La lira? Può darsi, ma non sarebbe una passeggiata

intervista a Vladimiro Giacché di Tonino Bucci | da web.rifondazione.it

millelireI mercati finanziari non si placano. Gli speculatori continuano a giocare sul rialzo dei tassi di rendimento dei titoli pubblici dei paesi considerati a rischio nella zona euro. Neppure la vittoria di Nuova Democrazia in Grecia e la formazione di un governo pro-austerità ha sortito quell’effetto tranquillizzante sui mercati che alla vigilia del voto gli osservatori pronosticavano. L’assetto monetario dell’Ue, insomma, sembra spinto da dinamiche sistemiche interne verso uno scenario da deflagrazione. Del resto, lo stesso Fmi prevede un tracollo nel giro di due o tre mesi, se non si prendono misure per tempo. Non è un caso che in questi giorni si sia acceso un dibattito su un eventuale ritorno alla lira. L’ipotesi di un tracollo della moneta unica non è più considerato uno scenario irrealistico. Potrebbe accadere e, in quel caso, si sarebbe costretti a tirare fuori dal cassetto una strategia per gestire una situazione di uscita dall’euro.

Ci sono modi e modi per uscirne – per usare la formula di Emiliano Brancaccio che ha lanciato il dibattito anche a sinistra. Il Pdl è intenzionato a cavalcare da destra il sentimento popolare di insofferenza per la moneta europea. Il ritorno alla lira evocato da Berlusconi si reggerebbe sull’ipotesi di una svalutazione competitiva della nostra moneta nazionale. L’aumento (ipotetico) delle esportazioni che ne dovrebbe seguire, andrebbe a vantaggio delle imprese, ma non è difficile prevedere che in una strategia di destra di uscita dall’euro il peso della svalutazione si scaricherebbe interamente sui salari e i redditi medio-bassi. L’interrogativo è: esiste una strategia di sinistra che in tale scenario fosse in grado di distribuire gli effetti negativi sugli altri gruppi sociali e non sulle spalle dei lavoratori? Ne parliamo con l’economista Vladimiro Giacché.

Le elezioni greche, nonostante la vittoria del partito dell’austerità, sono state ininfluenti. Ormai l’assetto monetario dell’Unione sembra preda di dinamiche sistemiche pressoché incontrollabili. Non è così?

I mercati si sono ingoiati in due ore la presunta buona notizia della vittoria di Nuova Democrazia. È paradossale che possa essere considerata tale, visto che ND, ricordiamolo, è il partito di quelli che hanno truccato i conti pubblici della Grecia. A ogni modo, la vittoria elettorale non si è dimostrata risolutiva della crisi. Gli osservatori sanno che la Grecia è un problema trascurabile nella crisi dell’eurozona. I problemi sono altrove, nelle risposte inadeguate che l’establishment europeo ha dato finora. L’unica strategia che avrebbe potuto funzionare e che, forse, ancora potrebbe funzionare, sarebbe un intervento diretto della Bce nell’acquisto dei titoli di stato dei paesi Ue che sono sotto attacco, per mantenerli sotto livelli di rendimento ragionevoli. Ma non si è voluto farlo. Il Trattato vieta il finanziamento dei titoli pubblici tramite la Bce. Ma, in realtà, questa è una interpretazione parziale del Trattato. C’è anche un’altra norma che stabilisce che il compito della Bce è tutelare la stabilità della moneta. Questa norma è stata sempre interpretata in maniera restrittiva, nel senso che la moneta andrebbe difesa soltanto dai problemi che potrebbero essere generati dall’inflazione. Per questo si dice che la Bce non deve stampare carta moneta e fare politiche troppo espansive. E’ una visione miope. L’area valutaria non è minacciata soltanto dall’inflazione, ma anche dal suo contrario, cioè dalla deflazione. E oggi ci troviamo nel secondo scenario, più che nel primo. Inoltre, a minacciare più d’ogni altra cosa la stabilità monetaria dell’euro è, per definizione, l’eventualità che salti l’area valutaria. Se oggi siamo di fronte a questo rischio non si vede il motivo per cui la Bce non debba intervenire con l’acquisto dei titoli pubblici – anche stando ai Trattati attuali, sottolineo. Aggiungo che tra dicembre e gennaio la Bce ha dato mille miliardi di euro all’uno per cento di interesse per tre anni. Di fatto, si è trattato di un’operazione che ha creato moneta. Hanno dato alle banche dei collaterali che erano auto-obbligazioni sottoscritte. Gli effetti inflattivi di questa operazione secondo me, sono superiori a quelli che avrebbe avuto un intervento della Bce a difesa dei titoli di stato sotto attacco. Faccio un esempio. La Svizzera ha deciso di intervenire per calmierare il prezzo del franco che si era troppo apprezzato nei confronti dell’euro, nella misura di un trenta-quaranta per cento. Lo ha fatto dichiarando di essere pronta a stampare tutti i franchi che sarebbero occorsi, per bloccare il tasso di scambio con l’euro all’1,2. I mercati ci hanno creduto perché la minaccia era seria e il giorno stesso il franco è crollato del quindici per cento. L’operazione è costata cento miliardi di euro, un decimo di quello che è stato speso inutilmente per le banche europee tra dicembre e gennaio.

