo”), sul piano concorsuale l’adozione di criteri quantitativi di valutazione della ricerca, calibrati, manco a dirlo, sulle produzioni mainstream (naturalmente in nome di una presunta “oggettività” della valutazione), rischia di chiudere ogni spazio residuo di dissenso. In Italia la situazione concorsuale è resa particolarmente drammatica dalla scarsità di finanziamenti pubblici e privati. Insomma, se la recessione economica in cui l’Europa si sta progressivamente avvitando ricorda sempre più da vicino la depressione che seguì la crisi del 1929, sul piano sovrastrutturale siamo ben lontani da quella profonda rivoluzione delle idee che contrassegnò gli anni Trenta del secolo scorso.

L’art. 18 è stato duramente colpito. Il professor Brancaccio spesso ha ricordato che la flessibilità non porta vantaggi all’occupazione facendo referenza alle posizioni di Olivier Blanchard. Nel concreto, quali conseguenze bisogna attendere dopo la riforma?

È vero: che non vi sia alcuna correlazione tra flessibilità contrattuale e livelli occupazionali viene ormai riconosciuto, sia pure a denti stretti, dagli stessi esponenti di punta del pensiero economico dominante, a partire dal capo-economista del Fondo Monetario Olivier Blanchard. In merito alle conseguenze immediate della modifica dell’Art. 18 è difficile pronunciarsi. Da un lato, la percentuale annuale di lavoratori licenziati che hanno fatto ricorso al giudice, chiedendo il reintegro sul posto di lavoro sulla base dell’Art. 18, è stata negli scorsi decenni molto bassa. Dall’altro, però, è lecito pensare che tale dispositivo abbia avuto, fin dalla sua introduzione, una funzione di deterrenza contro il licenziamento illegittimo. La conseguenza più probabile di una sua revisione è, dunque, un ulteriore riduzione del potere contrattuale dei lavoratori. È, infatti, l’abbattimento del costo del lavoro, e cioè dei salari lordi pagati dalle imprese, il vero obiettivo della “riforma”. Per contro, è da escludere un miglioramento dei livelli occupazionali. Questo perché l’occupazione non dipende dalla maggiore o minore rigidità del cosiddetto mercato del lavoro (si pensi al fatto che Nord e Sud Italia, caratterizzati da tassi di disoccupazione assai differenti, condividono la stessa legislazione in materia), ma dal livello e dalla composizione della domanda aggregata di beni e di servizi. Una nuova conferma, ammesso che ce ne fosse bisogno, è arrivata proprio nei mesi scorsi dall’indagine periodica condotta da Unioncamere-Excelsior circa le determinanti delle assunzioni. Ebbene, dal sondaggio, effettuato su un campione di centomila imprese, emerge inequivocabilmente che sono il volume delle commesse e in generale l’andamento dell’economia e della domanda, e non la legislazione sul lavoro, i criteri che guidano le politiche di impiego delle imprese. In questo senso, dal combinato disposto di politiche di austerità e di provvedimenti di “flessibilità in uscita” è, anzi, lecito attendersi un ulteriore peggioramento dei dati occupazionali nei prossimi mesi. E non è detto che proprio questo non sia l’esito ricercato dal governo, per le ripercussioni che ciò inevitabilmente produrrà sui livelli salariali (e, almeno nella testa dei nostri “tecnici”, sulla competitività delle produzioni italiane). Come al solito, a pensar male…