La crisi dell’Europa (e dell’Italia). Editoriale

di Francesco Maringiò

Un ragionato articolo di POLITICO della scorsa settimana dà voce alle preoccupazioni di «alti funzionari europei furiosi con l’amministrazione di Joe Biden»: «Il fatto è che, se si guarda con obiettività, il Paese che sta traendo maggior profitto da questa guerra sono gli Stati Uniti, perché vendono più gas e a prezzi più alti, e perché vendono più armi”, ha dichiarato un alto funzionario a POLITICO». Ed ancora: «”La legge sulla riduzione dell’inflazione è molto preoccupante”, ha dichiarato il ministro del Commercio olandese Liesje Schreinemacher. “Il potenziale impatto sull’economia europea è molto forte”».

Sono concetti ribaditi dal presidente Francese Macron nel corso della sua visita di stato negli Usa: si è spinto fino al punto di parlare di una «spaccatura in Occidente» per le politiche anti-inflazione dell’amministrazione americana. Infatti il pacchetto di sussidi per la produzione dei semiconduttori (Chips Act) e la dotazione di 430 miliardi di dollari per il clima (Inflation Reduction Act) diventano «sussidi discriminatori che distorceranno la concorrenza» (la definizione è di un funzionario del Ministero degli Affari Esteri francesi). Con buona pace del tanto decantato “libero mercato” e soprattutto del processo di globalizzazione capitalistica, in nome del quale l’Europa occidentale ha abbracciato politiche fatte di deflazione salariale, delocalizzazioni, smantellamento del welfare e, dal 2008, politiche di austerità.

L’Europa si trova quindi a dover prendere atto che la guerra in Ucraina ha come retro terreno la sua economia, che uscirà completamente devastata e desertificata sul piano industriale. Eppure le istituzioni pare non abbiano contezza delle necessità impellente della pace, anzi: in questo contesto il parlamento europeo ha votato una risoluzione che riconosce la Federazione Russa come stato sponsor del terrorismo, segnando così un punto di non ritorno rispetto alla possibile soluzione politica. Una decisione che fa il paio con il decreto approvato dall’Ucraina lo scorso ottobre sulla “impossibilità di condurre negoziati” con la Russia. Le istituzioni politiche abdicano al loro ruolo, trasformandosi in strumenti della propaganda e della guerra psicologica e rinunciando per sempre a ruolo di costruttori di una iniziativa politica.

Ma soprattutto, tali decisioni mettono in evidenza come il quadrante europeo sia attraversato da faglie di rottura molto profonde: una che corre lungo la dorsale che separa in due campi l’infrastruttura comunitaria dai singoli paesi europei, un’altra che spacca in due (con notevoli eccezioni come nel caso dell’Ungheria) la “vecchia Europa” dalla così detta “nuova Europa” dei paesi dell’Est ed una terza che rompe le classi dirigenti del continente tra una frazione che lotta per difendere i propri interessi, radicati nel contesto nazionale o continentale, ed un’altra – internazionalizzata e finanziarizzata, o semplicemente cooptata – che lavora come quinta colonna degli interessi americani. Della prima faglia (tra istituzioni e singoli paesi) si hanno continui ed evidenti esempi: questa mozione del parlamento, proprio mentre è in campo un evidente tentativo diplomatico (Macron nel suo viaggio negli Usa ha ottenuto da Biden un impegno a “chiamare Putin” e convocare una conferenza di Pace a Parigi il prossimo 13 dicembre) è quanto di più emblematico ci possa essere. La seconda faglia è un dato strutturale del processo di integrazione dell’Ue. Fu Bush Jr a coniare lo slogan di “vecchia” e “nuova” Europa, mettendo in luce come l’ingresso dei paesi dell’Est nell’Ue dopo che fossero diventati membri della Nato fosse un progetto di lungo corso per il dominio americano nel continente, secondo il vecchio assioma di Lord Ismay, primo Segretario generale Nato, secondo il quale l’organizzazione serviva per «tenere dentro gli americani, fuori i russi e sotti i tedeschi». Infine, la terza faglia è quella che sta scomponendo le classi dirigenti dei paesi europei ed i cui segnali dello scontro (per nulla metaforico) sono i tubi del Nord Stream fatti saltare o aziende di settori industriali destinati a soccombere nel processo di ristrutturazione capitalistico all’interno dei paesi occidentali.

In questo quadro, l’Italia si presenta come il manzoniano vaso di coccio tra i vasi di ferro. Ostaggio di una narrazione mediatica senza pari in Europa, la politica ripete i suoi stanchi riti presentando se stessa come sempre nuova, eppure capace di una sempiterna continuità che, da Draghi a Meloni, è incapace di cambiare anche di una sola virgola. Eppure i segnali positivi non sono inesistenti. Uno di questi è stata la riuscita della manifestazione contro la guerra del 5 novembre scorso a Roma (ed il flop clamoroso della parata guerrafondaia a Milano). Certo, quella piazza non era affatto priva di contraddizioni, ma è stata capace di assolvere a due compiti essenziali. Una connessione sentimentale con la maggioranza del popolo italiano che auspica una soluzione politica e diplomatica del conflitto ucraino ed è contraria al coinvolgimento del paese in guerra, e la costruzione di un fronte (eterogeneo, quindi contraddittorio, ma) con un peso di massa ed in grado di coordinare settori diversi attorno ad un obbiettivo avanzato comune. Ora si tratta di non disperdere quel lavoro e fare un salto sul piano sociale. Lì dove lo scontro di classe si determina con tutta la sua forza ed evidenza. Costruendo un fronte attorno ad una politica patriottica e di sinistra, in grado di inserirsi nelle contraddizioni che le faglie alimentano, per salvare e difendere gli interessi di classe e popolari (e quindi anche nazionali).

È lì che i comunisti possono uscire dalla condizione di emarginazione che vivono e giocare un ruolo, in un fronte più ampio, nuotandovi come pesci nell’acqua.

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