Nel tempo le politiche adottate dai vertici europei hanno innescato contraddizioni oggettive all’interno del sistema monetario. E oggi nessun correttivo sembra in grado di neutralizzare queste dinamiche sistemiche. O no?

Ci sono molti punti deboli in queste scelte. Il problema riguarda ormai non le politiche dei singoli paesi, ma l’Europa nel suo complesso. I tassi di rendimento dei nostri titoli di stato, per esempio, non sono scesi immediatamente dopo la manovra salva-Italia, ma sono scesi – salvo poi risalire di nuovo – quando c’è stata l’iniezione di liquidità nelle banche. Quel che conta è ciò viene fatto a livello europeo. Finché non si interrompe questa spirale c’è un effetto che io chiamo dei “dieci piccoli indiani”. Uno dopo l’altro, cadono una serie di paesi: prima la Spagna, poi l’Italia, poi verrà il turno della Francia. A poco a poco si disgrega l’area valutaria. Siamo in presenza di due fenomeni che le politiche europee non hanno risolto e che, anzi, si sono accentuati. Il primo è la “rinazionalizzazione” dei capitali dei paesi più ricchi. Quelli che prima prestavano agli altri, oggi stanno rimpatriando i propri capitali a causa della percezione di un rischio accresciuto. Per i paesi sotto attacco speculativo, far parte della stessa moneta dei paesi più forti, non è più considerato una garanzia. In fondo, l’euro è nato per una sorta di scambio: la cessione della sovranità monetaria in cambio di bassi tassi di interesse. Finché ha funzionato questo scambio ha permesso ai paesi della zona euro di pagare meno i debiti contratti e ridurre il monte del debito. Ma se questa convenienza viene meno, si apre una riflessione. Conviene ancora avere le mani legate dal punto di vista della politica valutaria? Il secondo trend che le politiche europee non hanno invertito, ma enfatizzato, è la divergenza tra le economie dei singoli paesi dell’Ue. I tassi di interesse fissati dalla Bce a livello centrale – attualmente all’uno per cento, ma credo che verranno abbassati nelle prossime settimane – hanno senso se le economie tendono a convergere. Se invece qualcuno va sempre meglio e qualcun altro va sempre peggio, quei tassi non sono più adatti per nessuno, nel senso che per alcuni risulteranno troppo espansivi, mentre per altri troppo restrittivi. E’ un altro fattore oggettivo che non ha a che fare con la soggettività politica e che tende a fare saltare l’area valutaria.

E se questi “fattori oggettivi” dovessero far deflagrare la zona euro? Non sarebbe il caso di cominciare a elaborare un piano B, una strategia di governo dell’uscita dall’euro?

La verità è che noi siamo di fronte a processi in gran parte oggettivi. Rispetto ad essi, ovvio, sono sempre possibili scelte politiche da parte di chi ha il boccino in mano. E non sono solo i tedeschi a decidere, beninteso. Tra Monti e Merkel, non dimentichiamolo, c’è una profonda affinità politica e ideologica. Entrambi sono convinti che la crisi vada affrontata con politiche di austerità, con l’abbassamento degli standard di protezione dei lavoratori, con le privatizzazioni, con le “liberalizzazioni” – così le chiamano loro, ma di fatto nel caso dei servizi pubblici locali equivalgono a vere e proprie privatizzazioni. Però l’aver messo in atto politiche che sono coerenti con i loro presupposti ideologici, ha peggiorato la situazione. In Italia si è ridotta la domanda interna, è crollato il Pil che è a meno due e credo che chiuderemo l’anno a meno 2,5. Quindi è aumentato il rischio di insolvenza del nostro paese. Se scende il Pil, anche tenendo sotto controllo il debito pubblico, la proporzione tra debito e Pil peggiora. La divergenza tra singole economie si è aggravata. Questa è la vera minaccia per l’euro, non quello che può dire un partito di opposizione o di governo. Ci tengo a dirlo perché è un punto fondamentale. Oggi i veri nemici dell’euro sono non quelli che criticano l’Europa, ma coloro che si proclamano a parole difensori dell’euro. Con queste politiche, prima o poi, l’euro salta.

Sì, ma a questo punto, cosa deve fare un paese che vede i propri titoli di stato sotto attacco?

Questa storia inizia nel marzo 2011 quando il consiglio europeo decide di dare il via al fiscal pact, che poi diventerà il fiscal compact. Il primo effetto negativo del fiscal pact è stato l’aver spostato l’attenzione dal deficit al debito. Noi avevamo il deficit più basso tra i paesi europei, mentre abbiamo storicamente il debito più elevato. Il che però non rappresenta alcun problema. Il vero problema è la gestione del debito. Se hai un deficit basso o addirittura un avanzo primario, come noi abbiamo avuto per diversi anni, il debito lo puoi governare benissimo, senza problemi. Ma se i primi a dire che il debito è significativo sono proprio i paesi che fanno parte di un’area valutaria, allora è chiaro che i mercati cominceranno a valutare quel fattore che prima non consideravano. Il secondo elemento è che i vertici europei non si sono limitati a considerare il debito come problema, ma si sono spinti a dire che chi ha il debito in eccesso oltre il sessanta per cento, deve ridurlo nella misura del cinque per cento annuo. Se c’è una cosa che i mercati sanno fare, sono i calcoli. Per l’Italia tutto questo significa una manovra di correzione di bilancio di 45 miliardi di euro all’anno cui si aggiungerebbero le spese per gli interessi che si pagano sul debito. Il che significa non poter fare più investimenti pubblici, attuare misure depressive e non crescere più. Infatti, gli spread erano a centoventi a marzo 2011, da metà aprile hanno cominciato ad alzarsi e da allora non si sono più fermati. Questa dinamica, unita al fatto che la Bce non offre protezione ai titoli di stato sotto attacco, è un invito alla speculazione a colpire i paesi considerati a rischio. Cosa si dovrebbe fare in una situazione del genere? Cosa avrebbe dovuto fare già Tremonti all’epoca? L’ex ministro dell’economia avrebbe dovuto mettere il veto su quella modifica insensata dei Trattati. Il limite del sessanta per cento al debito pubblico è troppo basso. La media europea è attorno all’80 per cento. La virtuosissima Germania ha chiuso il 2010 con l’83,5% di debito sul Pil. E anche il limite del tre per cento al deficit è eccessivo. Adesso noi abbiamo anche il pareggio di bilancio in Costituzione, per cui il deficit non potrebbe superare lo 0,5, altra insensatezza. Non solo cala la domanda interna, ma si abolisce la spesa pubblica. Per questo io credo che già nel marzo 2011 si sarebbe dovuto porre sul tavolo la minaccia di una nostra uscita dall’euro. Era chiaro fin da allora quale sarebbe stata la direzione: una spirale di misure di austerità ed effetti recessivi. Anche noi abbiamo imboccato il tunnel greco, anche se abbiamo strumenti di ribilanciamento che la Grecia non ha, per esempio, un export molto forte.

Ma dal punto di vista dei paesi che vedono i propri titoli di stato sotto attacco speculativo, esiste ancora la convenienza a rimanere nell’area valutaria dell’euro?

E’ una situazione da trade off. La convenienza ancora c’è. Almeno fino a un certo limite, che io quantificherei attorno al sette per cento. Nel momento in cui un paese dovesse cominciare a pagare un sette per cento di interessi sul debito e questa circostanza dovesse protrarsi per un certo numero di settimane, sarebbe costretto a chiedere aiuto. Per una ragione semplice. Gli interessi sarebbero così pesanti che bisognerebbe avere un avanzo primario del sette per cento. Senza considerare la norma delirante della riduzione del debito pubblico in una misura del cinque per cento all’anno. Una situazione del genere è insostenibile. A quel punto uno dovrebbe porsi il problema. Però attenzione. Tutti si focalizzano sull’euro e sull’uscita dall’euro. Ma questo in realtà non basterebbe. La vera questione che dovrebbe porre sul piatto non è l’uscita dall’euro, ma quella di porre dei vincoli ai movimenti di capitali – soprattutto di capitali, che di merci. In caso contrario, puoi uscire, ma ti troveresti nella condizione di svendere a soggetti stranieri i tuoi pezzi migliori. E magari, se l’acquirente è un concorrente, può comprare e chiudere, distruggendo così capacità produttiva in Italia. Un anno fa noi eravamo in una posizione negoziale migliore per affrontare questo discorso perché molte banche francesi e tedesche avevano i nostri titoli di stato. In buona parte li hanno venduti e abbiamo dovuto riportare il debito in casa nostra. E questo non va bene se non hai il governo della politica monetaria. Non hai più un potere di pressione. La Germania continua a imporre politiche di austerità finché i suoi interlocutori sono nella condizione di temere di far saltare il tavolo. Finché va avanti questo meccanismo la Germania continuerà a guadagnarci. I titoli decennali tedeschi oggi sono pagati l’1,5 per cento, mentre i nostri sono pagati il 5,8. E’ un’insensatezza. Visto che la Germania ha un tasso di inflazione al 2,1 per cento, è come se uno dovesse dare i soldi alla Merkel solo perché gli fa la cortesia di tenerseli per dieci anni. Ecco perché secondo me andrebbe messa sul piatto la minaccia di una nostra uscita dall’euro. L’euro non è una religione, è una moneta che si è acquisita per convenienza reciproca e io continuo a ritenere che questa convenienza, almeno per un certo periodo, ci sia stata effettivamente. Ha consentito bassi tassi sul debito, poi come siano stati usati è un altro discorso.

Però, si diceva, gli effetti del ritorno alla lira possono essere pesanti…

L’uscita dall’euro non è una passeggiata, né una boccata di salute. Avrebbe, per tanti versi, effetti devastanti. Il vero problema sono le alternative. Se l’alternativa è, poniamo, un’agonia di cinque anni durante i quali hai fatto politiche regressive e al termine della quale c’è il default – che implicherebbe in ogni caso l’uscita dall’euro – a questo punto non avrebbe senso percorrere fino in fondo una strada del genere. A quel punto sì, preferirei far saltare il tavolo io. La mia è una proposta negoziale. Mettiamo le carte sul tavolo e poi vediamo. Come dice Maurice Chevalier, la vecchiaia è una brutta cosa, però se si pensa alle alternative, tutto sommato è la cosa migliore. Io non condivido certe posizioni che vedo anche a sinistra, di qualcuno che abbraccia con entusiasmo la prospettiva di uscita dall’euro. Richiederebbe strategie che attualmente il nostro establishment non è disposto a tollerare. Il controllo sui movimenti di capitale è qualcosa che collide con l’ideologia di Monti. Qui è la vera partita. Se fai l’una cosa senza l’altra, l’uscita dall’euro senza il controllo sui capitali, avresti come risultato immediato il deflusso di capitali e la svendita di tutti i pezzi pregiati. Il problema è che dobbiamo far intendere con la forza di un paese che è pur sempre il terzo paese dell’Ue, che l’Italia non è disposta a tollerare oltre una situazione di cui non è responsabile.

L’idea della lira può essere conveniente per gli interessi proprietari, grandi e piccoli. La svalutazione della moneta nazionale favorirebbe la capacità di esportazione. Ma come la mettiamo con il potere d’acquisto dei salari?

Certo. Se però l’alternativa sono politiche europee che comportano la “svalutazione interna” – come si dice in gergo – il taglio dei salari e della spesa pubblica (che sono salari indiretti) e delle pensioni (che sono salari differiti), allora tanto varrebbe tornare alla lira e recuperare capacità d’esportazione. Sono comunque scenari complicati. Alla sinistra si può chiedere di ragionare su questi scenari senza lasciarsi imbrigliare da alcuni miti del passato che a mio giudizio sono stati deleteri: ad esempio, il mito della progressività sempre e comunque dell’euro e dell’Europa. Qui si tratta di andare a vedere concretamente come funzionano certi meccanismi. Oggi come oggi, l’Unione Europea è una macchina per la deflazione salariale. La competizione tra gli stati al suo interno è tutta imperniata su basse tasse alle imprese e basse protezioni per i lavoratori. Proporre una maggiore unione politica dell’Europa su questi presupposti sociali di classe sarebbe deleterio. Meglio non avercela, l’unità politica. Se vogliamo riorientare l’Europa verso il lavoro diventano importanti anche una serie di piccoli atti di resistenza che si possono realizzare anche oggi, qui e ora: il taglio delle spese militari, la patrimoniale, la lotta all’evasione (vera, non quella finta che sta conducendo Monti).